Sono stato accusato di volgarità.
Io dico che questa è una stronzata.
Mel Brooks
1.
So che cos’è. Quando mi capita di incrociarla immediatamente la riconosco. Le sue caratteristiche sono inconfondibili. Eppure, se dovessi definirla, sarei in difficoltà. Il che non è poi tanto strano, anzi. Un fenomeno simile è infatti conosciuto fin dall’antichità.
Che cos’è il tempo? – si chiese mille e seicento anni orsono Agostino d’Ippona –. Be’ – fu la sua risposta –, se nessuno me lo chiede, lo so, ma se poi voglio spiegarlo a chi me lo chiede, a quel punto non lo so più.
Credo che la stessa cosa accada al multiforme fenomeno della “volgarità”. La conosciamo fin troppo bene, ci capita di incontrarla frequentemente, sicuramente molte volte al giorno e fin dal primo mattino, ma le sue poliedriche incarnazioni (l’opera omnia di Donald Trump, la corsia di un ospedale, un abitualmente rissoso dibattito televisivo) e le sue infinite metamorfosi (politiche, burocratiche, perfino religiose) rappresentano un ostacolo insormontabile a una definizione esauriente. La volgarità sembra essere inesauribile, infinita.
Fornirne un elenco? Un programma impossibile. Occorrerebbe una memoria prodigiosa anche solo per delinearne una fenomenologia approssimativa. Io non possiedo questo dono e inoltre, anche lo avessi, sarebbe reso inutile dal fatto che quando m’imbatto nella volgarità, in un determinato tipo di volgarità, provo immediatamente due desideri irrefrenabili: allontanarmene il più velocemente possibile e dimenticarmela al più presto. Probabilmente proprio queste piccole vigliaccherie, perché di questo si tratta, cioè di fuggirla anziché contrastarla, se come penso capitano anche a voi, sono due delle ragioni per cui la volgarità attecchisce con tanta facilità. Il cattivo odore che emana, la sua antiestetica presenza, facendole il vuoto attorno, le garantiscono di sopravvivere e riprodursi anche in ambienti che dovrebbero esserle ostili. Non spiegano però, purtroppo, il misterioso e straordinario proselitismo che è capace di generare. Dobbiamo contentarci di prender nota di questo fatto: la volgarità possiede una voce poderosa mentre la voce della gentilezza, quando non resta silenziosa, è soltanto un lieve sussurro.
Sia come sia oggi, fin dal risveglio, le occasioni per incontrarla sono infinite poiché da quando di lei si è iniziato a far spettacolo le possibilità di sfuggire al grande spettacolo della volgarità si sono ridotte praticamente a una soltanto: una lunga passeggiata in un bosco. Ammesso si riesca a non imbattersi in qualche discarica abusiva, cosa divenuta ormai praticamente impossibile in riva al mare.
Questo ha finito per trasformarci tutti in grandi esperti di volgarità ed è questa la ragione per cui ritengo di poter fare a meno di annoiarvi parlandone ancora. E soprattutto di parlarne per deplorarla. Per questo compito sarà sufficiente affidarsi alla vostra competenza che sicuramente non è inferiore alla mia. Di compito me ne riserverò invece un altro, quello di difendere la volgarità dalla sua cattiva fama o, per esser precisi, di metterne in mostra alcuni lati che vengono sottovalutati. Quindi adesso, proprio per svolgere al meglio questo compito di avvocato difensore della volgarità, di una volgarità che potremmo chiamare “nobile”, dovrò intrattenervi su altro e chiedervi di indagare prima assieme a me sullo strano destino di un’emozione che andava per la maggiore fino a non molti decenni orsono e che ai giorni nostri pare essere scomparsa dal repertorio dell’umano: l’antica e per certi versi commovente emozione della “vergogna”.
2.
Si aprirono allora gli occhi di ambedue e conobbero che erano nudi; perciò cucirono delle foglie di fico e se ne fecero delle cinture. Poi udirono il rumore dei passi del Signore Dio, allorché passeggiava nel giardino alla brezza del giorno, e l’uomo fuggì con la moglie dalla presenza del Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino. Allora il Signore Dio chiamò l’uomo e gli domandò: «Dove sei?». Rispose: «Ho udito il tuo rumore nel giardino ed ho avuto paura, perché io sono nudo, e mi sono nascosto». Riprese: «Chi ti ha indicato che eri nudo? Hai dunque mangiato dell’albero del quale ti avevo comandato di non mangiarne?».
(Genesi, 3. 7-11)
Abbiamo appena assistito, in diretta, al racconto biblico del debutto della vergogna: Adamo ed Eva che scoprono con stupore la propria nudità e cercano di nascondersi (e nasconderla) agli occhi di Dio. Si può anche presumere che le guance di Adamo ed Eva si siano tinte di rosso per ciò che avevano appena fatto.
Arrossire. Non riesco a ricordare quando è stata l’ultima volta che mi è capitato, probabilmente è successo qualche decennio orsono. E neppure rammento quando è stata l’ultima volta che mi è capitato di vedere imporporarsi le guance di qualcuno, una bambina, un giovane, ancora capace di provare quest’esperienza formativa.
Eppure quest’emozione dovette essere considerata piuttosto importante, decisiva addirittura, se il biblista decide di parlarcene proprio all’inizio del suo racconto della vicenda umana. Dove è andata a finire oggi la vergogna? Esiste ancora?
Secondo Gianrico Carofiglio (La nuova manomissione delle parole – Feltrinelli, 2021): “La vergogna non c’è più… Anzi, la vergogna sembra investire direttamente e anzitutto se stessa: è vergognoso vergognarsi. La vergogna appare una sorta di ripugnante patologia dalla quale tenersi il più possibile lontani, perché è lo stigma dell’insuccesso, del fallimento, o semplicemente della frustrazione.”
Purtroppo però, prosegue Carofiglio: “L’incapacità di provare vergogna, la mancanza di vergogna è… pericolosissima… solo la capacità di provare vergogna implica la capacità di praticare il suo contrario più interessante: l’onore, la dignità… Come il dolore, così la vergogna è un sintomo, e chi non è in grado di provarla – siano singoli o collettività più o meno vaste – rischia di scoprire troppo tardi di avere contratto una grave malattia morale… le esperienze vergognose, quando vengono accettate, accrescono la consapevolezza e la capacità di miglioramento, e costituiscono fattori di crescita. Diversamente dalla colpa, la vergogna può permettere a chi la prova di migliorare se stesso, di rifondarsi”.
L’analisi di Carofiglio è lucida. Mi permetto di aggiungerle che, come nota lui stesso, la vergogna non annovera fra i suoi contrari soltanto onore e dignità. Come comportamenti contrari rispetto alla vergogna il dizionario elenca: il cinismo, l’impudenza, la sfacciataggine, la protervia, la sfrontatezza, la svergognatezza, la sguaiataggine, la scurrilità. E tutti questi atteggiamenti sono degli analoghi del fenomeno della volgarità. Dirò di più, come conferma ancora una volta il dizionario, ne sono sinonimi.
Se ne può dunque concludere che proprio la scomparsa della vergogna sia da indicare come l’origine (forse non l’unica ma probabilmente la principale) della straordinaria fioritura di volgarità e dell’emergere di un fenomeno nuovo, la sua spettacolarizzazione. Si è infatti scoperto che è possibile lucrare, sia materialmente sia politicamente, utilizzandola con spregiudicatezza.
Perché esista la volgarità difatti deve esistere anche la vergogna. Quando questa non esiste più è ovvio che non esista più neanche la volgarità. O per dir meglio, senza la vergogna la volgarità prospera ma non riusciamo più a vederla. Volgare, questa potrebbe dunque essere una definizione, è ciò che non prova vergogna. Come disse Blaise Pascal: “Sola vergogna è non provarne”.
Del resto José Ortega y Gasset ci aveva avvertito con molto anticipo: “Caratteristica della nostra epoca – scrisse quasi un secolo fa –: non che l’uomo volgare ritenga d’essere eccellente e non volgare, ma che proclami e imponga il diritto alla volgarità, o la volgarità come diritto”.
Carofiglio però non si limita a sostenere la scomparsa della vergogna dal nostro orizzonte contemporaneo. Fa un’altra osservazione che vale la pena sottolineare. La vergogna che è scomparsa è quella del rossore, quella di Adamo ed Eva, quella che “implica un giudizio su se stessi” ed è “collegata alla perdita dell’autostima, prima ancora che della stima degli altri, alla violazione di un codice etico ed estetico interiore prima ancora che sociale”. Siccome vuole essere chiaro su questo punto, porta come esempio un brano in cui Primo Levi descrive l’arrivo dei soldati sovietici nel Lager.
“Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, e ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa”.
Ecco, è precisamente questa la vergogna che è scomparsa e che forse per noi è ormai incomprensibile. La vergogna di cui sembriamo non essere più capaci è quella che sapevamo provare pur senza colpa individuale alcuna. La vergogna umana che permetteva di migliorar se stessi
La filosofa americana Martha Nussbaum ha scritto su questo pagine di notevole profondità. Nel suo L’intelligenza delle emozioni (Il Mulino, 2001) la Nussbaum collega l’emozione della vergogna alla capacità di accettare consapevolmente la propria umanità. La vergogna insomma è, era, un’emozione intelligente. Senza di lei lo siamo meno e siamo sicuramente meno umani.
Carofiglio però prosegue e individua un altro tipo di vergogna che è andata a sostituire la vergogna intransitiva che sapevamo provare per noi stessi. Quante volte infatti sentiamo oggi utilizzare la parola vergogna in modalità transitiva e imperativa: Vergognati! Vergognatevi! Questa è l’unica forma verbale e psicologica in cui sopravvive oggi la vergogna: la forma di un’accusa infamante rivolta agli avversari.
Sicuramente ricorderete che alcuni anni fa andò di moda un movimento nato ispirandosi a un pamphlet di Stéphane Hessel il cui titolo conteneva un ordine perentorio “Indignatevi!”. Furono in molti a obbedire e ad affollare le schiere un po’ stolte degli “indignati”. La confortante idea di cui mostravano di sentirsi seguaci era molto semplice: sono soltanto gli altri a doversi vergognare, noi siamo innocenti. Nello stesso periodo frequentavo per amicizia e lavoro lo psicoanalista Luigi Zoja e in un momento di buonumore – formidabile antidoto a ogni risentimento – gli proposi di fondare assieme un contro-movimento che si opponesse a quello degli “indignati”. Formulai anche l’idea per un nome. Lo avremmo chiamato (forzando un po’ il lessico) il movimento dei “vergognati”, cioè di coloro che si vergognavano perché pensavano, come Adamo ed Eva, di avere qualche responsabilità da confessare. Mi vergogno un po’ per esser stato pigro e non aver dato seguito allo scherzo fondandolo davvero. Certo non avrebbe avuto successo, ma che divertimento ascoltare alcune reazioni.
Sulla confortevole illusione di essere innocenti la poetessa polacca Wislawa Szymborska ha scritto parole che dovrebbe essere obbligatorio imparare a memoria.
Lode della cattiva considerazione di sé
La poiana non ha nulla da rimproverarsi.
Gli scrupoli sono estranei alla pantera nera.
I piranha non dubitano della bontà delle proprie azioni.
Il serpente a sonagli si accetta senza riserve.
Uno sciacallo autocritico non esiste.
La locusta, l’alligatore, la trichina e il tafano
vivono come vivono e ne sono contenti.
Il cuore dell’orca pesa cento chili
ma sotto un altro aspetto è leggero.
Non c’è nulla di più animale
della coscienza pulita
sul terzo pianeta del Sole.
3.
Resta a questo punto un sospetto: ma non sarà che è la nostra specie, la specie umana, a essere costituzionalmente volgare? A essere “Sapiens Vulgaris”? E se la volgarità non fosse un attributo che soltanto occasionalmente ci caratterizza, ma piuttosto una caratteristica che ci marchia fin dalla nascita ed è quindi impossibile da estirpare?
Che fare se giungessimo ad ammetterlo? Prima avevo almeno a disposizione la vergogna che poteva mettermi in guardia dallo scivolare verso forme di volgarità troppo accentuate, che mi aiutava a migliorarmi, ma adesso?
Avanzerò una modesta proposta ma, vi prego, non indignatevi per ciò che sto per affermare o almeno sospendete il giudizio il tempo necessario a farmi articolare questo pensiero molesto.
Se scoprissi che è inutile prender l’armi contro la volgarità e combatterla, anzi peggio che inutile, poiché la sorte di questa mia coraggiosa battaglia è già scritto – verrò sconfitto e non ne ricaverò neppure tanta gloria –, quello che devo fare con la mia volgarità, con la volgarità di ciascuno di noi in quanto umani, è altro: riconoscerla, prima di tutto in me stesso, ascoltarla, e poi sforzarmi di migliorarla.
A sostegno di questa proposta, per quanto bizzarra possa sembrarvi, abbiamo esempi illustri, quelli di due maestri indiscutibili, Dante Alighieri e William Shakespeare. Quale comportamento tennero nei confronti del “volgare umano” questi due giganti? Se ne indignarono? No, vollero piuttosto conoscerlo meglio che potevano e lo trattarono con rispetto. Lo considerarono un’espressione ineliminabile dalla nostra fragile carne. Infine, siccome niente dell’umano fu loro estraneo, giunsero perfino ad amarlo. Fu così che decisero di prendersene cura e si dedicarono, poiché videro che era necessario, a migliorarlo. Con risultati che ancora ci tengono avvinti e stupefatti.
Il caso di Dante è ben conosciuto e non sarà necessario spendere troppe parole. Impegnò la sua esistenza e le sue migliori energie poetiche a estrarre dal “volgare” un dolcissimo idromele, quello della lingua italiana. Ci sforzaremo – dice Dante nel De vulgari eloquentia (che venne scritto in latino per cercar di convincere i dotti; questa che leggete è la traduzione che ne fece Gian Giorgio Trissino oltre due secoli più tardi) – di dar giovamento al parlare de le genti volgari.
La lingua volgare, per Dante, è infatti quella che il bambino impara dalla balia.
“… il volgar parlare affermo essere quello, il quale senz’altra regola imitando la Balia s’apprende. Ecci ancora un altro secondo parlare, il quale i Romani chiamano Grammatica… di questi dui parlari adunque il volgare è più nobile, sì perché fu il primo, che fosse da l’humana generazione usato. Sì eziandio perché di esso tutto il mondo ragiona… sì anchora per essere naturale a noi, essendo quell’altro artificiale. E di questo più nobile è nostra intenzione di trattare.
(De Vulgari Eloquentia, cap. 1)
La lingua volgare dunque è più nobile perché è la lingua naturale ed è la prima a esser pronunciata. I difetti che Dante individua nella “Grammatica” (cioè nel latino) sono invece di essere immutabile e artificiale.
Poiché però agli inizi del ‘300 nessun “volgare”, né il toscano, né il siciliano, né il bolognese, né i tanti altri che passa in analisi, aveva per Dante le caratteristiche ideali, del “volgare illustre” che voleva raggiungere, non ebbe altra possibilità che fabbricarcene e donarcene uno.
Nel suo alto programma questa nuova lingua volgare avrebbe dovuto essere: illustre (cioè capace di dar lustro a chi la parlava), cardinale (capace cioè di comportarsi come il cardine di una porta, dimodoché tutti i dialetti avrebbero potuto attorno a lei ruotare), aulica e curiale (perché, oltre che nelle piazze e nelle strade dov’era nata e viveva, doveva poter essere parlata ovunque, anche in una corte o in un tribunale).
Insomma, Dante non considerava il volgare una cosa non degna della sua attenzione.
Shakespeare fece qualcosa di simile. Si stima che abbia inventato ben duemila parole che vengono utilizzate tuttora. Inventato? Sarà stato davvero così o ci sarà stato anche qualcos’altro oltre al prodigioso talento, per esempio una straordinaria capacità di ascoltare, ad aiutarlo in quest’impresa?
Per prima cosa, per cercar di capire, proviamo noi adesso ad ascoltare lui.
“Per concludere, sono stato così svelto ad imparare in un quarto d’ora che posso bere con qualsiasi calderaio per tutta la vita parlando il suo gergo”, dice il Principe Hal (Enrico IV, Parte Prima, Atto Secondo, Quarta Scena).
Come è noto Hal, che per il momento è un principe, diventerà Re Enrico V, cioè il più amato e mitizzato dei re britannici, il grande eroe nazionale inglese. Per adesso però, cioè quando Shakespeare gli fa pronunciare quelle parole, niente lascia presagire ciò di cui sarà capace. È un giovane scavezzacollo che passa le sue giornate, e soprattutto le notti, nelle taverne e nei bordelli, in compagnia di ceffi della peggior risma. E soprattutto in compagnia di Falstaff. Anzi, Falstaff è addirittura il suo maestro: maestro di vita e d’eloquio. Dunque, com’è che Hal, lo scapestrato Hal, è riuscito a diventare un leader popolare e di successo?
La risposta di Shakespeare è semplice: ascoltando il volgare. Proprio come aveva fatto Dante e come sicuramente fece lo stesso Shakespeare. Nel disegno shakespeariano, la balia di Hal è Falstaff. È Falstaff, un simpatico e grasso puttaniere imbroglione, a insegnare al futuro Re come parla e ragiona il popolo (il volgo) che lui dovrà guidare in futuro.
Il principe Hal (scrive Paul Corrigan in Shakespeare e il management, Etas, 2001) ha chiara una cosa: non potrà “arrivare da nessuna parte senza le persone che comanda e con cui” avrà “a che fare”; “si rende conto di essere nelle loro mani.”
Per questo Shakespeare ci mostra un principe ereditario che trascorre più tempo nella taverna di Eastcheap, mescolandosi a ladri e puttane, che alla corte del padre fra duchi, conti e cortigiani. Gli spettatori non faticano a comprenderne il motivo: una volta diventato Re, Hal saprà far buon uso della capacità di muoversi tra ambienti diversi. Nel frattempo e allo stesso tempo Shakespeare, ancora principe dei drammaturghi elisabettiani, stava acquisendo le capacità di cui aveva bisogno per diventare il Re del teatro.
Durante le loro incursioni nei bassifondi di Londra, Shakespeare e il principe Hal non stavano perdendo tempo: stavano imparando un linguaggio e una cultura.
Warwick, un amico di Enrico IV, padre di Hal, rassicura così il sovrano sul comportamento del figlio e sulla sua abitudine di trascorrere le sue giornate in cattiva compagnia.
Il principe non fa che studiare i suoi compagni
come una lingua straniera: per impossessarsi di una lingua
è necessario che anche le parole più impudiche
siano vedute e imparate.
(Enrico IV, Parte Seconda, Atto Quarto, Seconda Scena)
Le strategie di apprendimento di Shakespeare e di Hal sono parallele e non potrebbero essere state spiegate con maggior chiarezza: imparare una lingua che nessuno a corte parla, prestare attenzione alla cultura dei ceti popolari, e così studiare, Hal per il futuro da Re e Shakespeare per il futuro da insuperato drammaturgo.
“… sono fratello giurato di un terzetto di tavernieri – dice il principe Hal – e posso chiamarli tutti e tre coi loro nomi di battesimo. Sono pronti a giurare che, sebbene io sia solo il principe di Galles, sono però il re della cortesia. E mi dicono schiettamente che non sono uno stronzo superbo come Falstaff, ma un buon ragazzo – perdio! Mi chiamano così – e quando sarò re d’Inghilterra comanderò tutti i buoni ragazzi di Eastcheap”.
(Enrico IV, Parte Prima, Atto Secondo, Quarta Scena)
Insomma, Dante e Shakespeare, di questo più o meno volevo giungere a convincervi, seguaci entrambi dell’idea che il tutto è diverso e spesso maggiore della somma delle parti, mescolarono alto e basso, lingua colta e lingua di taverna, nobiltà e volgarità. Fu così che inventarono (vale a dire che per metà trovarono e per metà fabbricarono) qualcosa di grandioso non solo per i loro popoli ma per l’umanità intera. Dante e Shakespeare non disprezzarono né il volgo né il volgare. Lo ascoltarono, poi si proposero il difficile e necessario compito di migliorarlo.
Non è il caso adesso, cioè terminando, di partecipare alla sempre affollata competizione di salto alle conclusioni e dunque non concluderò questo mio intervento. Non ne sono capace e neanche credo sia interessante farlo. In fondo voler concludere assomiglia terribilmente al desiderio di aver ragione e come disse Albert Camus: Il bisogno di aver ragione è segno di uno spirito volgare.
E poi due conclusioni secondo me illuminanti già ci sono. Le pronuncia Falstaff, il filosofo beone di Eastcheap. Ecco la profetica esortazione che rivolge al Principe Hal:
“Bandisci Peto, bandisci Bardolfo, bandisci Poins, ma quanto al dolce Jack Falstaff, al gentile Jack Falstaff, al fedele Jack Falstaff, al coraggioso Jack Falstaff, e perciò ancor più coraggioso essendo come è il vecchio Jack Falstaff, non bandirlo dalla compagnia di Enrico, bandisci il grasso Jack e bandirai il mondo intero.”
(Enrico IV, Parte Prima, Atto Secondo, Quarta Scena)
Ed ecco quel che dice di sé al suo pubblico:
“Uomini di tutti i tipi si vantano di prendermi in giro. Il cervello di questa idiozia impastata d’argilla, l’uomo, non è in grado d’inventare nulla che la faccia ridere di più di quel che invento io o che si inventa su di me; io non solo sono spiritoso, ma provoco lo spirito degli altri.”
(Enrico IV, Parte Seconda, Atto Primo, Seconda Scena)
Queste parole suonano per me come un monito: bandire la volgarità, ridicolizzarla, potrebbe risultare la cosa più volgare che potrei fare. Bandire la volgarità significherebbe escludermi dalla più gran parte, forse dall’intera, umanità. E come ultima e forse ancor più grave conseguenza, perdermi tante buone occasioni di mantenermi di buonumore.
È noto che le persone volgari si lavano le mani prima di andare in bagno mentre noi intellettuali e borghesi lo facciamo dopo. Ci sono dei buoni motivi per questo. Ma in fondo credo proprio che dovremmo imparare tutti a farlo sia prima che dopo.