C’è chi insegna
guidando gli altri come cavalli
passo per passo:
forse c’è chi si sente soddisfatto
così guidato
C’è chi insegna lodando
quanto trova di buono e divertendo:
c’è pure chi si sente soddisfatto
essendo incoraggiato.
C’è pure chi educa, senza nascondere
l’assurdo ch’è nel mondo, aperto ad ogni
sviluppo ma cercando
d’essere franco all’altro come a sé,
sognando gli altri come ora non sono:
ciascuno cresce solo se sognato.
Danilo Dolci
Il teatro, lo sappiamo, è una straordinaria metafora della vita, ed è la rappresentazione della finitudine dell’uomo, dei suoi fallimenti, delle sue miserie interiori, ma anche della sua nobiltà d’animo, della sua dignità, della capacità di amare l’altro senza condizioni. La vita, per converso, è il teatro dell’ambiguità, ossia di quella condizione strutturale, contraddittoria e generativa insieme, che rende possibile ogni decisione in un senso o nell’altro e perciò l’esercizio etico della responsabilità individuale. Verso se stessi e verso gli altri. Il nostro stato d’animo è continuamente attraversato da conflitti interiori, veri e propri “corpo a corpo” con sé stessi che fanno soffrire particolarmente quando arriva l’ora di scelte radicali, come il congedarsi da qualcosa o da qualcuno, o l’abbandonare un incarico professionale, oppure la rinuncia a un ruolo pubblico di prestigio, o anche quando si lascia il lavoro per la pensione. La vita, con le sue ordinarie e incerte e ingovernabili dinamiche, spesso anche ingiuste e insensate, magari indotte o decise da altri, ci mette nella condizione obbligata, anche quando non desiderata, di fermarci, spingendoci ad uscire di scena, spesso anche verso l’ignoto di altri allestimenti esistenziali. Qualcuno, non sopportando l’assurdo della vita, esce di scena anche in modo estremo, tragico.
L’arte di scomparire
Il drammaturgo inglese Ronald Harwood in un suo intrigante testo teatrale dal titolo “Servo di scena”, recentemente rappresentato anche nel nostro paese, problematizza con arguzia e spietatezza, e non senza ironia, proprio questa difficile prospettiva esistenziale. L’autore, infatti, usando un linguaggio meta-teatrale, mette in scena l’epilogo della carriera di un attore a capo di una piccola compagnia teatrale, ormai a fine percorso, indisponibile e incapace di compiere il doloroso passo d’addio al palcoscenico, sia per un eccesso di amore di sé, fino al narcisismo, sia per la grande passione per il teatro, che è stato tutta la sua vita. Nel “non posso, non devo e non voglio” pronunciato da sir Ronald – così si chiama l’attore raccontato da Harwood – c’è tutta la sua riluttanza al congedo dalla scena dopo una vita colma di successi. Eppure, paradossalmente, resistendo al tempo e all’età, magari andando incontro a qualche dafaiance, per il timore di essere dimenticato dal suo pubblico, il grande attore rischia di lasciare al mondo un cattivo ricordo di sé.
L’interrogazione esistenziale di sir Ronald rispecchia la nostra domanda quotidiana, quella sul come stare al mondo, nella ricerca costante, acrobatica spesso, di trovare o non perdere quell’equilibrio emotivo-affettivo e razionale, che si gioca tra il desiderio del riconoscimento di sé da parte dell’altro, e l’autosufficienza narcisistica, che dell’altro fa a meno. Esiste, secondo Pierre Zaoui, una terza via (alla felicità) che non poggia né sul possesso e soddisfazione dei beni, né sul possesso e soddisfazione di sé. È una felicità che giunge per sottrazione: “sottrarsi ai vani giochi delle immagini di sé e delle ambizioni personali; sottrarsi alle cose che si posseggono come a quelle che non si posseggono; sottrarsi alla paura di perdere come alla paura di non avere più nulla da perdere – di essere senza mancanza, senza vuoto, senza movimento, morti” (P. Zaoui, L’arte di scomparire, Il saggiatore, 2015). Vivere con discrezione è uno stile alimentato dalla virtù, al quale ci si educa, o meglio co-educa nella relazione con gli altri e col mondo, che dà la misura e il perimetro delle cose, lavorando incessantemente su sè stessi, attraverso – direbbe Friedrich Nietzsche – “un lungo esercizio e un quotidiano lavoro”.
Il lungo esercizio e il quotidiano lavoro dell’educazione
Bisogna allora chiedersi quali sono le falle aperte nei processi educativi spesso più attenti alla cura della performance e dell’empowerment individuali che dell’intersoggettività e perciò del senso del limite e del fallimento, condizioni essenziali per la maturità emotiva. Processi formativi investiti da influenze culturali di carattere moralistico e ideologico, che invece di sostenere la crescita della persona e delle relazioni nella complessità, si trasformano in un ostacolo nello sviluppo dell’individuazione del sé. Oggi l’intersoggettività – il noi – è chiamata a fare i conti con la “società automatica”, portato del capitalismo iper-industriale di cui ha parlato Bernard Stiegler, una forma di sorveglianza e di iper-controllo sulle esistenze che ha separato aisthesis e semiosis – il sentimento dal significato – generando miseria simbolica, collasso del senso, conformismo, e, soprattutto, la crisi del legame sociale, fondativo dell’individuazione del sé. La “società automatica” attraverso la pervasività del digitale tende a omologare le persone finendo per distruggere quel “narcisismo primario”, del quale parlava Freud, che sorregge la costruzione di un soggetto autonomo e perciò capace di relazione con l’altro. Bernard Stiegler ha ripreso tale concetto segnalando come questa società a trazione tecnologica e consumistica, che profila e massifica le persone, dando valore all’esteriorità e all’apparenza, finisca per annullare l’io e quindi anche il suo desiderio di apertura all’altro, minando così qualsiasi costruzione del “noi”: “dal momento che non mi amo più, e che non amo neanche gli altri, ogni forma di trasgressione diventa possibile: non c’è più limite alla mia azione [che] può diventare passaggio all’atto della follia pura” (B. Stiegler, Amare, Amarsi, Amarci – in A. Porrovecchio, a cura di, Mimesis 2014).
Per arrivare a sentire l’altro e a sentire con l’altro e generare una sensibilità del noi non esistono tecniche, ma solo quel lungo esercizio e quotidiano lavoro di nietzschiana memoria che – come avverte Salvatore Natoli – è una pratica della virtù che non ha a che fare ne con l’abnegazione, né con la rinuncia, ma con la trasformazione del brutto in sublime, ed è la via maestra per la realizzazione di sé, originando, per dirla con Foucault “un’estetica dell’esistenza” (S. Natoli, L’edificazione di sé, Istruzioni sulla vita interiore, Editori Laterza, 2010).
Dal complesso di Atlante al mito di Sisifo
Uscire di scena è un’arte che emerge allenando alla virtù la parte migliore di sè, soprattutto di quella disposta a fare il bene, ma che se si ammanta di buonismo degenera nel “complesso di Atlante”. Atlante, figura della mitologia greca, fu condannato dagli dei a portare sulle spalle l’intera volta celeste per espiare le sue colpe. La sindrome di Atlante in chiave psicologica colpisce chi immagina di portare tutto il mondo addosso, che si alimenta di sensi di colpa, e che si esprime in una iper-responsabilizzazione verso gli altri e verso gli accadimenti, un’azione che relativizza, in nome di un impegno totalizzante, quei bisogni e desideri personali che consentono la piena espressione e buona riuscita di sé, e quindi la libertà.
Calcare la scena del mondo è un atto di responsabilità se si è capaci di accettare, come direbbe Albert Camus, l’assurdo della vita, per scoprirne nel rapporto con esso il senso: tra sopportazione di sé e del proprio fardello, rivolta contro l’esistente, e fatica e bellezza del rapporto con gli altri e con il mondo. “Non preoccuparti, anima mia, per una vita immortale, ma esaurisci la portata del possibile” è il richiamo di Camus nella sua interpretazione del mito di Sisifo (A. Camus, Il mito di Sisifo, Giunti Editore, 2017). Sisifo, anch’egli figura della mitologia greca, è un uomo condannato dagli dei a trasportare ogni giorno per l’eternità un masso sulla cima di una collina, una pietra che tuttavia rotola costantemente a valle e che Sisifo ha l’onere di riportare ogni volta su. Il mito di Sisifo ha una cifra educativa illuminante, nel pensiero di Camus: “Così, persuaso dell’origine esclusivamente umana di tutto ciò che è umano, cieco che desidera vedere e che sa che la notte non ha fine, egli è sempre in cammino (…) tutta la silenziosa gioia di Sisifo sta in questo. Il destino gli appartiene, il macigno è cosa sua. Parimenti, l’uomo assurdo; quando contempla il suo tormento, fa tacere tutti gli idoli”. Di Sisifo, ad esempio, i maestri di Strada di Napoli ne hanno fatto un riferimento importante nei loro percorsi educativi per adolescenti: “basandoci sulla reinterpretazione di Camus – dice Cesare Moreno, presidente dell’Associazione – ci domandiamo come si possa immaginare Sisifo, l’uomo che si prese gioco degli dei, felice mentre trasporta per l’eternità il suo assurdo masso. L’idea è di costruire questa grande pietra evocando i fardelli personali e collettivi che ognuno porta con sè su e giù per la montagna, ricominciando ogni volta daccapo”.
Etica ed estetica dell’esistenza
Nella sua lucida elaborazione scientifica, Ugo Morelli sostiene che “la volgarità, e non la bruttezza, si propone nel nostro tempo come il contrario della bellezza; così come l’indifferenza, e non l’odio, è il contrario dell’amore […]. Fino a quando la bellezza rimarrà identificata con un canone esteriore, non riusciremo a sentirla agire in noi per quello che effettivamente può fare: estendere e aumentare le nostre possibilità, le nostre azioni e la concezione di noi stessi” (U. Morelli, La bellezza è una domanda, Doppiozero, 28 dicembre 2017). Considerazioni che si collegano alle parole, rimaste inascoltate secondo Morelli, di Josif Brodskij secondo cui l’estetica è la madre dell’etica, perché la contiene, completando una diagnosi e un progetto per cambiare la nostra vita. E’ questa una bussola fondamentale per indirizzarsi nelle direzioni di un futuro prossimo, che sia possibilmente diverso dall’esistente e per orientare alla trasformazione del mondo le nostre azioni soggettive e collettive. Se etica ed estetica sono in relazione tra loro, l’estetica dell’uscita di scena rivela anche la natura di ciascuno di noi, e soprattutto si fa, anche silenziosamente, paradigma critico di ogni automatismo esistenziale, del conformismo diffuso, dell’omologazione del pensiero e dei comportamenti, mali radicali del nostro tempo. Nell’uscire di scena conta la forma che si sceglie che rende immediatamente trasparenti le motivazioni e gli ideali che hanno mosso e muovono azioni, decisioni, responsabilità, relazioni. Quanto più questo impegno sarà stato orientato a costruire legami e realizzazioni collettive, quanto più avrà avuto la capacità di aggregare altri attorno a un senso condiviso, e se sarà stato finalizzato a costruire con (cioè insieme) e non per (un fine individuale), tanto più l’uscita di scena sarà feconda e generativa di una realtà che continua e che mantiene vivo il germe dell’innovazione. Una realtà della quale non si diventa proprietari, ma a cui si appartiene e soprattutto che appartiene ad altri perché pensata con e per gli altri. Tenere insieme l’estetica con l’etica, partendo dalla bellezza come bene comune capace di trasfigurare persone e relazioni, e dalla “sensibilità del noi”, è la possibilità che abbiamo di aprire varchi alla felicità soggettiva e collettiva, la felicità per sottrazione che mantiene aperta la dimensione della mancanza e perciò del desiderio. Uscire di scena non chiede di abbandonare il campo, ma un ritrarsi per far crescere l’altro/a, e per farsi a lui/lei vulnerabili e trasformare nel segno dell’ospitalità e della fraternità il palcoscenico del mondo.