Sulle prime pensavo che quell’uomo mi conoscesse, eppure era la prima volta che entravo in quel locale a prendere un caffè. Qualche giorno dopo mi accadde la stessa cosa, ma nel bar di un’altra città: entro e mi sento chiamare “caro”! E così in ogni luogo, dappertutto nel nostro paese ti capita di ascoltare: “cosa prendi caro?”, “ti faccio un cappuccino, cara?”. Da allora cominciai a insospettirmi, e a pensare che si trattasse di una nuova “vulgata”, tutta italiana, e a diffusione nazionale rapidissima. Chissà, mi chiesi: sarà qualcosa di spontaneo che vola di bocca in bocca, catturando sempre più adepti, oppure è una nuova formula adottata nelle scuole professionali per arricchire il galateo di baristi e bariste e per potenziare la loro simpatia? Scorrendo la penisola, da Siracusa ad Aosta, sale, infatti, disperso in chilometri e chilometri, al mare, in collina, in montagna, in campagna e in città, un coro di voci singole ma intonate sullo stesso spartito, e allo stesso linguaggio, di baristi e bariste che accolgono con affetto gli avventori appellandoli con “caro” e “cara”!
E’ un’esperienza singolare, devo dire, un po’ inquietante all’inizio, quella di sentirsi chiamare “caro” da un estraneo, da colui o colei che incontri per la prima volta e che forse non vedrai mai più! Un momento di imbarazzo – direi ironicamente ma non troppo – soprattutto per chi è cresciuto in compagnia di una parola cara come quella in questione, evocativa e generatrice di senso e significati pregiati: un legame affettivo, una conoscenza intima, un’amicizia ben fondata: una parola che indica e mette al mondo qualcosa di prezioso, di raro, di affettuoso, di non consuetudinario.
Cara/caro è una parola impegnativa, con la quale molti di noi fanno i conti ogni giorno, centellinandone l’utilizzo proprio per dare forma a relazioni autentiche e a una comunicazione verace. Capita, ad esempio, quando inviamo degli sms telefonici o delle comunicazioni via email, e scegliamo di usare il “ciao” (in luogo del caro o cara) seguito dal nome del destinatario, proprio perché scatta dentro di noi qualcosa che tende a selezionare e a circoscrivere la possibilità di usare quell’appellativo così importante nei confronti di chiunque. Non c’è alcuna prevenzione in ciò, ma solo la consapevolezza che il “caro/cara” destinato a un altro o un’altra è il punto di arrivo di una relazione e non quello di partenza.
Siamo di fronte ad una “vulgata” che nella sua apparente innocuità o innocenza diventa misura e simbolo del degrado del linguaggio, spalancando così la strada al “dover essere” nelle relazioni, grazie a quella che da par suo il filosofo Rocco Ronchi definisce la “meccanizzazione del comunicare vivente che trasforma il turno conversazionale in copione da recitare. Che si tratti di un processo di meccanizzazione è reso manifesto dal carattere comico che ha una lingua totalitaria”.
E’ il tempo delle parole di “plastica”, direbbe il linguista Uwe Porksen, o delle parole “ameba”, secondo Ivan Illich, cioè di quelle parole “tuttofare”, sintetiche, artificiali, oggettive, adatte a qualsiasi conversazione, e perciò incapaci di dare significato al mondo e alle relazioni. L’impoverimento del linguaggio e la sua ripetitività, abitando la quotidianità privano le parole e i gesti della loro possibilità critica e della loro potenza immaginativa, riproducendo quella malattia mortale per le relazioni, per le organizzazioni e per i sistemi mediatici e soprattutto per quelli politici qual è il conformismo. Italo Calvino chiamerebbe tale fenomeno “l’antilingua”, la cui motivazione psicologica, a suo avviso, è “la mancanza d’un vero rapporto con la vita, ossia in fondo l’odio per se stessi. La lingua invece vive solo d’un rapporto con la vita che diventa comunicazione d’una pienezza esistenziale che diventa espressione”.
Emoticon: quando il linguaggio viene privato del senso.
Andrea Donegà
A ben pensarci gli emoticon, che anche io utilizzo, rappresentano il degrado del linguaggio, anch’esso svuotato della fatica dell’ascolto e dell’apertura all’altro, sintonizzato su quella stessa velocità con cui si muove tutta la nostra società. Tutto deve essere veloce, immediato e superficiale e la discussione è una noia, un impiccio. E allora via con il pollicione, invece di spiegare i motivi per cui si è d’accordo con l’affermazione dell’altro, arricchendo le reciproche posizioni; con le mani che applaudono, invece di complimentarsi per il “ben fatto” che è gratificante e presuppone la comunanza e condivisione di valori; con il braccio che mostra il muscolo, come a dire “sei forte” o “sii forte” evitandoci quindi di esprimere una constatazione motivata o una manifestazione di vicinanza che è anche solidarietà; il cuoricino che ci evita la fatica, e la vergogna di dire ti voglio bene, perché la nostra società ci ha insegnato che amare è più vergognoso che odiare. Ecco perché credo che gli emoticon ci stanno disabituando a predisporci all’ascolto e all’accogleinza dell’altro in una dimensione relazione e valoriale che è la condizione necessaria per avere comunità coese, dove le relazioni sono il carburante per raggiungere il futuro.