Nel 1987, Gro Harlem Brundtland, Presidente della ‘World Commission on Environment and Development’ (WCED) istituita nel 1983, presentò il rapporto «Our common future», da allora noto come ‘Rapporto Brundtland’ (http://www.un-documents.net/wced-ocf.htm).
Per il Rapporto urge misurarsi con la “sfida globale” del disegnare un nuovo modello di sviluppo definito “sostenibile”, cioè tale da ” far sì che esso soddisfi i bisogni dell’attuale generazione senza compromettere la capacità di quelle future di rispondere alle loro” attraverso cambiamenti a livello di sfruttamento delle risorse, direzione di investimenti e tecnologie, strutture istituzionali per soddisfare i bisogni delle future generazioni oltre a quelli delle attuali con la “partecipazione di tutti” al processo decisionale per conseguire equità intra- ed inter-generazionale.
Tre sono le ‘gambe’ del ‘tavolo dello sviluppo sostenibile’: sociale, economica ed ambientale.
Era già chiaro come fosse necessario integrare le politiche ambientali all’interno delle politiche economiche e sociali, i cosiddetti “drivers” industria, energia, agricoltura, trasporti, turismo.
‘Our Common Future’ di fatto faceva propria l’analisi dei ‘Limiti alla Crescita’ che il Club di Roma di Aurelio Peccei aveva affidato al System Dynamics Group del MIT cinquant’anni fa.
Tale analisi, stante la comprovata inefficacia dei modelli analitici settoriali non solo non utili a risanare i guasti ambientali in essere, ma soprattutto incapaci di fornire alcun allarme preventivo venendo meno al ruolo di previsione del rischio tipico di una scienza eticamente responsabile, studiava l’andamento degli indicatori demografici, dei consumi di energia e risorse naturali da parte del Nord del mondo, evidenziandone una impennata quasi esponenziale a causa del modello di vita consumistico dominante dal secondo dopoguerra, impennata il cui legame con i costi ambientali descritti a metà ’60 da Rachel Carson in ‘Silent Spring’ non poteva essere misconosciuto. Nella seconda metà dei ’70 si iniziava ad evidenziare come esito preoccupante di attività antropiche impattanti sui sistemi naturali un Cambiamento Climatico causato dal riscaldamento globale già in atto, che stava modificando sistemi naturali quali circolazione oceanica, livello del mare, ciclo dell’acqua, ciclo del Carbonio e dei nutrienti, qualità dell’aria, produttività e struttura degli ecosistemi naturali, produttività delle terre agricole, praterie e foreste, distribuzione geografica, comportamento, abbondanza e sopravvivenza di specie animali e vegetali, inclusi vettori ed ospiti delle malattie dell’uomo.
Risultava palese come ciò avrebbe modificato frequenza ed intensità di fenomeni estremi quali ondate di caldo e di freddo, siccità, alluvioni, fenomeni che avrebbero generato, ove non mitigati da forti cambiamenti negli stili di vita, conseguenze pesanti, in primo luogo sui sistemi umani.
Cinque anni dopo il ‘Rapporto Brundtland’, a Rio de Janeiro si tenne, convocato dall’ONU, l’Earth Summit (Rio’92), primo vertice internazionale in cui si incontravano oltre 150 Stati per condividere le informazioni circa lo stato di fatto della ‘casa comune Terra’ e confrontarsi sulle strategie per fronteggiare le emergenze ambientali in atto e quelle annunciate. Fu un’occasione emozionante di dialogo, a partire dal dotarsi di un glossario comune, tra Governi nazionali, scienziati, Associazioni di cittadini, rappresentanze imprenditoriali: il World Business Council for Sustainable Development (WBCSD) contribuì con il rapporto ‘Changing Route’.
Frutti positivi del Summit di Rio furono le Convenzioni che inquadravano le priorità, dal ‘buco nell’Ozono’ al Cambiamento Climatico, da riduzione delle emissioni alla tutela della Biodiversità.
Quello che venne formalizzato, purtroppo, non divenne percorso celere, cadenzato temporalmente e con assunzione di impegni cogenti e sanzionabili da parte della comunità internazionale.
Stante la valenza comunque così innovativa dell’evento, si confidava che le COP (Conferenze delle Parti), che da Rio originarono, potessero costituire lo strumento operativo efficace per dare concreta attuazione a politiche utili per risolvere i nodi indicati come prioritari dalle Convenzioni.
Così non fu: prese avvio un defatigante ripetersi di incontri, anno dopo anno, da cui risultava chiaro come il sistema di potere generatore della globalizzazione deregolata non intendesse assumere come priorità la sfida della qualità ambientale dello sviluppo, come si è registrato fino a COP26-Glasgow.
Gli allarmi scientifici sull’irreversibilità del cambiamento climatico
Gli allarmi scientifici già a Rio indicavano in 400 ppm C02 la soglia oltre la quale il Cambiamento Climatico sarebbe divenuto irreversibile, limite oggi raggiunto e superato con la prevista catena di eventi estremi con cui siamo costretti a convivere, più gravi per chi ne ha la minore colpa, persone e comunità che vivono nelle aree di povertà e crescente disuguaglianza, grave ingiustizia climatica che genera la sofferenza dei migranti climatici. Oggi siamo a 418 ppm CO2 e la scienza (con UN-IPCC) ci dice che a 450 ppm diviene reale il ‘rischio di estinzione della specie umana’. Analogamente, a causa delle citate crisi sistemiche, il percorso si è fatto più difficile per numerose imprese e istituzioni finanziarie che stavano avviando concrete e importanti azioni nel senso della ‘decarbonizzazione’ di processi produttivi e prodotti in logica di Economia Circolare nonché del disinvestimento, proprio degli attori della Finanza Etica, nel settore fonti fossili di energia (e armi).
Si legge negativamente al riguardo anche la proposta di ‘Tassonomia verde’ che avrebbe dovuto orientare in senso sostenibile la finanza, presentata al Parlamento Europeo dalla Commissione già prima della guerra in Ucraina e che purtroppo propone di includere opzioni quali energia nucleare e gas, in contrasto con il parere degli stessi gruppi tecnici incaricati di elaborarne il testo.
Perché tutto questo?
Come ai tempi di Rio’92, più della metà del PIL mondiale ha generato dal controllo delle fonti fossili di energia e consente ai detentori (63 famiglie o persone fisiche secondo Oxfam) di condizionare non solo assetti geostrategici, ma anche modelli culturali, politica, governo dell’informazione, ciò che porta molti intellettuali, anche nelle Università USA, a definire la società attuale ‘neofeudale’.
Lorsignori hanno reagito alla domanda di cambiamento prezzolando ‘negazionisti’, investendo in ‘greenwashing’ per frenare la Transizione fino a conseguire ‘inactivism’/inazione utile a proseguire nel proprio modello ‘business as usual’, che ora vorrebbero esteso alla privatizzazione dell’accesso alle risorse idriche dopo quanto hanno già operato in tema di suolo praticando ‘land grabbing’. Se non si cambia, ecco dove ci porteranno lorsignori di finanza tossica e globalizzazione deregolata, immaginando per sé, forse, la migrazione verso Marte.
Laudato Si e Paris Agreement: l’unico passo avanti
L’unico passo avanti rispetto al tradimento delle speranze di Rio’92 ha avuto luogo nel 2015 con il dono di Papa Francesco a tutti noi con la ‘Laudato Sì’ e, a seguire, con il ‘Paris Agreement’ a chiusura di COP 21, che dopo la frustrante esperienza dei ‘Protocolli di Kyoto’ portò più di 180 Paesi a siglare finalmente impegni e cronoprogrammi con carattere di cogenza. Grazie all’Enciclica ed al susseguente Accordo di Parigi è arrivata la ‘UN Agenda 2030’che indica buone pratiche e strumenti per conseguire entro il 2030 gli urgenti Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, mirabilmente assunti come chiamata all’agire concreto dalla Settimana Sociale CEI di Taranto. Solo l’Europa, però, generatrice per il 9% soltanto di gas climalteranti a scala globale, negli ultimi anni ha visto stabilizzare e parzialmente diminuire le proprie emissioni. Grande era l’attesa per le ulteriori ricadute positive degli impegni indicati dal Green Deal dell’UE, prima che pandemia e guerra ne impedissero di fatto l’avanzamento verso l’auspicato scenario ‘emissioni nette zero’.
Analogamente, a causa delle emergenze sistemiche finanziaria, pandemica e bellica associate alla Crisi Climatica irreversibile, i cui effetti paiono mitigabili solo con immediate politiche di resilienza e adattamento, il percorso si è fatto più difficile anche per numerose imprese e istituzioni finanziarie che stavano avviando concrete e importanti azioni nel senso della ‘decarbonizzazione’ di processi produttivi e prodotti in logica di Economia Circolare nonché del disinvestimento, pratica da sempre della Finanza Etica, nei confronti di soggetti operanti nel settore energetico fossile (e delle armi). Influisce negativamente al riguardo anche la proposta di ‘Tassonomia verde’ che avrebbe dovuto orientare i futuri investimenti in senso sostenibile, presentata già prima della guerra in Ucraina al Parlamento Europeo dalla Commissione, che vede includere come sostenibili opzioni quali energia nucleare e gas, in contrasto con il parere degli stessi tecnici incaricati di elaborarne il testo iniziale. Ciò testimonia di quanto travagliato sia il cammino che vorremmo ci portasse alla creazione della ‘carovana del cambiamento’, rete/interconnessione di comunità e persone protagoniste di progetti ed esperienze di nuovi stili sostenibili di produzione, consumo, vita che riportino al centro persona, relazioni umane, interesse generale, tutela dei beni comuni al posto del massimo profitto per pochi. Uscire dal labirinto descritto richiede di analizzare la percezione che della Transizione, soprattutto della Transizione alla Ecologia Integrale postulata da Papa Francesco, ha la società umana. Sappiamo da tempo come le persone tendano a pensare e ad occuparsi principalmente di ciò che è loro vicino nel tempo e nello spazio; ciò contrasta con la dimensione spaziale tendenzialmente planetaria dei problemi ambientali, mentre, dal punto di vista temporale, l’ambiente planetario è regolato da un orologio ecologico e da ritmi altri rispetto ai nostri. In ottica religiosa, a lungo la questione veniva letta come semplicistica contrapposizione tra San Francesco, ispiratore di un rapporto paritetico tra uomo e natura, e San Tommaso, cui si attribuiva una visione piramidale con alla sommità l’uomo dominante il mondo che lo circonda, ciò che dà un’idea del radicamento di una sorta di nozione di “onnipotenza” umana.
Il macroscopio per leggere l’infinitamente complesso
Se analizziamo tale abitudine “ancestrale” ad occuparci soltanto di ciò che ci è vicino nel tempo e nello spazio, sinergica con prevalenti visioni di dominio dell’uomo sulla natura, capiamo quanti e quali retaggi si debbano superare e nodi sciogliere per cambiare anzitutto l’approccio rispetto allo sfruttamento dell’ambiente quasi ne fossero inesauribili in qualità e quantità le risorse, causa degli incombenti problemi di sopravvivenza come specie prima richiamati. Devastante, come ci ricorda la ‘Laudato Sì’, è stato l’effetto del pervicace impegno nel conculcare nell’immaginario collettivo la subcultura economica dominante per volontà neofeudale , secondo cui la salvifica formula lineare “Materia Prima + Capitale + Lavoro + Tecnologia = Merce” avrebbe garantito una continua crescita, quando a tutti non poteva non risultare evidente, come lo era stato per tutte le generazioni fino alla seconda rivoluzione industriale, che un ‘sistema finito’ come la ‘casa comune Terra’ non può disporre di risorse inesauribili. Nessun ‘ottimismo tecnologico’ che giustificasse l’occultamento della nozione di ‘limite’ doveva ammettersi, come aveva chiarito incontrovertibilmente il Rapporto MIT al Club di Roma del 1972. Nulla avrebbe dovuto farci credere che i fumi di combustione dispersi in aria o lo scarico di liquami in qualunque corpo idrico avrebbero avuto solo impatti puntuali per poi annullarsi per diluizione, dimenticando la nozione di bioaccumulo nelle catene trofiche degli inquinanti emessi.
Tra ’70 e ’80, dopo il ‘Il caso o la necessità’ di Jacques Monod, riflessioni più generali presero corpo in materia di ‘complessità’, dalla messa in discussione della meccanica newtoniana deterministica e meccanicistica a partire dal Nobel Prigogine, fisico-chimico della termodinamica, degli stati stocastici e probabilistici dove non si danno relazioni lineari ‘causa/effetto’, riflessione che coinvolse Fritjof Capra ed Ervin Laszlo, ai contributi di Edgar Morin, che critica il ragionamento cartesiano postulando il ricorso all’analisi sistemica per leggere sistemi complessi, e di Joel De Rosnay, che nel ‘74 pubblica “II Macroscopio”, la cui premessa è che nel tempo gli uomini hanno inventato il microscopio per osservare e comprendere l’infinitamente piccolo, il telescopio per osservare e comprendere l’infinitamente lontano ed oggi necessitano del macroscopio, strumento per leggere l’infinitamente complesso caratterizzante la società moderna.
La consapevolezza della esauribilità qualitativa, prima ancora che quantitativa, di risorse ambientali finite sfruttate nei modi e tempi tipici del modello dissipativo dominante, portò l’ambientalismo ad assumere l’analisi sistemica come metodologia per gestire ‘complessità in regime di incertezza’. Persone e comunità assoggettate alle criticità generate dal citato modello di sviluppo, secondo il ‘WorldWatch Institute’, avrebbero dovuto essere educate a convivere con il rischio, intrinseco al modello, di quelle che definiva “catastrofi innaturali”.
Solidarietà diacronica e equità intergenerazionale
Iniziammo allora a ricercare, all’interfaccia tra scienza e politica, come cambiare paradigma dal “fatti consistenti – valori deboli” al “deboli fatti/deboli segnali scientifici – forti valori pubblici”, da cui discese il “Vorsorge-prinzip” inserito nella legge tedesca nel 1984, il ‘Principio di Precauzione’ dai potenti “vested interests” messi in discussione così come dall’umana resistenza conservativa. E’ dunque molto forte la valenza etica dell’agire per lasciare a chi viene dopo di noi un mondo vivibile, solidarietà diacronica che per i Nativi americani derivava dall’assunto “abbiamo ricevuto questa terra in prestito dai nostri figli”. In Italia, tale riflessione sul rapporto Etica/Ambiente si radicò a inizi ’90 grazie al Seminario sul tema organizzato a Borca di Cadore dalla Fondazione Lanza di Padova, con ‘maitres-à-penser’ di rilievo come Udo Simonis, Christine Schräder-Frechette, Rappaport, Maffettone, Boulder. Discutemmo lì a lungo di come, per il filosofo morale, fosse difficile prendere in considerazione le nozioni di solidarietà diacronica e di equità intergenerazionale come postulate da noi ambientalisti, essendo non esistenti gli enti/soggetti portatori di diritto ad un ambiente salubre ed a risorse accessibili, cioè le future generazioni. L’essere umano, dicevamo, è il solo soggetto morale chiamato ad essere responsabile per l’umanità, la natura e le generazioni future. L’antropocentrismo responsabile chiama ogni persona, singolarmente e come parte di una comunità, ad assumersi la responsabilità delle proprie azioni, decisioni, scelte. In questa prospettiva il mondo è la casa dell’uomo, che è chiamato ad amministrarla con il dovuto rispetto e con la cura nei confronti di qualcosa che dipende da lui.
Questa riflessione etica evidenziava come la responsabilità del genere umano non potesse che trovare nella cultura dei diritti umani principi e criteri guida e si estendesse oltre gli esseri umani, per comprendere le entità viventi non umane come pure gli ecosistemi della casa comune Terra. Principio fondamentale di tale approccio, come oggi ci ricorda sempre Papa Francesco, è quello dell’interdipendenza e dell’interconnessione, prospettiva che evidenzia la valenza strategica di un diritto umano all’ambiente che ha nella solidarietà il suo valore di riferimento, diritto individuale e collettivo allo stesso tempo, che riguarda la persona, ma tocca aspetti sostanziali della vita di relazione, concerne interessi generali, rappresenta presupposto per l’integrale soddisfazione di altri diritti della persona, primo il diritto alla vita e alla salute delle presenti e delle future generazioni. Lo sviluppo sostenibile ha come orizzonte l’intero pianeta e si configura come un approccio multidimensionale e intersettoriale che richiede fondamentali trasformazioni etiche ed istituzionali a tutti i livelli, da quello locale a quello internazionale, attraverso l’integrazione della politica ambientale con quella economica, sociale e culturale.
Focalizzammo a Borca il contesto di una moderna società complessa assillata dalla incertezza e governata da un modello culturale materialistico finalizzato a massimizzare consumi e profitti. Gli effetti ambientali di quegli stili di vita dissipativi fino all’acme della induzione al consumismo fine a se stesso, disperato, e della adorazione di un mercato che libero non è, bensì privo di ogni regolazione degli ‘animal spirits’, causavano già l’oggi insopportabile e crescente scarto tra pochi ricchissimi e tantissimi sempre più poveri. La globalizzazione deregolata che in quegli anni aveva preso corpo portò l’OCSE a constatare in Malaysia, ad esempio, come il regime militare sfruttasse ragazzine adolescenti (12-13 anni) prelevate dai villaggi e condotte in ‘laboratori’ dove, a bassissimo costo e fuori da ogni regola ambientale e di sicurezza sul lavoro, saldavano componentistica per computer.
Già a 15-16 anni migliaia di loro venivano ridotte alla cecità dai fumi di saldatura, “blind virgins” rinviate ai luoghi d’origine senza risarcimento alcuno. Fenomeni simili smentivano già allora l’esaltazione di ‘libera concorrenza’ e ‘libera circolazione di merci e persone’ da parte della narrazione turboliberista e ci portavano a chiedere che il WTO introducesse nei trattati commerciali internazionali una ‘clausola sociale’ per conseguire tendenziali pari condizioni di lavoro e garanzie di omogenea retribuzione in tutto il mondo, clausola che includesse anche armonizzazione della normativa ambientale e relative strutture di controllo. La responsabilità ambientale e sociale delle imprese va incentivata attraverso sistemi di regole, riconoscendo che il sistema economico contribuisce alla tutela dell’ambiente non rinunciando al ruolo di produzione di ricchezza e occupazione solo in presenza di un quadro giuridico certo e del ricorso a regolazione diretta e moderni strumenti economici, quali eco-incentivi ed eco-tributi.
La necessità di un approccio sistemico alla questione ambientale
In Italia ancor oggi, però, nelle agende di governo e associazioni d’impresa l’obiettivo preminente è favorire la crescita economica avendo come priorità “cost cutting” di lavoro e diritti e la questione ambientale viene vista come vincolo e costo e non moltiplicatore di innovazione e fattore di competizione, miopia spinta fino alla cecità dal taglio dissennato di risorse per formazione e ricerca.
Tra imprese e stakeholders possono instaurarsi due modalità di rapporto: il primo unidirezionale, nel caso di situazioni di natura conflittuale, il secondo di interazione positiva nel caso di situazioni di natura cooperativa, a seconda del comportamento delle imprese, difensivo o progettuale che sia.
Nel secondo caso, favorevole, diventano strategici trasparenza, comunicazione e coinvolgimento degli stakeholders nella partnership su progetti di sostenibilità: partecipare al processo decisionale responsabilizza tutti nel fissare e implementare obiettivi, selezionare strumenti, monitorare risultati.
Sul piano del progettare sostenibilità, la cultura ambientalista cercò di promuovere una autonoma cultura delle trasformazioni reversibili (‘no regret actions’), le uniche possibili quando si debba governare la complessità in regime di incertezza circa la gravità della situazione su cui si interviene.
Ciò implicò dialogare con le discipline e le professioni per condividere valutazioni e conoscenze relative alle realtà territoriali su cui si andava ad intervenire, particolarmente in un Paese come il nostro basicamente sprovvisto di strumenti conoscitivi in materia territoriale ed ambientale. L’approccio sistemico legge lo schema ciclico delle relazioni che legano risorse ambientali ed attività antropiche e serve a governare la fitta rete di flussi di materia, energia ed informazione che sottendono gli insediamenti umani elaborando bilanci ambientali, energetici, economico-finanziari in base ai quali calcolare efficienza e rendimento dei diversi modi d’uso delle risorse (finite, cicliche, rinnovabili) al fine di assumere le decisioni strategiche. L’ambientalismo italiano tentò di contagiare di tale cultura progettuale l’intero corpo sociale, operando da anticorpo di denuncia e da enzima catalizzatore di soluzione, ma non riuscì a rompere il confinamento settoriale in cui lo si voleva tenere, a mio avviso anche per l’errore commesso dalle Associazioni quando acconsentirono a traslare al mercato politico un pensare e un agire che sulla trasversalità fondavano la capacità di contaminare ceti, culture, saperi, comportamenti.
Cominciò la campagna di discredito dell’ “agire locale, pensare globale” attraverso il continuo accostamento alla ‘sindrome Nimby’ (“not in my backyard”) come causa del ‘non fare’, fenomeno in realtà derivante da inefficienza di governo locale e centrale del nostro sistema-Paese, con una Pubblica Amministrazione umiliata e privata nel tempo di competenze tecnico-amministrative adeguate, oltrechè oppressa da corpi normativi pletorici e spesso contraddittori e comunque in carenza di strutture di controllo, essendo le Agenzie tecniche altrettanto umiliate nella loro indipendenza e trasparenza e impoverite di risorse umane e tecniche. Risulta poco credibile, in tale contesto, attribuire la responsabilità del degrado e delle emergenze ai cittadini, cui comunque chiediamo sempre di essere responsabili: il monitoraggio UE chiariva già nei primi ’90 come la prima causa dei conflitti ambientali a scala europea risultasse essere la ‘sindrome Nimto’ (“not in my terms of office”), lo scaricabarile tra istituzioni, l’italico “non è di mia competenza”, “non durante il mio mandato”, mentre la ‘sindrome Nimby’ si situava al quinto posto. L’Italia è il Paese dove, più che in ogni altro, pochissimi attori, a partire dagli istituzionali, ‘fanno il proprio mestiere’; è costante registrare il ‘non si può applicare’, ‘non si può fare’ in bocca a politici ed amministratori cui anzitutto competerebbe l’attuazione delle Leggi.
Per un ambientalismo scientifico competente e radicale
Ci si connette, qui, ad un punto cruciale della cultura ambientalista, la questione morale, per la quale temiamo che i continui richiami attuali a esigenze di semplificazione dei procedimenti amministrativi occultino l’aspirazione al ‘liberi tutti, fatevi gli affari vostri che ai miei penso io’. Da qui origina il nostro primato per numero di procedure di infrazione ambientale irrogate dalla Commissione Europea, primato che ci costa sanzioni per centinaia di milioni di Euro/anno, mentre la nostra capacità di spesa di risorse comunitarie disponibili è da decenni attorno al 20%, a dir tanto. ‘Enforcement’, ‘Compliance’, ‘Accountability’ sono da noi nozioni aliene, carenza aggravata dalla crescente e ubiquitaria corruzione, da Nord a Sud, ancor più cancerosa per l’intrusione nella macchina pubblica, nell’economia, nella finanza della criminalità organizzata. L’ambientalismo scientifico che vuol fare vertenza sociale ed agire da motore di trasformazione, nella realtà italiana sa che per acquisire consenso deve affrontare complessità microsistemica e frammentazione della società, battere la diffidenza nei confronti dello Stato, tutelare biodiversità in senso lato e identità locali in quanto elementi di ricchezza. C’è l’esigenza di abbandonare approcci illuministici e scientisti e richiedere contributi a scienze sociali, antropologia culturale, psicologia, al fine di risalire ai determinanti che condizionano comportamenti individuali e processi decisionali, per un progetto sistemico di modelli di sviluppo non dissipativi ed un governo efficace della Transizione.
Avverto un gran bisogno di una nuova stagione di ambientalismo scientifico competente e radicale: che sappia coniugare etica ed estetica della sostenibilità e sia generativo di nuovi stili di vita.
Concordo in toto