Intervista a Cesare Moreno, Maestro di Strada a Napoli
By Rosario Iaccarino
Indifferenza, ostilità, paternalismo, cinismo. La transizione all’età adulta dei giovani non è proprio una passeggiata di salute, si potrebbe dire. Le parole recentemente pronunciate da Rosalia Selvaggi¹, studentessa dell’Università di Siena all’apertura dell’anno accademico, alla presenza del capo dello stato Mattarella, lo confermano. “Si parla del nostro futuro ma si continua a farlo senza di noi”, ha detto senza fronzoli.
Cinquantacinque anni fa – era il novembre del 1966 – quando occupai per la prima volta l’università avevamo lo stesso problema: dei giovani parlavano tutti tranne i giovani stessi. Nel momento in cui abbiamo preso la parola s’è scatenata l’ira di Dio. Le parole più gentili che sentii allora erano che fossi anarchico (all’epoca non sapevo neppure cosa significasse quel termine). Un’intera società, un’intera classe dirigente ritiene che quella ribellione fu un male, per altri invece fu un esaltante ma fallimentare processo politico. Da allora ogni movimento dei giovani non riesce a sfuggire a questa logica: o forza disgregatrice o forza rivoluzionaria che come la Fenice risorge dalle ceneri. Possiamo prenderla un po’ più bassa? Mi piacerebbe che finalmente adottassimo una semplice precauzione: i giovani e con loro tanti altri esclusi, non sono destinatari né di condanne né di provvidenze, sono semplicemente interlocutori, persone con cui si interloquisce, ossia semplicemente con cui si parla: perché è così difficile questa cosa, perché è così indigesta?
Nel nostro paese risuonano periodicamente le indagini sulla condizione giovanile, spesso più utili alla retorica di media e politica che non al miglioramento della vita dei giovani, anche negli anni in cui le ricerche parlavano esplicitamente delle “tendenze gerontocratiche in atto nella società italiana”². Considerando il disastro sociale e ambientale che consegnamo alle giovani generazioni, non sarebbe il caso – lo dico con ironia – di mettere sotto osservazione la condizione antropologico-culturale critica nella quale versano i cosiddetti adulti?
Forse non c‘è bisogno di una indagine sulla condizione adulta: è molto evidente che il mondo adulto sta uno schifo, che non riesce ad assolvere alle funzioni elementari che un adulto dovrebbe offrire ai giovani: sicurezza, protezione, nutrimento, speranza. Il Covid_19 ha fatto in modo che questa verità lampante per molti ‘operatori’ specializzati diventasse una evidenza popolare su scala mondiale. Secondo il mio punto di vista i comportamenti giovanili degradati sono nient’altro che il riflesso dei comportamenti di chi gli sta attorno, in un certo senso sono gli indicatori ecologici dello stato di malessere di una società. Quando si sente dire peste e corna dei giovani basta considerare che questo è solo un modo di tenere lontano da sé i disastri prodotti da comportamenti egoistici ed antisociali dei gestori del potere.
Le giovani generazioni sono irrilevanti nella rappresentanza sociale e politica italiana. Anche nella cosiddetta “sinistra” – che dovrebbe nutrirsi di riferimenti quali l’uguaglianza e le pari opportunità – l’appeal verso i giovani è scarso, visto che la sua base elettorale è composta prevalentemente da ultracinquantenni e da pensionati, ossia da generazioni di garantiti.
La politica di sinistra non ce la fa – nun ‘gna fa – a conciliare la linea verso i garantiti con un lavoro con i giovani. Lo schema d’azione con i garantiti è lo schema della rivendicazione; lo schema a due variabili: quello che mi levi lo rivoglio indietro; sono in condizione di convincerti perché posso impedirti di continuare a prendere da me. Lo schema d’azione con i giovani è quello che dovrebbe essere al centro di una politica per i non garantiti: non c’è chi da e chi prende, ma dovremmo mettere insieme tanti soggetti – la complessità e l’iper complessità – per ricercare il bene comune: è uno schema cooperativo piuttosto che rivendicativo, è creativo piuttosto che redistributivo. Ora se per un secolo e mezzo (anche molto di più se partiamo dalle prime rivolte di schiavi) qualcuno ha ragionato – si fa per dire – su due variabili, come fa ad affrontare un discorso in cui ci sono troppe variabili che non si fanno governare da una semplice logica binaria? La stupidità consiste nell’affrontare con mezzi semplici un problema complesso.
Moreno, lei con i Maestri di strada, da molti anni lavora con adolescenti e giovani, in particolare nelle periferie problematiche di Napoli. Che qualità vede in loro, che se coltivate, sono utili non solo per la “riuscita” della loro vita, ma anche come dotazione di senso per una società come la nostra segnata da una cultura piccolo-borghese e individualista che l’ha resa ingiusta e diseguale?
Una volta ho definito le periferie come l’adolescenza delle città, lo stato aurorale della città, il luogo in cui ribolle la società ed è possibile riformarla. Qui niente è scontato e tutto deve essere inventato di nuovo. Qui – diceva un mio allievo – le persone per bene, rispettano la legge quando la legge non c’è. Se volete energie fresche, genuine, non già logorate dai troppi gravami del mondo adulto, dovete cercare in periferia. Sia chiaro che ciò che è genuino ed autentico è sepolto da strati su strati dei peggiori cascami della cultura adulta dominante. Bisogna cercare, bisogna saper cercare, saper ciò che si cerca.
Nel discorso della studentessa di Siena c’è una critica al sistema universitario in quanto ispirato alla meritocrazia, e nel quale,“ il peso della continua valutazione si alterna con la paura del fallimento e un senso di inadeguatezza in cui non è concesso avere fragilità, ma che ci vuole performanti, sicuri, sempre impegnati e attivi per non perdere l’ascensore sociale. La stessa che sta trasformando le università in palestre di sfruttamento, in cui ci insegnano a riprodurre un modello di sviluppo che, guarda caso, è lo stesso che sta distruggendo il nostro pianeta”. Ricordo un giudizio durissimo di Goffredo Fofi³sull’università italiana, da lui additata come il principale nemico di ogni progresso in quanto ammazza i cervelli…
Questa storia della competizione è veramente stramba, forse è il miglior esempio di trascendenza di cui possiamo disporre: interrogata singolarmente nessuna persona potrebbe onestamente affermare che la competizione favorisce l’apprendimento ed un sano sviluppo umano. Tuttavia milioni di persone applicano la logica della competizione come se fosse una realtà ultraterrena, trascendente, a cui non è possibile opporsi. Nessuno può negare che la condizione di benessere psichico sia produttiva di buon apprendimento e sana crescita personale, eppure si opera in modo da stressare tutti quanti noi. C’è chi la sa lunga sulla logica del capitalismo e pensa che questa sia una conseguenza necessaria di esso e della sua versione neo liberista. Io non la penso a questo modo e mi servo di un esempio “aulico” per sostenere la mia tesi.
Racconti…..
Tempo fa lessi su qualche rivista specializzata che gli allevatori avevano deciso di sfoltire le porcilaie: uno studio aveva rivelato che l’ammasso di maiali in uno spazio ristretto aumentava il livello di aggressività e che una parte significativa del cibo fornito ai maiali andava persa attraverso le ferite che questi si infliggevano a vicenda. E’ accaduto così che qualcuno ha incominciato ad interessarsi del benessere dei maiali per poter guadagnare di più. Siamo sempre nella logica capitalistica semplicemente una è stupida l’altra basata sullo studio. Ora cos’è che impedisce di occuparci del benessere psichico delle giovani persone quando sono impegnate negli studi di base e negli studi universitari? Il fatto che loro stessi ed il mondo intero consideri le loro ferite interiori come faccenda privata, che il costo di queste ferite viene scaricato sulle famiglie o sul servizio sanitario invece che essere pagata da quelli che queste ferite infliggono. La mente umana è dotata di una propria complessa ecologia per cui ciò che è cognitivo e razionale interagisce continuamente con quanto di emozionale e relazionale esperiamo nel quotidiano, ciò che ci entusiasma o ci deprime influisce pesantemente sui processi cognitivi e razionali. Dobbiamo pensare all’educazione e alla formazione in modo ecologico, se non lo faremo, avere forti competenze specialistiche è garanzia sicura di squilibri mentali piccoli o severi.
Il senso e il significato del lavoro, come scrive Ugo Morelli⁴, sono la materia prima della motivazione verso l’opera e il ben fatto, nella relazione con l’altro e nella ricerca del bene vicendevole. Assunto in questa dimensione che non riduce il discorso all’economicismo, il lavoro è oggi uno dei più evidenti indicatori dell’inaccoglienza e del cinismo della società italiana verso le giovani generazioni, se si pensa che solo negli ultimi 10 anni 250mila giovani hanno lasciato il nostro paese per lavorare all’estero, non più disponibili ad accettare condizioni professionali e salariali indecenti. Dal suo osservatorio sociale e educativo come vede il rapporto tra giovani e lavoro?
Una massa crescente di giovani fugge dall’Italia. I percorsi di inserimento lavorativo sono strutturati come le forche caudine: bisogna piegarsi e mettersi carponi per passare attraverso porte d’ingresso minuscole. E’ cosa nota tra gli studiosi del ramo che il nostro contratto di apprendistato è un contratto di lavoro: dal punto di vista dell’imprenditore è troppo vincolante, dal punto di vista del lavoratore è un modo di praticare il “sottosalario”. Un contratto di apprendistato inteso come contratto per lo studio invece individua un “bene comune” che è la formazione professionale, utile al lavoratore per spuntare migliori condizioni salariali, ed utile all’imprenditore per ottenere forza lavoro più qualificata. Questo mancato cambiamento del contratto di apprendistato fa in modo che solo il 5% della nostra forza lavoro passi per questa esperienza. In una situazione di disoccupazione giovanile cronica lo stato di disoccupazione si trasforma rapidamente in una condizione di inoccupabilità, ossia nell’acquisizione di comportamenti sociali e stili di vita incompatibili con la condizione lavorativa. E’ stato coniato il termine NEET, ma la cruda realtà è che si tratta nella gran parte di casi di inoccupabili. Una seria politica dell’occupazione dovrebbe quindi dedicarsi a fare in modo che i giovani attraverso una forma di servizio civile, completamente ridisegnato e resa universale, possano fare almeno una prima sana esperienza lavorativa senza dover sperimentare lo schiavismo del lavoro precario, nero, e fuorilegge. In questo modo forse potremmo anche capire quanta parte del fenomeno migratorio giovanile sia dovuto ad un sano desiderio di esplorazione e conoscenza dell’Europa e del mondo e quanto invece sia dovuto al tentativo di sfuggire ad un percorso di inserimento umiliante.
I ragazzi parlano, ma non stanno mai sulla scena pubblica. Nessuno li considera, non sono visti oppure sono visti male…. Le sue considerazioni all’evento “Il suono della parola” – il Festival di letteratura e musica organizzato a Napoli dalla Fondazione Pietà de’ Turchini⁵ – portano dritti alla critica del linguaggio dominante come questione di fondo da affrontare se si vuole riconoscere la soggettività dei giovani e rompere la tirannia degli adulti.
Dal punto di vista educativo la questione centrale per i giovani è il posto che occupano sulla scena pubblica, ovvero il modo in cui entrano nella narrazione, della scuola, delle periferie, dei quartieri, delle città. Una scuola oltre a tante altre cose è anche un luogo della narrazione pubblica, un luogo in cui si può condividere una buona o cattiva reputazione. Ci sono interi collegi dei docenti impegnati a difendere la buona reputazione di una scuola e dei suoi allievi facendo pesanti operazioni selettive al limite con la pulizia etnica o pesanti operazioni di assimilazione ossia di espulsione dalla trama narrativa degli elementi ‘indigeni’ o non conformi al flusso dominante. Queste operazioni condotte con la migliore buona volontà hanno come tratto comune “il monopolio” narrativo da parte di coloro che per qualche motivo occupano posizioni dominanti. Riuscire a esprimere se stessi in questa scena è la scommessa che noi sosteniamo e che trasforma il processo di apprendimento in un simultaneo processo di emancipazione rispetto alle narrazioni dominanti: è questo che noi chiamiamo “prendere la parola”: l’opposizione al “riprodurre” le parole degli altri.
In una recente intervista lei ha affermato che “la scuola non è luogo di trasmissione del sapere ma luogo dove si crea cultura ossia modi di convivenza, legami, solidarietà umana, piccole comunità tenute assieme dal desiderio di accogliere le nuove generazioni”⁶. Le sue parole echeggiano quelle di un altro grande educatore, Mario Lodi⁷, che diceva che a scuola si può “imparare a vivere ogni giorno da cittadini liberi e responsabili. Alla filosofia del consumismo e dell’arrivismo noi possiamo contrapporre la collaborazione, la cooperazione, la solidarietà, la non- violenza….”. C’è ancora un lungo cammino da fare per cambiare la scuola italiana.
“Fatti non foste a viver come bruti /ma per seguir virtute e canoscenza”. I versi di Dante sono il manifesto di un’antropologia della conoscenza ossia di un modo di organizzare la convivenza civile basandosi sulla conoscenza e sul bene. Se questo non è detto sia il modo d’essere della società è certamente il modo d’essere della scuola. Come ha ripetuto recentemente Howard Gardner: verità, bellezza e bontà sono i tre obbiettivi dell’educazione⁸. Questi non sono “valori” da insegnare, ma le basi di un modo di essere nella scuola e della scuola, una antropologia della conoscenza e della solidarietà, della comunicazione non violenta. Purtroppo non è così: se è previsto che un ragazzo possa essere sospeso dalla scuola, prevediamo che altrove egli possa trovare verità bellezza e bontà che non ha apprezzato a scuola? Se di fronte a comportamenti della giovane persona non consoni, chiamiamo a colloquio il genitore che sappiamo userà modi aggressivi se non violenti per redarguire il giovane, in entrambi i casi consideriamo “virtute e canoscenza” degli optional attivi, finché siamo tutti d’accordo, ma seguiamo altre strade quando manca l’accordo.
Quale approccio propone?
Il punto è proprio questo: una antropologia basata sulla conoscenza e sulla bontà lavora per cercare le ragioni dell’unità, si basa sulla solidarietà invece che sulla punizione. La parabola del padre misericordioso, di tutte le parabole evangeliche è la più indigesta per una società competitiva ed aggressiva. La scuola, nel modo più laico possibile, deve fare sua questa parabola che altro non è che un esempio di solidarietà umana che va oltre la colpa. La scuola deve essere il luogo in cui si produce una cultura altra, non obbediente ai canoni della sfrenata competizione economica, non obbediente alla cultura dell’immediato, non avvezza ad usare scorciatoie irrazionali quando occorre affrontare problemi complessi. Se fa queste cose è un luogo che produce cultura, se no è un luogo in cui si riciclano i cascami della cultura “alta”.
¹ https://www.youtube.com/watch?v=fKi_JL29j60
² A. Cavalli, C. Leccardi, Le quattro stagioni della ricerca sociologica sui giovani, Quaderni di Sociologia, Rosemberg & Sellier, 62/2013
³ G. Fofi, I giovani sono roba vecchia, La Repubblica, 24.11.2020
⁴ U. Morelli, G. Varchetta, F. Novara, Il lavoro non è più quello di una volta, Guerini Next, 2021
⁵ https://hi-in.facebook.com/Fondazione.Pieta.deTurchini/videos/637513177443964/
⁶ C. Moreno, La scuola non è un edificio ma la società, Il Corriere del Mezzogiorno, 21.2.2021
⁷ M. Lodi, Il paese sbagliato. Diario di un’esperienza didattica, Einaudi, 1970
⁸ H. Gardner, Verità, bellezza, bontà. Educare alle virtù nel ventunesimo secolo, Feltrinelli, 2011
啥也不说了,希望疫情早点结束吧!