“Non ha importanza cosa sia stato detto o fatto
Gli occhi sanno.
La capacità di giudizio della mente
Non bada alle apparenze e alle parole
Niente è finito e concluso per sempre.
Niente.
Neppure la tua cattiveria.
Meno che mai la tua cattiveria.
Così, non chiedermi scusa”
[Jack Henry Abbott, J. H. Abbott,
Nel ventre della bestia,
Derive e approdi, Roma, 2014, pp. 21-22].
Le narrazioni di questi ultimi mesi ripropongono qualcosa di già detto, già noto, già dimenticato. Il carcere, ‘l’isola grigia’, appare in queste narrazioni e poi scompare, come una nave fantasma, nell’orizzonte civilizzato delle nostre coscienze. Di quel luogo di solito noi vediamo solo le mura, le finestre con le sbarre, il cancello. Le chiamiamo le ‘isole grigie’ per ricordare ciò che Primo Levi scriveva della zona grigia, parlando di lager (ma si potrebbe applicare la stessa descrizione ad altri luoghi che nascono per separare e per contrapporre): ‘grigie’ perché tutte uguali, ‘isole’ perché per raggiungerle occorre attraversare un limite.
Anche quest’anno, come ogni estate, si ripresenta l’allarme, l’emergenza dei suicidi in carcere. Anche quest’anno, come ogni estate, siamo pronti ad indignarci per poche ore (o minuti) di fronte alle esistenze interrotte che ci urlano dalle pagine della cronaca. Anche quest’anno, come ogni estate, riprenderemo la nostra routine ricordandoci che siamo in vacanza.
Abbiamo deciso di tornare a scrivere di suicidi in carcere nonostante l’irritazione, il fastidio, il dolore. Abbiamo deciso di scriverne partendo dal ‘fermo immagine’ che da sempre accompagna chi il carcere lo vive, lo subisce, lo abita, ci lavora, ne esce. Le donne e gli uomini del reato vivono nell’immobilità di un tempo che li blocca nel passato, sul danno arrecato dal proprio gesto, in un tempo, quello che vivono in carcere, che è un ‘tempo senza fine’, senza un fine, immobile e disattivante, che non consegna futuro.
Fermi nello spazio: nelle stanze di pernottamento, pochi metri quadrati dove abitare da soli o insieme ad altri (si vive una condizione di estrema familiarità nella non familiarità); il movimento è segnato da orari e permessi che dipendono da altri e nella condivisione di gesti che sembrano non appartenere, sotto perenne osservazione, immobilizzando un diventare che è semplice abitudine e ripetizione.
Fermi nel tempo: il carcere è diventato sempre più costrizione della dimensione temporale e biografica delle persone ristrette. Il passato è lì sempre evocato e presentificato, il futuro è lontano, impalpabile e non sognabile. Le giornate sembrano scorrere tutte uguali, si cerca la continuità là dove esiste solo la discontinuità della separazione dal proprio mondo e dai propri affetti.
Soggetti fermi e fermati nel tempo e nello spazio, nella trasformazione tanto agognata e richiesta.
L’aria stessa diventa ferma. “Aria ferma” è il titolo del bellissimo film di Leonardo di Costanzo che ha restituito (a chi il carcere lo conosce ma anche a chi non ci ha mai messo piede) una atmosfera fatta di movimenti relazionali e di sguardi incrociati. Il film entra dentro il carcere e mostra quello che ‘dentro’ succede, ‘dentro’ il corpo-ventre del carcere. Si scopre che in carcere, nonostante tutto, esiste una comunità, che appunto non conosciamo se non per semplificazioni e retoriche. Si ‘incontrano’ due mondi, i detenuti e i lavoratori penitenziari, in una zona franca, una zona di mezzo, che è lo spazio della negoziazione. Sembra di assistere nel film ad una partita a scacchi: ci sono movimenti, avanzamenti, retrocessioni, pedine che cadono, un gioco di sguardi e di gesti. Due mondi e due ruoli, due divise diverse, che per convivere tracciano un ‘campo’ nel quale sperimentare che per rimanere sé stessi occorre anche sapersi lasciare trasformare dall’altro.
Prima di parlare di carcere, infatti, occorrerebbe guardarlo, vederlo, ri-conoscerlo. Non una visione frettolosa e distratta, ma uno sguardo esigente, diretto, interrogante, determinato.
S-guardo dentro. Ci guardo dentro. Mi ci soffermo.
Fermo immagine quindi.
Prima fotografia.
Titolo: 27 anni.
27 anni è la durata di un ergastolo. Una vita. Dentro le carceri italiane gli ergastolani sono in realtà una piccola percentuale. I numeri – come si vede dal prezioso lavoro di Antigone, che con il suo rapporto annuale che fotografa le carceri italiane sotto diversi aspetti; e da quello di Ristretti Orizzonti che con la sua redazione interna al carcere di Padova da oltre 20 anni raccoglie gli articoli che appaiono sui giornali sulla realtà penitenziaria e che restituisce una storia e un nome ad ogni morte che avviene in carcere – parlano chiaro: su circa 54.000 detenuti i condannati all’ergastolo sono poco più di 1800. La maggior parte dei detenuti italiani sconta pene inferiori a 5 anni e molti sono in carcere in attesa di giudizio.
Altri numeri: le donne sono 2.276, il 4,2% di tutta la popolazione detenuta. Gli stranieri sono 17.104, il 31,3% del totale. Negli ultimi anni cresce l’età media dei detenuti: gli over 40 sono il 55%, gli over 60 il 9.5% mentre 10 anni prima non arrivavano nemmeno al 5%. Si invecchia in carcere. Ci si ammala. E non solo di Covid. Tra le patologie maggiormente presenti in carcere prevalgono quelle psichiatriche e quelle legate alle dipendenze da sostanze, fragilità e vulnerabilità che si aggiungono a storie di marginalità, di fallimenti, di rotture esistenziali (e familiari).
Altri numeri interessanti: solo il 38% dei detenuti è alla prima carcerazione. Il restante 62% in carcere c’è già stato almeno un’altra volta. Il 18% addirittura 5 o più volte. La fotografia della cosiddetta recidiva: chi sconta la pena solo esclusivamente in carcere tende a ricadere nello stesso reato in oltre il 70% dei casi.
I numeri diventano sempre più importanti se pensiamo che oltre 3000 detenuti ad oggi potrebbe accedere a pene alternative: poco più di 1300 sono in carcere per esecuzione di una sentenza di condanna a meno di un anno e poco più di 2000 per una condanna da uno a due anni.
27 anni. Una vita.
Donatella ne aveva 27 di anni, si è tolta la vita nel carcere di Verona. il 47° suicidio dall’inizio dell’anno. Di nuovo il tempo si è fermato. Sui giornali la sua fotografia, un volto di giovane donna come tanti. Ma questa volta insieme alla triste cronaca del suo suicidio ci sono delle parole, chiare e inaspettate, di un uomo delle Istituzioni, il Magistrato di sorveglianza che l’aveva in carico e che ha dichiarato, di fronte alla sua morte, un fallimento. Il fallimento della Giustizia, delle istituzioni, del carcere. “Si poteva fare di più. Non so cosa, ma si poteva fare di più”. Così scrive Vincenzo Semeraro in una lettera resa pubblica ai funerali della giovane, e ci si ferma con lui, questa volta, per prendere fiato e non lasciare correre. Un fermo immagine che raccoglie e trattiene, che lega e che chiede di fare meglio, un po’ meglio. Tutti quanti. Dentro e fuori.
Seconda fotografia
Titolo: Cosa resta. Il racconto di Germana [da una narrazione contenuta in un articolo scritto e pubblicato sul numero 1/2 della Rivista Antigone, del 2018 dal titolo “Dispositivi suicidari: carcere, ergastolo, 4-bis” a cura di Claudio Conte, Maria Inglese e Germana Verdoliva].
Sin dal primo momento di lavoro in carcere la morte è messa in conto. Se ne parla con calma, come se fosse naturale e inevitabile. Si agisce con prassi, linee guida e interventi. Ma chi o cosa prepara al suicidio di una persona in carico, in cura, alla morte di un “Proprio Paziente”? Cosa lascia una morte per scelta a chi rimane?
Pensare a cosa poteva andare meglio, a quali parole o gesti sono sfuggiti, a quel saluto, quel giorno mentre il cancello si chiudeva alle spalle. Un affannarsi di riflessioni e pettegolezzi, la notizia della morte striscia fra le mura, si arrampica in tutte le scale fin su le sezioni e in ogni cella, di bocca in bocca. Un coro, tutti ci si ricorda di essere umani rinchiusi e si condivide lo stesso angosciante sentimento (“…e se succedesse a me…se mi perdessi io…”). In carcere un suicidio non è solo una scelta di morte ma diventa come un contagio, come una malattia di cui si può avere paura. Anche nell’animo del più vitale e sicuro leggiamo incertezza; l’amarezza della chiusura costringe a rivolgere lo sguardo sulle proprie debolezze e fragilità. E per chi è libero, che qui ci lavora, forse anche qualche lacrima in segreto, insieme ad un sentimento di pesante rassegnazione alla quale è difficile arrendersi. Poi si esce dalle mura e il mondo non è crollato, è tutto uguale.
Penso a quella volta che ho incontrato L. 40 anni, una storia di tossicodipendenza sin da giovane, un’esistenza fragile in lotta e in affanno con l’eroina. Gli ultimi anni prima di questa detenzione erano stati sereni, un figlio da un nuovo amore la sensazione di rivalsa e di forza. Poi la separazione dalla compagna; l’ennesima ricaduta nelle sostanze e un reato. Ed eccoci a guardarci mentre parliamo a quel tavolo in sezione. Obiettivi: il percorso in comunità, gli incontri con gli assistenti sociali e la preparazione a rivedere suo figlio. Anche uno solo di questi sembra un buon motivo per resistere. Un volontario mi aiuta a comprare degli indumenti per L. che vuole essere ben vestito per l’incontro. In quelle settimane tanti interventi assistenzialistici. L’incontro con questo bambino di 4 anni viene descritto come momento commovente in cui padre e figlio hanno giocato e sono stati insieme dopo tanto tempo. Per L. però qualcosa era cambiato, nessuno di noi lo aveva visto né capito fino al giorno dopo quando l’hanno trovato. Non ha lasciato scritti. Ma ha ben organizzato la sua morte, aspettando che gli agenti fossero impegnati, che i compagni di sezione uscissero a lavorare o all’aria.
Cosa lascia.
Lascia la necessità di pensare ad ogni avvenimento, anche più bello, in maniera diversa da come lo guarderesti in un altro contesto. Tornare in cella e vedere andare via il proprio figlio senza sapere quando si ci potrà rivedere deve essere stato intollerabile, ma questo posso solo immaginarlo. Per me quello era un giorno di vittoria, quanta fatica per organizzarlo con il servizio sociale. Per lui è stata una doccia fredda. La detenzione influenza ogni sentimento, emozione e avvenimento, i nostri strumenti per prevenire gesti auto soppressivi o autolesivi sono miopi, non bastano.
Dopo tanti anni ho potuto capire che il carcere è un luogo che più ci si rimane e più stupisce. Le convinzioni professionali acquisite a volte si sovvertono e ci si trova a dover ripartire. Il nostro compito è far emergere la sofferenza e che non si sopisca con terapie solo per adattarsi, rendere il dolore utile per sè e gli altri, ascoltato fuori dalle mura e dentro, non dimenticare come se nulla fosse, non abituarsi alla fine.
Terza fotografia
Titolo: La solitudine dei lavoratori penitenziari
Il carcere agisce come un dispositivo. Nella definizione della parola data da Foucault si trova il portato strategico della nascita di ogni dispositivo, il quale deve rispondere ad una urgenza. E quando un dispositivo non è più in grado di offrire risposte e strategie adeguate a governare il disordine dell’urgenza occorre cambiarlo. Dentro al dispositivo carcere, invenzione molto recente nel progresso dell’umanità (così come la ‘povera scienza della psichiatria’ che, guarda caso nasce proprio dentro il carcere per separare, liberare dalle catene, i folli e lasciarvi, abbandonarvi i rei) ci si occupa di strategie, leggi, procedure, ma anche di relazioni e intrecci, “del detto quanto del non detto” scrive Foucault [M. Foucault, Dit et écrits, vol. III, pp. 299-300]. Il dispositivo, quindi, coinvolge in un unico campo soggetti e parti spesso in conflitto tra loro.
In questa ultima fotografia vogliamo dedicare attenzione alla parte dei ‘lavoratori penitenziari’, poliziotti, educatori, psicologici, ma anche volontari, figure sanitarie e professionisti della scuola. Vogliamo sottolineare la parola ‘lavoratori’ in quanto c’è molta dignità nella parola lavoro che vogliamo evidenziare, pur conoscendo bene le rinunce, i compromessi, e talvolta le collusioni che si impongono a professioni che vorrebbero ed aspirano ad essere altro (pensiamo soprattutto alle nostre professioni della cura).
Una giovane collega racconta che ha deciso di lasciare il lavoro in carcere dopo pochi mesi. Non riuscendo a tollerare l’umanità e la disumanità che vi incontrava. Le dispiace non avercela fatta. E’ un lavoro duro, esigente, talvolta toglie il tempo per pensare, ti appiattisce nella ripetizione di gesti, devi saper continuamente mediare.
Il carcere impone una distanza e la separazione tra corpi e linguaggi. Non sempre si parla la stessa lingua. Si abita l’estraneità, anche tra colleghi, anche tra età e appartenenze vicine.
Ci si può incontrare in carcere solo stando sulla soglia, ci insegna Ivo Lizzola. La soglia è un luogo di passaggio, dal quale si entra e si esce, ci si aspetta, ci si convoca, rimanendo comunque in attesa del movimento dell’altro. Sulla soglia si può solo desiderare di incontrare l’altro, non lo si può obbligare né trattenere. Paradossalmente è questo il lavoro che si compie in carcere. Si richiama alla responsabilità agendola, si testimonia libertà invitando alla libertà e alla scelta, “lasciando essere senza lasciare la presa” [Per noi è questa una delle grandi lezioni che ci ha consegnato il confronto costante con Ivo Lizzola sul senso del nostro lavoro in carcere].
Eppure, i numeri ancora una volta ci raccontano storie di una presa che non trattiene. Il numero dei suicidi tra il personale penitenziario è in aumento da diversi anni. Le storie, ancora una volta, obbligano ad incontrare anche quello sguardo che, nella forte ambiguità che abita le istituzioni totali (come ci ha descritto Goffman nel suo attualissimo “Asylums”), non amiamo incontrare. Nominare questo tipo di dolore, di caduta rende necessario interrogare il dispositivo stesso della detenzione e, come ha scritto il magistrato di sorveglianza, a chiederci se è possibile fare meglio, fare di più.