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Irrazionalità sull’uso dei social

Autore

Sofia Pederzolli
Sofia studia e lavora nell'ambito del marketing e della comunicazione, prima turistica e poi di prodotto, poi di nuovo turistica Ama il networking e stare con le persone per creare occasioni "di comunità" e di crescita continua. Svolge attività di volontariato nel settore della cooperazione e della promozione turistica e territoriale grazie alla carica di Vicepresidente dei Giovani Cooperatori Trentini e di consigliera nel direttivo della Pro Loco di Nave San Rocco. Vicina al mondo del non profit, è anche componente del gruppo che è stata rappresentante dei giovani della Conferenza dei Giovani sul Clima del Trentino Alto Adige a Milano, in occasione della PreCop di ottobre 2021.

“L’inarrestabile frequenza dei discorsi d’odio in rete fa discutere, ormai da diversi anni, sul difficile equilibrio tra l’esigenza di arginare normativamente il fenomeno e quella di non pregiudicare la tutela di altri diritti e libertà costituzionalmente rilevanti” (Falletta, 2019).

Accanto ai timori già presenti per il fenomeno della manifestazione d’odio nel mondo offline, il quadro è reso ancor più complesso e ingestibile dall’avvento della Rete. Odio online, razzismi 2.0, hate speech e ostilità verso l’altro: la diffusione di azioni e linguaggi violenti nel web preoccupa, sempre di più nella realtà, ma sopratutto nel digitale.

Emerge una novità: online diventa molto più labile la separazione tra lo dico e so che te lo sto dicendo. Nel senso che lo schermo ci rende più libertini nell’esprimere i nostri pensieri in qualsiasi forma, anche danneggiando l’altro. Ciò collegato al sentirsi parte di una comunità che come pensa allo stesso modo implica che il processo di accettazione sociale non faccia prendere sul serio l’hate creator, che quindi un po’ riparato dallo schermo, si deresponsabilizza automaticamente (Roversi, 2006).

Le criticità quindi appaiono davvero evidenti quando si affronta il tema dell’hate speech, da un lato perchè è difficile trovare una definizione univoca e soddisfacente del fenomeno, dall’altro perchè è intrinseco un concetto di limite di cui non si ha percepito significato.

C’è un limite all’uso delle parole e al manifestarsi di odio? In quale rapporto possiamo pensare la libertà/limite? Si tratta di un limite definito o (ahimè) soggettivo? 

Sembra che vi siano limiti inesistenti della libertà di manifestazione del pensiero.

E sembra altrettanto che vi siano limiti inestitenti per quanto riguarda le modalità espressive utilizzate.

“La modalità espressiva non è aspetto secondario se – come è sotto gli occhi di tutti – il web ha trasformato la diffusione del pensiero da quantitativamente limitata e circoscritta nel tempo e nello spazio in capillare, globale e permanente. I nuovi attori della libertà di espressione, i social network nati come luogo socializzazione, dibattito, condivisione di informazioni, sono divenuti il mezzo privilegiato per la trasmissione di pensiero odioso” (Abbondante 2017; p. 41-42). É un così mondo surreale pensare che ognuno possa essere davvero responsabile di se stesso o se stessa, ponendosi un limite e organizzando la verbalità dei pensieri in un modo rispettoso?

I social network, in quanto proprietari delle piattaforme che “ospitano” i contenuti immessi dai propri iscritti, possono ritenersi responsabili di ciò che viene pubblicato? La risposta c’è ma non si vede. Nella situazione odierna dove i social sono ormai diventati, di fatto, un pezzo di infrastruttura democratica immateriale, è impensabile che si declini all’utenza una responsabilità così grande che ci siamo resi conto di non saper gestire. Di fatto, non esistono limiti per quello che vogliamo dire ma sopratutto per il modo in cui lo vogliamo dire. O meglio questo è quello che si vuole far credere, ma sappiamo che non dovrebbe essere così.

“In altre parole, per quanto vasta e democraticamente rilevante risulti la discussione sulle piattaforme digitali, rimane innegabile, e non è violabile, la sfera privata entro cui essa si svolge, con quanto ne consegue anche in ordine alla libertà del proprietario/ gestore di fissare regole e verificarne il rispetto” (Falletta, 2019).

Ricordo le parole di Ugo Morelli in uno dei suoi ultimi articoli. Ci scrive di “quando Orwell parlava di quelli che cancellavano la storia e la riadattavano alle convenienze perché chi controlla il passato controlla anche il futuro (…) peccando al pari di chi accetta passivamente un sistema ingiusto”. Ed è proprio su questo punto che ci dovremmo interrogare: ossia su come potremmo riuscire ad intervenire in situazioni d’odio online per sottolineare l’ingiusto comportamento dei nostri amici e followers, senza stare a guardare.

Il linguaggio d’odio come lo potremo definire è quello che implica una considerazione “bassa” della persona che ci ascolta: sia considerando il proprio essere, il proprio pensare e il proprio dire di maggior valore, sia non considerando gli altrui sentimenti. Teniamo bene a mente che il linguaggio è realtà e le parole sono pietre, a volte davvero dure. Se pensiamo invece al surplus, da che punto di vista l’odio sui social può portare ad un arricchimento? Sicuramente non è un vantaggio sociale, men che meno economico. Forse sfogativo? Ma sarebbe il caso di imparare a sfogarsi con il silenzio o con il buon vecchio metodo delle palline anti-stress…

“Non si tratta di cancellare la storia né di conservarla contro ogni evidenza, quando se ne scopre l’ingiustizia e la fallacia. Si tratta di cambiare la storia” (Morelli, 2021).

Se vogliamo cambiare la storia, credo sia il tempo di interrogarsi come possiamo attuare, a livello educativo, azioni dirette e strategiche per promuovere processi di riflessione critica sia sui contenuti pubblicati o da pubblicare, sia sulle forme dei messaggi d’odio. Agire è più che necessario. Non basta più educare lo spettatore, serve anche educare il produttore che ogni spettatore è diventato. Sviluppare responsabilità insieme al pensiero critico è altresì necessario. Velocità, anonimato, imput capitalistici sono fattori che inducono ad un comportamento più istintivo, irrazionale. Come si risponde a questa irrazionalità? Come si risponde all’odio? Come si crea responsabilità sociale? Proviamo ad affrontare la problematica con “un approccio morale che educhi a comportamenti di aiuto e cooperazione, orientando ad essere non solo naturalmente, ma anche culturalmente, “negli” altri e “per” gli altri” (Pasta, 2018). Andiamo quindi oltre la denuncia e ci affacciamo direttamente su un grande campo educativo: svillupare l’attivismo digitale di cittadini che devono essere formati come uomini e donne morali capaci di soggettività critica, “attraverso l’assunzione di responsabilità personale” (Pasta, 2018).

E forse così non saremo destinati ad andare incontro alla deriva della ragione.

BIBLIOGRAFIA

Abbondante Fulvia (2017) Il ruolo dei social network nella lotta all’hate speech: un’analisi comparata fra l’esperienza statunitense e quella europea. Informatica e diritto, XLIII annata, Vol. XXVI, 2017, n. 1-2, pp. 41-68

Falletta, Pietro (2019) Controlli e responsabilità dei social network sui discorsi d’odio online. Saggi: Speciale ICON-S Italia 2019 – Le nuove tecnologie e il futuro del diritto pubblico. Link: https://www.medialaws.eu/wp-content/uploads/2020/03/1-2020-Falletta.pdf

Pasta, Stefano (2018) Razzismi 2.0. Analisi socio-educativa dell’odio online

Roversi, Antonio (2006) L’odio in rete: siti ultras, nazifascismo online, jihad elettronica.

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