Partire mettendo le mani avanti è sempre sgradevole, non tanto per chi scrive quanto piuttosto per chi legge. Eppure la premessa questa volta è quasi un obbligo ed ha il compito di fungere da monito: chi sta dedicando un po’ d’attenzione alla lettura di queste righe non ha bisogno di proseguire oltre.
L’esperienza che vi ha portato qui, ad aprire questo contributo, è infatti il contenuto stesso di quel che si vuol provare ad esaminare ora. Che cosa avete fatto? Vi siete fermati, avete messo in pausa la vostra routine e vi siete presi un momento per dedicarvi alla lettura di qualcosa che – almeno nell’intento di chi scrive – vi faccia riflettere. (Se leggere questo tipo di articoli fa parte del vostro quotidiano chapeau, ma non vale, provate a fare altro).
Fermarsi, già. Non capita forse che, a parole, professiamo con convinzione il bisogno di rallentare, di prendere un momento per riflettere, per leggere quel libro che ci guarda da troppo tempo dalla mensola, un attimo per coltivare la parte pensante di noi, per sviluppare un ragionamento? Sicuramente i vostri “perché” sono validi, resta il fatto che fermarsi tende ad essere una cosa che si fa poco.
Il guaio è che fermarsi e fare pulizia, pensare il proprio essere, il proprio fare e modi nuovi di essere e di fare il proprio fare, non è soltanto un vezzo o un eccellente proposito per benpensanti, ma un’esigenza che avvertiamo in quanto esseri umani, un bisogno che abbiamo per essere umani (causa e destinazione). Affinché in una stanza non vi sia odore di stantio, occorre almeno di tanto in tanto aprire una finestra ed arieggiare: così siamo noi nel ristagnare arido dei nostri pensieri e nella ridondanza dei nostri ragionamenti se non alimentiamo la brace del pensiero, che richiede necessariamente una sospensione dall’ordinario e un abbeverarsi ad uno stimolo nuovo. Quando diciamo che abbiamo bisogno di fermarci, il nostro bisogno è reale ed avvertito come tale. Capire qualcosa della realtà, che cosa accade nella nostra vita, scegliere chi votare o se cambiare lavoro, raggiungere l’idea per un progetto o trovare le parole per dire qualcosa di significativo a qualcuno: non c’è una di queste azioni che non ci richieda di fermarci e, se ci fermiamo un momento a pensarci, nella nostra vita c’è poco di fondamentale che sfugge a questa azione.
Un bisogno che diventa spesso dolorosamente necessità: conviene non trascurare uno spiccio esame della nostra realtà occidentale, in cui l’accumulo di stress e fatica dovute ad una attuata narrazione del fare, fare, fare ad ogni costo porta sempre più persone ad un’esperienza di burnout o esaurimento nervoso. Non è forse divenuto culturale che gli impiegati delle nostre aziende ricevano l’informativa sullo stress lavoro-correlato appena assunti e che si dedichi (per fortuna!) sempre più attenzione alla sostenibilità dei ritmi di lavoro? Risucchiati ed alienati da una realtà che ci tiene retoricamente “sempre sul pezzo”, ancor più tocchiamo con mano l’esigenza di fermarci per cambiare l’acqua al nostro vaso.
Eppure le finestre le apriamo poco e sovente lasciamo i fiori a marcire.
Il modo in cui ci comportiamo nei confronti di questo nostro bisogno è tale per cui fermarsi è un paradosso. Questo concetto che risveglia antiche diatribe etiche, letteralmente significa «contro (parà) l’opinione (dòxa)» ed indica pertanto ciò che va contro l’opinione o contro il modo di fare comune, e quindi sorprende perché strano. Il termine fu usato già dagli stoici, per designare quelle tesi che apparivano contrastanti con l’esperienza comune ma che, all’esame critico, si dimostrano validi. Non l’avvertenza del suo bisogno, ma la scarsità della sua messa in pratica rende l’esercizio del fermarsi paradossale, cioè propriamente contro il modo di fare comune, financo strano ancorché valido alla prova dei fatti! Talmente è paradossale il fatto che ci fermiamo così poco pur avendone essenzialmente bisogno, che l’atto stesso di fermarsi diventa un paradosso.
Il punto è che fermarsi è un’attività che l’essere umano non compie spontaneamente (o almeno non ancora). Questo fatto ha a che fare con il nostro sviluppo e ci racconta la nostra storia biologica, per cui nella maggior parte del tempo trascorso da quando la nostra specie calca il pianeta Terra, ci ha premiati piuttosto essere veloci a correre per scappare da un pericolo piuttosto che stare fermi a fare la disamina dello stesso che ci viene incontro. Ciò è particolarmente decisivo per comprendere l’impasse di cui vive il paradosso. Recenti studi sul funzionamento del cervello umano mostrano chiaramente come abbiamo reazioni ai pericoli basate sulle emozioni molto prima di avere coscienza dell’oggetto della nostra reazione: si prova paura e si inizia a reagire alcuni millisecondi prima di capire che si ha davanti un serpente [cfr. N. N. Taleb, Il cigno nero, il Saggiatore, p. 101]. Almeno per oggi, siamo fatti così e ciò che ci precede ci determina: pur essendo il pensiero certamente una delle nostre cifre specie-specifiche più decisive, esercitarlo ci costa uno sforzo tutt’altro che banale.
Non ci sono molti antidoti a questa pigrizia genetica. La verità è che fermarsi costa fatica. Proprio quella che ci si dice di aver già fatto a sufficienza oggi/in questo ultimo periodo/in virtù dell’età anagrafica fatta valere quale misuratore della fatica accumulata in una vita/della situazione familiare attuale/… e che ci autorizza a non aprire quel libro, a non leggere quell’articolo segnalato in rete, a non curare quel momento importante o a prendere quell’impegno altro che sappiamo ci farebbe bene perché sarebbe una fermata diversa dal vissuto quotidiano.
Ma è la fatica che infine riusciamo a fare e ciò che ne traiamo che essenzialmente ci cambia, ci plasma, ci determina personalmente e ci valorizza, tanto a livello personale che intersoggettivo.
E in fondo, è pur vero che siamo anche questo. C’è da essere felici nel regalarsi la fatica di fermarsi.