Dialogo tra Michele de Lucchi e Ugo Morelli
um: Viviamo un’epoca nella quale per ragioni diverse si ha la sensazione che nei linguaggi e nelle forme, e purtroppo anche nelle relazioni si produca un degrado del senso estetico e un degrado della qualità. Naturalmente tutte le volte che si fanno questi ragionamenti bisogna difendersi dal pensare che il presente sia peggiore del passato; una questione di punti di vista che è sempre importante tenere presente. Tuttavia, però, sia negli oggetti, sia nelle forme, sia nel design, sia negli spettacoli che in molti altri campi, è difficile astenersi dal considerare che ci sia una degenerazione dell’estetica intesa non solo come l’aspetto esteriore delle cose ma come la struttura che connette noi alle cose con delle risonanze particolarmente significative dal punto di vista delle emozioni, dell’esperienza e soprattutto dell’emancipazione individuale e collettiva. Allora mi piacerebbe sapere qual è il tuo punto di vista come studioso, come architetto, come pensatore, come designer su questa questione.
mdl: Mi importa questo ragionamento e ci vado spesso con la mente perché mi aiuta molto anche nel lavoro e nella professione. Noi uomini ci differenziamo dagli altri animali perché sappiamo vederci da fuori, sappiamo guardarci da fuori e guardandoci da fuori abbiamo costruito e costruiamo tutta quella serie di relazioni e di linguaggi sofisticati e profondi che ci distinguono e ci permettono di essere di creare questa epoca nella quale viviamo: l’Antropocene. Guardarsi da fuori è proprio quella condizione che ci permette di crescere non solamente nei comportamenti ma anche interiormente, tanto è vero che si ipotizza che la nascita della coscienza si deve proprio a questa capacità dell’uomo di sapersi guardare da fuori. Pensiamo ai cani, che mi piacciono molto e mi domando sempre come fanno a non vedersi da fuori. La capacità di analizzarsi è proprio una delle più rilevanti condizioni che abbiamo per poter riflettere su noi stessi e costruirci quelle domande che ci aiutano a relazionarci con gli altri e a crescere interiormente. La pratica di meditazione che ho fatto negli anni e che faccio ancora oggi mi aiuta molto in tutto, nella vita e nella professione. Anche quando ho molto stress nelle situazioni provo a guardarmi da fuori e questo mi aiuta a trovare la giusta misura verso la bellezza e a non scadere nella volgarità.
um: Essere la specie capace di comportamento simbolico che non solo sa ma da sa di sapere e non solo conosce ma è in grado di riflettere sulla propria conoscenza, è certamente una chiave per giungere meglio a se stessi e esprimere un appropriato modo di rapportarsi agli altri e di rapportarsi al mondo; anche di produrre testi, oggetti materiali, come tutti noi umani facciamo. Hai fatto riferimento alla bellezza un momento fa. Da un pò di tempo, anche lavorando con Vittorio Gallese, stiamo cercando di capire qualcosa di più del tema della bellezza, andando oltre la dimensione solo esteriore delle cose, solo cosmetica.
Sempre più emerge, studiando il sistema cervello-mente e l’esperienza relazionale umana, che forse per bellezza si può intendere qualcosa di molto vicino a quello che dicevi, cioè una risonanza col mondo e con gli altri, particolarmente riuscita, tale da estendere il nostro mondo interno. Parlavi di meditazione molto opportunamente. L’estensione del nostro mondo interno si esprime in modo tale che senza quell’esperienza di bellezza non ci sarebbe. Siamo di fronte a una via per conoscere meglio noi stessi grazie alle risonanze che abbiamo con gli altri e con il mondo. Quando stiamo bene in una relazione noi ci sentiamo aumentati dall’altro; allo stesso tempo l’altro ci può ridimensionare e minorizzare e questo vale anche per gli oggetti. Quando siamo di fronte agli oggetti agli artefatti possiamo avvertire un sentimento di estensione e di aumentazione di noi e diciamo: ma che bello, come sto bene; oppure avvertiamo o possiamo avvertire un senso di disagio, di mortificazione delle nostre possibilità.
Mi piacerebbe che, mettendo in campo la tua esperienza di ricerca e di realizzazione professionale, mi parlassi di quello che hai definito come concetto di volgarità.
mdl: La volgarità è proprio il contrario del sentimento nel quale ci si sente in uno spirito valorizzato. Ci si sente senza la capacità di reagire con sufficiente rispetto per quello che ci circonda. A scuola, ad architettura, quando facevamo storia dell’arte, ci insegnavano che esistono due tipi di bellezza. Una è la bellezza classica rinascimentale e prima ancora greco-romana, quella che deriva dalla storia e arriva all’idea che esista una bellezza universale, che esistenzialmente conduce al concetto dell’estasi.
In base alla sezione aurea e all’entasi delle colonne dei templi greci – il rigonfiamento del fusto della colonna a circa un terzo della sua altezza, un accorgimento ottico che mette in evidenza la robustezza della membratura rappresentando lo stato di tensione della colonna che reagisce alla compressione a cui è sottoposta – non è difficile riconoscere come deprivate di queste distinzioni la bellezza dell’arte greca ne uscirebbe volgarizzata.
La volgarità può essere considerata una colonna senza entasi, per cui ci sono delle regole che se applicate correttamente ti danno la bellezza.
C’è poi una bellezza romantica quella che mi è emersa con l’illuminismo e che dice ognuno ha la sua bellezza e ognuno ha il suo argomento emozionale che lo colpisce e che appartiene a lui e solo a lui: è la bellezza del sentimento.
Sono due bellezze che si sono insegnate come diverse e separate. Secondo me possiamo anche pensarle e azionarle insieme per far nascere una buona idea di bellezza molto più completa. Nella parola bellezza coesistono questi due sentimenti e queste due idee: la bellezza universale che appartiene al mondo, trascendentale, e una bellezza, invece, personale che nasce dall’esperienza, dalla capacità di azione in un contesto e porta a vivere sensibilmente il mondo nel quale e del quale sei parte.
La bellezza, quindi, va considerata proprio in termini di relazioni. Oggi più che mai ci rendiamo conto di quanto siamo tutti interconnessi, di quanto la connessione che esiste tra di noi è il bene fondamentale da perseguire se vogliamo veramente riuscire a sopravvivere in 8 o 9 miliardi di persone su questo pianeta. Se la lotta per sostenibilità climatica è presa sul serio, se siamo tutti d’accordo che la sostenibilità climatica è necessaria, se vogliamo vivere, la connessione è la capacità di tenere insieme poli opposti e di riconoscere in tutto quanto l’aspetto positivo e negativo. Pensiamo che l’elettricità non esisterebbe se non ci fosse un più e un meno, se non si fossero i due poli, positivo e negativo: non ci sarebbe più energia e forza vitale.
In questo consiste il grande passo dell’umanità prossima futura e quindi dobbiamo ragionare per relazioni tra noi stessi e con gli oggetti. Senza le altre persone non esisti e le atmosfere e le nostre emozioni si definiscono nell’estetica delle relazioni non nella volgarità. Quando disegno qualche cosa che dà libertà, che dà senso, disegno qualche cosa di cuore, perché risulta bello per chiunque la utilizza. Quell’empatia che sento di suscitare è il contrario della volgarità.
Quello che mi fa preoccupare e mi interessa di più anche in relazione alla sostenibilità riguarda le situazioni in cui pieghiamo lo spazio per usarlo a fini speculativi, a favore di niente, solamente a favore di una bruttura. Quando vedo una gru dico: guarda, un altro pezzo di Italia che viene distrutto invece che pensare a come fare perché un altro pezzo d’Italia venga salvato, invece che essere reso più bello e più piacevole. Ecco, quella è la volgarità. La volgarità più grande per me è proprio quella di non vedere o non capire i danni che fai al tuo ambiente e a tutto il pianeta e a tutta l’umanità che ci vive sopra.
um: Questa riflessione così importante ci porta all’ultimo passaggio di questa nostra conversazione. Esiste nella tradizione di studi della psicologia e della psicanalisi il concetto di conflitto estetico. Quando prima facevi riferimento all’elettricità e quindi al polo positivo e al polo negativo me l’hai richiamato. Il conflitto estetico è l’esperienza che ognuno di noi fa mentre si gioca tra autonomia e dipendenza. Quando nasciamo non siamo in grado, noi esseri umani, di sopravvivere da soli. Chiamiamo quella fase neotenica. La neotenia è il tempo nel quale noi abbiamo bisogno di chi ci accudisce per sopravvivere e siamo legati in maniera significativa a quella dipendenza dagli altri. Pare che l’elaborazione di quella fase sia legata in maniera significativa alla nostra capacità creativa e anche al comportamento simbolico che tu richiamavi prima. Da tutto ciò deriva la capacità di essere e di sentire di essere, di sapere e di essere consapevoli della nostra conoscenza, e quindi di guardarsi dal di fuori.
Non usciamo mai in tutta la nostra vita dalla dimensione autonomia dipendenza e l’elaborazione del conflitto estetico cioè del conflitto che ci connette agli altri al mondo da vita poi a ciò che siamo in termini di personalità, di creatività, di produttività, di espressione di noi.
Non pensi che forse la volgarità, oltre a tutte le cose importanti che mi hai già detto, si configuri oggi come il tentativo paradossale di far predominare un aspetto sull’altro, l’autonomia sulla dipendenza. Il narcisismo dell’umanità, di molti di noi, che pensano di poter esistere senza dipendere e che quindi esasperano l’autocentratura narcisistica su se stessi, si esprime anche con i consumi e i prodotti, con le quantità, con la competizione per la supremazia. Penso a certe forme di consumo e di ricchezza, come quando si legge che Bezos ha fatto 83 miliardi di dollari di utili, mi interrogo sul delirio di eternità. Non dimenticherò mai quello che ho vissuto quando ho visto per la prima volta le mummie dei faraoni al Museo del Cairo. Siccome un’intera civiltà per millenni è stata costruita nel tentativo di garantire la reincarnazione al corpo morto del faraone, compresa la geometria delle piramidi, la schiavitù e la dedizione per edificarle, quando guardi la pelle secca di una mummia ti chiedi: ma come? tutto per ottenere questo risultato?
mdl: Un risultato che, tra l’altro, riguardava solamente alcune persone che paradossalmente usavano tutti gli altri per questo scopo, riducendoli in schiavitù. La questione del conflitto estetico è di quelle a cui torno spesso anch’io, riflettendo internamente e con altri. Quello che posso dire è che il tema del conflitto è fondamentalmente un problema di confini. Come architetto io disegno confini, disegno muri. Non ho mai risolto il disagio di questa assurdità: io disegno degli oggetti ciechi per separare il dentro dal fuori; per separare lo spazio mio dallo spazio tuo, lo spazio privato dallo spazio pubblico. Quando penso che lavoro e disegno muri per separare mi viene la pelle d’oca, e mi dico: ma forse è meglio che cambio lavoro. “Dentro e fuori” è l’opera che ho fatto in Arte Sella ed è la prova che è proprio è un tema che mi sta molto a cuore. Perché il muro deve poter diventare un oggetto per tenere insieme non per separare, non per allontanare. Se penso a tutta quella prosopopea di Trump che voleva costruire il muro per separarsi dal Messico e per separarsi dal mondo, ritengo fosse un proposito veramente atroce e per giunta inutile, perché nell’unico mondo che abbiamo, nel solo mondo in cui possiamo vivere non ha nessun senso. A proposito del confine, a me piace molto pensare al confine come uno spazio: se confine non è più una riga per terra ma è uno spazio, allora quello diventa lo spazio più bello del mondo, il più ricco perché è lo spazio del confronto e in questo spazio del confronto ci sta dentro tutto. Ci sta dentro anche la cosa che a me personalmente interessa di più, che è la ribellione, perché la ribellione è fondamentale soprattutto oggi. Anche quella verso la volgarità è una ribellione necessaria e giustissima. Alcuni anni fa ho fatto un corso all’Università sul progettare elementi di ribellione. C’erano dei cinesi che partecipavano al corso e non sono riuscito a spiegare loro che cos’è la ribellione.
Va malissimo laddove non può esistere la ribellione perché è anche la forza che noi troviamo dentro noi stessi per migliorarci, per riconoscere i limiti, anche i limiti delle convenzioni e di quello che abbiamo acquisito nel tempo ma che non abbiamo mai messo in discussione, perché ci sembra così logico così normale. È invece proprio lì che bisogna andare a mettere le mani, lì dove possiamo trovare venti nuovi per affrontare un futuro sostenibile, capace di farci sopravvivere tutti quanti. La sostenibilità non è un problema di rendere un poco più sostenibili le nostre scelte; la sostenibilità deve farci vivere in 8, 9 miliardi di persone non così come siamo oggi, ma con la responsabilità di controbilanciare tutto quello che c’è di negativo, dalle disuguaglianze all’ingiustizia, alla distruzione, alla volgarità, con ciò che è positivo l’indicativo e giusto. In fondo è quel che facciamo e possiamo fare per rendersi ancora capaci di ammirare la bellezza che sta attorno a noi.