“Non appena io mi muovo in direzione dell’uscita, – dice il protagonista de La tana di Kafka – anche se da me ancora la separano gallerie e spiazzi, ho subito la sensazione di finire in un’atmosfera densa di pericoli, a volte mi pare di sentirmi diradare il pelame come se stessi restando lì con la mia carne nuda e cruda e come se in quell’istante venissi accolto dalle urla dei miei nemici. Certo, a provocarmi simili sensazioni è l’uscita stessa, il venir meno della protezione domestica….”. Vi è una sorta di labirinto che precede l’uscita della tana. Esso serve a confondere l’eventuale nemico che abbia intenzione di entrare. Ma. In realtà, più che essere rivolto all’altro, al nemico, all’esterno, all’insicuro e più vasto spazio che sta al di fuori della tana, il labirinto esprime la condizione di smarrimento che precede l’uscita, la tensione tra il decidere e l’esitare, il desiderio di uscire e di restar fuori insieme al desiderio di restare dentro la tana.
Desiderio viene dal latino. Significa privo delle stelle. Dunque comporta una mancanza, ma questa mancanza sono il cielo e le stelle. Guardare le stelle ha a che fare con qualcosa che non c’è e che dovrà esserci. Ha a che fare con il futuro. Il desiderio non è solo mancanza, è anche mancanza di futuro. Non avere orientamento verso qualcosa che avverrà, significa essere ridotti a un presente che si ripete. Il personaggio di Kafka ama sentirsi coperto e protetto dal tetto e dalle pareti della tana. Desidera proprio nel senso di voler stare chiuso in una caverna, senza le stelle. Teme il futuro. Preferisce il presente dalla cui concretezza (le pareti, la pietra) si sente rassicurato. Ma questa sicurezza ha un prezzo: si trasforma in prigione. Le catene, paradossalmente, danno sollievo, tolgono l’ansia, impediscono la paura dello smarrimento che può avvenire sotto le stelle.
Il desiderio è assenza di stelle, mancanza di futuro. Il desiderio è la caduta di Talete in un pozzo da cui non può vedere il cielo. La ragazza di Tracia si mise a ridere quando vide cadere Talete nel pozzo. Forse Talete non vi era proprio caduto, forse vi era disceso per guardare meglio il cielo e le stelle, perché, si sa, da un pozzo il cielo e le stelle di vedono più distintamente. O forse no, forse era sì disceso nel pozzo, ma poi, alzando gli occhi, non aveva visto nulla. Il cielo era oscurato e le stelle erano sparite. In fondo Talete si troverebbe nelle stesse condizioni di disagio del prigioniero liberato della caverna di Platone dopo che è ridisceso per parlare con i suoi compagni, prigionieri ancora incatenati. La ragazza di Tracia ride così come i prigionieri incatenati quando si accorgono dei goffi movimenti del loro compagno mentre incespica nella discesa verso la caverna. I prigionieri incatenati non conoscono le stelle. Non hanno senso di mancanza. Non hanno desideri. Tutto il loro mondo è lì sulla parete che essi hanno di fronte. Non avendo senso di mancanza non vogliono modificare le cose e quando il prigioniero liberato parla loro di un mondo dove vi è una stella luminosa che è la fonte della luce, non gli credono e lo minacciano di morte. Sono contenti di essere incatenati e di stare lì dove stanno. Si divertono nel vedere da spettatori passivi sulla parete le ombre che – loro non lo sanno – appartengono a esseri che stanno dietro di loro. Perché dovrebbero avere desideri, avvertire la mancanza, voler cambiare uno status che, togliendo loro le catene, li getterebbe in una condizione di insicurezza? Non sono abituati a stare senza catene, perché queste sono il suggello della loro esistenza.
Dopo lunghi periodi il personaggio di Kafka decide di uscire dalla sua tana. Una volta fuori, una volta varcata la soglia, si domanda perché mai abbia lasciato il suo luogo sicuro per andare a trovarsi all’aperto in un territorio straniero. Tuttavia alla fine imbocca la via d’uscita. Ma si tratta di un’uscita che non gli dà affatto la sensazione di autonomia. Egli non esce non per trovare la libertà: “Sono fuggito via frettolosamente dal punto di entrata, ma ci tornerò ben presto. Mi cerco un buon nascondiglio e sorveglio l’ingresso della mia casa – stavolta dall’esterno – per giorni e notti. Si dica pure che è una follia, a me però procura una gioia inesprimibile e dà un senso di pace. Allora è come se io stessi non dico dinanzi alla mia casa, ma dinanzi a me stesso mentre dormo, è come se avessi la fortuna di poter dormire profondamente e al tempo stesso di osservarmi scrupolosamente”.
Questo personaggio non è come il prigioniero liberato della caverna di Platone. Imboccata l’uscita, si volta indietro non per comunicare ai compagni che esistono il cielo e il sole, che vi è un futuro possibile, ma per guardare quella caverna e desiderarla, cioè vivere senza stelle. Oggi, mentre trionfano le merci che, rendendo auree le nostre catene, fanno spettacolo di sé in una luccicante caverna popolata da individui isolati e connessi, le luci artificiali da un lato e l’inquinamento dall’altro oscurano ripropongono la parola desiderio alla sua origine: mancanza di orientamento per il futuro unita al piacere di vivere con le catene. Un piacere che, nella ricerca della libertà e dell’autonomia, non avevamo capito.
¹ Kafka (1985), p. 485.
² ivi, p. 487.