Paolo Delle Monache
Frantz Fanon, nato nella Martinica – ex colonia francese –, si è adoperato fino alla morte per la decolonizzazione di tutti i popoli oppressi. Un altro e non meno oneroso compito di decolonizzazione abbiamo oggi: cercare di distinguere il grano – molto poco e raro – dal loglio – nelle forme di esercizio del potere. Impastate come sono di immaginario, quando non composte esclusivamente da materiali immaginari, manifestano forme di oppressione della libertà che non si capisce se siano più subdole o più pericolose. Del resto le narrazioni dominanti sono sempre quelle dei vincitori, e così il cerchio si chiude. È quasi solo l’arte che riesce a svelarne le maglie. È il caso di William Kentridge, una specie singolare di cantastorie. Ma, a differenza dei bardi del passato, Kentridge canta ben altre storie. Rovescia il punto di vista: canta per i “dannati della terra”, utilizzando l’espressione di Fanon. Parlando con gli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Palermo, Kentridge rilancia la sua poetica di bardo dei dannati. Il racconto inizia dal mito di Perseo e la Medusa, che il padre gli narrò una volta da bambino. Lentamente, dal mito passa alla storia: le sconfitte e i trionfi degli ultimi, e durante la narrazione riattualizza l’epos come genere narrativo e l’energia dell’errore come metodo. In questo procedere riprende un’intuizione di Walter Benjamin, per il quale “l’essenza dell’accadere mitico è la ripetizione”, ma a ripetere questa volta sono i vinti e l’artista stesso che, come un mimo, cerca qualcosa che gli sfugge: non si stanca di narrare e ricreare trionfi e lamenti, cadute e resurrezioni, come se non fosse all’altezza di ciò che sta narrando. Dice agli studenti che la prova dell’arte, nella sua opera, passa attraverso l’idea di comunità narrativa e per il sincretismo sensoriale del corpo e delle sue avventure. E aggiunge, poi, che all’atrofia dell’esperienza, generata dall’impero digitale, contrappone blocchi di corpi, suoni e voci assemblati come un composto che reintegra in una contro-narrazione critica le vite di scarto.
La chiave per comprendere la potenza dell’arte di Kentridge è considerare il ruolo dell’illusione nel suo lavoro e nelle sue opere. In Kentridge la scena primaria è anteriore alla scena estetica. L’attenzione all’antecedenza è una via di particolare importanza, ancorché trascurata, per comprendere molte delle nostre espressioni. Se l’arte e l’estetica spesso gestiscono in modo convenzionale l’illusione che tende a neutralizzarne gli effetti estremi, in Kentridge assistiamo a un rovesciamento di questa prospettiva. L’illusione si propone come codice caratterizzante e genera immagini che provocano e attendono di essere colte, trasformandosi in un archivio di lacune, di omissioni, di errori. L’illusione, dice Kentridge, ci predispone all’inatteso e scendendo delicatamente verso il contatto si trasforma in una forma figurativa della congiunzione: la danza, le ombre, i suoni, i lamenti, il reale oscillano intrecciandosi in un unico moto orizzontale, come una processione. Qui l’illusione di Kentridge si fa critica verso quelle immagini abbellite che occultano le lacune della storia. L’illusione non è l’opposto della realtà. A che servono le immagini se non ne facciamo un’esperienza che coinvolga i sensi, cioè il corpo? Nelle opere di Kentridge le immagini passano per le mani, per il corpo e ne subiscono gli accidenti, le imperfezioni, sono incidentate dalle scosse e dai traumi che le fanno diventare altro da quelle per le quali erano state pensate.
“Kentridge non si stanca di narrare e ricreare trionfi e lamenti, cadute e resurrezioni, come se non fosse all’altezza di ciò che sta narrando”.
Si potrebbe dire che Kentridge guarda all’arte come pharmakon in funzione di un’epica liberatoria dello sguardo. Si tratta di una scelta di campo dove emerge una sola questione: si è sicuri soltanto della propria incertezza.
Una doppia violenza del potere, allorquando si manifesta come dominio, è possibile per le singolari modalità con cui il potere si combina e impasta con i simboli. Un’epica manipolatoria dello sguardo allora si instaura e si propone con successo come risolutrice di ogni incertezza rispondendo, purtroppo, efficacemente all’angoscia di certezza.
Perché doppia?
In primo luogo, perché ogni forma di potere implica comunque l’intervento e la violazione di mondi altri. Anche negli stili di esercizio del potere più democratici e attenti alla partecipazione, intervenire è condizione costituiva.
Quando le forme del potere ricorrono a una diffusa manipolazione dei simboli, poi, riducono o abbassano quasi del tutto la capacità di distinguere, criticare, riflettere, favorendo prima, e determinando successivamente, una tendenza, come dice Freud, a “ululare con i lupi”, portando al centro le emozioni massive e causando un pensiero a massa. Il potere diventa dominio e si affermano e prevalgono le sue cattive forme.
A giocare la funzione principale nell’affermazione delle forme del potere sono i simboli. È la semiosi del potere a determinare i suoi effetti e la sua presa materiale.
Fino a quando il simbolico mantiene la connessione fra le sue due essenziali componenti: il reale e il suo significato, la sua falsificabilità è almeno in parte possibile, e l’immaginario che ne deriva svolge la sua funzione generativa, come ha mostrato Cornelis Castoriadis occupandosi di costruzione immaginaria della società.
Nel momento in cui la colonizzazione dell’immaginario pervade e disconnette il rapporto tra simbolico e reale, sussumendo il simbolico nell’immaginario, la falsificabilità dei segnali e dei messaggi va in crisi o si dissolve. La potenza manipolativa del dispositivo immaginario-simbolico si afferma con effetto di verità e neutralizza il dubbio e la riflessione, divenendo un habit con forte capacità di coinvolgimento e rassicurazione.
Mezzi mai esistiti e sperimentati compongono oggi macchine dell’immaginario che fanno impallidire le pur portentose macchine del passato, come quella di Pericle o quella nazista, fatti salvi gli scopi e gli esiti, naturalmente.
La disconnessione del simbolico dal reale e il suo assorbimento nell’immaginario ne delineano la tirannia e rendono molto difficile se non neutralizzata la capacità di controllo democratico, trasformando coloro che dovrebbero controllare, i cittadini, nei principali sacerdoti replicanti e attivatori del conformismo gratificante. Sono esclusi da un controllo effettivo e da una partecipazione effettiva ma si sentono inclusi e protagonisti. Le minoranze attive, qualora provino ad esistere, risultano, almeno fino a un certo punto, parallele al sistema dominante e non riescono ad incidere quando non sono perseguitate.
Tutto è segno, dalle parole alle cose, e accade, in una particolare contingenza storica come quella che stiamo vivendo, che le menti individuali e collettive, ma prima ancora i corpi, si consegnino ad una composizione adesiva e agglutinante, che incorpora e fa propri gli orientamenti e le scelte di intere comunità, portando al sonno della ragione.
Sono le nuove forme del potere di cui ci eravamo occupati esattamente quaranta anni fa in un seminario anticipatore voluto da Giovanni Pellicciari.
Come accade?
E perché non ci accorgiamo che emozioni massive spingono comportamenti a massa, appunto, che ci conducono in baratri che si succedono uno più distruttivo dell’altro, nel tempo?
L’attacco e la colonizzazione del simbolico sono la nuova forma del potere, fino a configurare una inedita forma di tirannia, tanto più problematica in quanto la sua apparente e suadente modalità non è riconosciuta per quello che è dai tiranneggiati.
Come la colonizzazione del cosiddetto nuovo mondo ha provocato il grande crollo, secondo la definizione di Chinua Achebe, al punto che i colonizzati non potranno mai più sapere come sarebbe andata se non fossero stati sottomessi e il flusso della loro evoluzione storica non fosse stato tragicamente interrotto crollando sotto il tallone dei colonizzatori, allo stesso modo crolla l’esperienza del reale nella foresta o labirinto dei simboli e della loro manipolazione che colonizza il nostro immaginario.
Non sembra trattarsi di un processo di esclusione, ma di persecuzione occulta e suadente. Una crudeltà cosciente passata per libertà di accesso e di espressione, al cui gioco è molto difficile sottrarsi: si può non starci?
Una prima risposta sta nel fatto che il potere dei simboli è più influente del potere delle cose.
La ragione è abbastanza semplice: dal momento in cui, con l’evoluzione, la specie ha acquisito il comportamento simbolico, per noi umani la via dell’accesso al reale è divenuta quella simbolica.
La cosa in sé ha smesso di esistere ed è divenuta irraggiungibile se non attraverso i simboli che le conferiscono significati, essendo noi dei costanti e inesausti cercatori di significati.
L’alchimia della composizione adesiva alla seduzione simbolica è una delle più efficaci e pervasive dinamiche, per quanto riguarda il coinvolgimento. Allo stesso tempo, e proprio per questo, è una delle più difficili da svelare e, soprattutto, da far riconoscere a chi ne è coinvolto.
Ecco esplicitato il problema che stiamo vivendo, che vive la democrazia come forma di governo, e che mette in discussione la nostra libertà con la paradossale situazione di essere convinti di essere liberi della libertà liberista: la libertà di consumare, con la continua ansia di accedere a quote sempre più ambite e sempre più irraggiungibili di merce. Di quella merce che per essere prodotta distrugge quel che resta della vivibilità del pianeta e dell’ecosistema di cui siamo parte. Di quel lavoro che è simbolizzato come emancipante e che allo stesso tempo è impossibile da trovare e, se c’è, è sempre più alienante da vivere.
La questione di cosa sia la violenza, a fronte della sua dematerializzazione, è tutta da ripensare. Si presenta soprattutto come diniego e gli stessi simboli che sembrerebbero volti ad affermare qualcosa sono quelli che di fatto la negano, quella cosa, in una dinamica che Pierre Bordieu ha definito da “avversari complici”.
Eppure, quella merce e quei simboli creano il più sofisticato, assiduo e saturante tessuto simbolico che ci avvolge in una nuvola costante di gas asfissiante che si presenta ed è vissuta come profumo di libertà.
Come può accadere che aderiamo a qualcosa che si propone come esca di libertà e di fatto, se scostassimo almeno un poco le tende, ci presenterebbe lo scenario di un dominio immateriale e subdolo che ci toglie l’accesso alla libertà di scelta e ad un rapporto autentico con gli altri e le cose?
Due indicazioni per comprendere e cercare di aprire gli occhi, sporgendoci dalla nuvola tossica di un simbolico saturante e dal suo dominio, possono venire, tra l’altro, da una attenta e impegnativa analisi di alcuni dei nostri caratteri distintivi.
Che cosa vuol dire che siamo una specie simbolica?
A partire dalle ricerche di neuroscienze comparate, il significato del pensiero simbolico va dallo scambio coevolutivo tra linguaggio e cervello avvenuto in oltre due milioni di anni di evoluzione degli ominidi, alle ripercussioni etiche seguite all’accesso più recente da parte dell’uomo ai pensieri e alle emozioni degli altri uomini. In base ad una visione dei meccanismi della mente che consentono una concezione più ampia dell’avventura dell’essere umano, come emerge dagli studi di Terrence W. Deacon, in particolare ne La specie simbolica, si evidenzia una coevoluzione tra linguaggio e cervello.
Il ruolo del contesto in questi processi diviene cruciale. Rimane il fatto che l’avvento del comportamento simbolico ci ha trasformati nella specie che non solo è, ma si crea. Non possiamo fare a meno di crearci mediante i materiali – simboli che emergono dal nostro rapporto con le cose – definendo di fatto in tal modo le nostre effettive possibilità e i nostri vincoli, che sono nostre proiezioni.
Possibilità e potere hanno la stessa radice.
La questione diventa allora che uso fa ognuno della quota di potere o pratica del possibile che ha a disposizione: prima di tutto se la riconosce e poi se la usa con una relativa autonomia e libertà. Oppure la consegna e si consegna a chi propone adesioni acritiche e totalizzanti con promesse di primazia e sovranità alimentate principalmente da simboli seducenti.
Indossiamo, insomma, la passione o la maschera che il processo di manipolazione adotta e che di volta in volta ci seduce? Come avevo provato a mostrare qualche anno fa con un piccolo libro il cui titolo era, appunto, La passione e la maschera.
Il problema insomma è se ognuno è potente o potuto.
A caratterizzare, inoltre, la nostra esperienza è l’incompletezza generativa, che però è anche esigente di continuo riempimento del vuoto che da quella incompletezza deriva. Del resto, è la vita stessa che esiste come tale in quanto è incompleta: vivente vuol dire in sostanza che tende a realizzare continuamente quello che ancora non è e che se fosse sarebbe completo, cioè privo di spazio del possibile. È mediante la proiezione simbolica che tendiamo all’oltre rispetto all’esistente, elaborando in tal modo la nostra incompletezza, come mostra ancora Deacon in Natura incompleta.
I simboli funzionano perché siamo nati per credere e la gente deve credere in qualcosa, mentre il cinismo del dominio non smette di cercare le sue soddisfazioni.
Siamo incompleti perché sappiamo pensare oltre le cose e l’esistente.
Se non fossimo incompleti non saremmo capaci di creare.
Siccome siamo capaci di creare, creiamo sia simboli che manipolazioni estreme di simboli.
Elaboriamo la nostra incompletezza creando simboli e cercando contenimento per le nostre angosce di base, in primo luogo per far fronte al nostro corrosivo sentimento di finitudine. Pur di cercare una via per riuscirci accettiamo con un sorriso ebete sulle labbra, e l’obbligo autoimposto di fare festa, una sistematica inclusione escludente.
Dovremmo cercare incessantemente la via dell’unitasmultiplex e considerare i fatti e i significati dei fatti, facendo nostro il monito di Aleksandr Lurija:
“Gli studiosi classici sono coloro i quali analizzano gli eventi nei termini dei loro elementi costitutivi. Passo dopo passo essi individuano le unità fondamentali e gli elementi per formulare infine delle leggi astratte, generali. Queste leggi vengono quindi interpretate come gli agenti che governano i fenomeni in quel determinato campo di studi. Un risultato di questo approccio è la riduzione della realtà vivente, con tutta la sua ricchezza di dettagli, a degli schemi astratti. Le proprietà dell’unità vivente vengono perdute, il che induce Goethe a scrivere: “Grigia è ogni teoria, ma sempre verde è l’albero della vita”. […] Per i romantici è di eccezionale importanza conservare la ricchezza della realtà vivente ed essi aspirano ad una scienza che conservi tale ricchezza”.
Possiamo cercare di contenere la prevaricante colonizzazione simbolica solo creando simboli miti e miti improntati alla mitezza, e non certo negando la rilevanza dei simboli; così come possiamo contenere le tendenze alle forme totalitarie del potere che sfocia in dominio, solo creando forme di esercizio del potere basate sulla temperatura del loro stesso superamento, in cui la maggioranza eserciti il proprio ruolo ponendo al primo posto lo scopo controintuitivo di dar voce alla minoranza e, mentre esercita la responsabilità di governare, lavori per la propria sostituibilità.