Nel suo libro, definito un finissimo romanzo sul tempo, la lentezza diviene l’arte di dar senso e valore al tempo e alla vita. A distanza di anni dalla sua pubblicazione e dopo tante edizioni e traduzioni, si sente di fare un bilancio: l’umanità ha imparato a fermarsi per pensare?
Direi proprio di no. Semmai è accaduto il contrario.
Eppure, lei aveva ben individuato e descritto il fatto che lo spirito dell’iniziativa è strettamente connesso al non avere fretta…
Eh!, sì nonostante il protagonista e la sua storia. A dieci anni, infatti, John Franklin (1786-1847), colui che sarà destinato a diventare uno dei più grandi esploratori artici inglesi, non riusciva ancora ad afferrare la palla che gli lanciavano i compagni. Capisce, non capisce. Rimugina parole. Stenta a esprimersi. Un disadattato, si direbbe. Eppure, John riflette, accumula nella memoria, costruisce dentro di sé, lentissimamente, una sicurezza incrollabile.
E poi come va a finire?
A quattordici anni è pronto per iniziare l’inarrestabile ascesa che lo vedrà ufficiale di marina sulle prestigiose navi da guerra britanniche, poi al seguito di spedizioni scientifiche nell’Artico canadese; quindi, per sei anni pacato governatore della colonia penale della Tasmania ed esploratore del leggendario passaggio a nord-ovest…
Il suo messaggio rimane valido tuttora?
Più che mai! Ho voluto irridere alla cieca convulsione del nostro vivere attuale, con la precisione e il piglio che sono nella migliore tradizione letteraria a cui appartengo, quella di lingua tedesca. Come ha scritto di me Oreste del Buono: «Nadolny è uno scrittore di finezza, capziosità e suggestioni poetiche rare. La sua prosa è una continua sorpresa e la lentezza diventa, di segmento in segmento vissuto, un’avventura coinvolgente».