Per impostare i contenuti del numero di novembre di Passion&Linguaggi, dopo aver definito insieme in redazione il tema, Ugo Morelli ha inviato un testo ai componenti della redazione e abbiamo ritenuto significativo condividere i commenti e le riflessioni che ognuno ha espresso dopo aver ricevuto e letto il testo di Ugo. Pubblichiamo le risposte e i commenti, così come sono stati scritti come editoriale nel Focus.
Grazie Ugo,
Un testo ricco di spunti. Va letto più volte perché ci sono molte porte da aprire ed esplorare. In questi giorni mi sta tornando in mente il film Matrix. Sembra, appunto, che i nostri corpi se ne stiano chiusi da qualche parte vivendo una vita che bisogna ancora capire se sia reale o meno. E immagino quello che scrivi proiettato sui bambini ai quali stiamo chiedendo enormi sacrifici (difficoltà a fare le feste di compleanno, non fanno le partite di calcio/basket, ecc., non fanno giochi di contatto, non si prestano/scambiano giochi/figurine, per non parlare della scuola…. Questo per loro, specie per i più piccoli, sta diventando la loro nuova normalità…) che, certamente, avranno grandi conseguenze su di loro e, quindi, sulla nostra società.
Continuiamo a parlarne.
Andrea Donegà
Grazie anche da parte mia Ugo!
Come ha già detto Andrea è un testo così ricco di riflessioni che deve essere letto a più riprese. Lo trovo illuminante e allo stesso tempo inquietante perché fa emergere un concetto di mente integralista che non avevo mai preso in considerazione.
Propongo di partire da questo stimolo per chiedere ai possibili interlocutori di riflettere partendo da esso, ognuno a proprio modo.
Ci penso ancora…. Sapete che sono lenta e ci vuole del tempo….
Buon fine settimana a tutti e un abbraccio
Emanuela Fellin
Grazie Ugo,
è un testo molto bello, scritto con un linguaggio poetico capace di farci vedere insieme il limite e il possibile, la “schifezza” e la bellezza che siamo; la citazione di Keith Jarrett è tanto emozionante quanto simbolica del non-integralismo per eccellenza. Il tuo testo può aprire spazi di approfondimento in diversi ambiti, a me ha suscitato immediatamente un pensiero sull’educazione, visto che anche in occidente la produzione di menti integraliste nel ‘900 (le ideologie e la religione cattolica avevano organizzazioni di base molto estese e organizzate) è stata abbondante e ancora genera conseguenze, tra le quali quella di non riuscire a vedere soprattutto questo integralismo espresso nella quotidianità come non riconoscimento dell’altro, e di circoscriverlo retoricamente solo all’Islam e dintorni. Ma è la mente integralista della quotidianità che va assunta come nodo della questione, se ben comprendo, che parte dal non riconoscimento dell’intersoggettività e delle differenze, che poi sale ai piani macro della politica, della religione, ecc..Ricordo quanto si parlasse di laicità nella seconda metà del ‘900, anche a partire dal Concilio Vaticano II; fu una scossa culturale importante per sollevare la questione critica dell’integralismo; ritengo tuttavia che quella riflessione, seppure significativa, rimase confinata – per poi spegnersi – alla politica, senza che si comprendesse l’importanza del piano antropologico-culturale-relazionale. Di quella laicità è rimasto poco peraltro nella nostra cultura (che l’ha derubricata spesso al concetto di “tolleranza”), se si pensa anche a quanto poco si pratichi il conflitto nelle nostre istituzioni organizzazioni e relazioni e quanto sia cresciuto invece il conformismo, che è una forma sottile di integralismo. Per non dire dei danni poco apparenti ma profondi che producono i concetti integrazione e inclusione, solo perchè ci sembrano di sinistra o cristiani, ma che nascondono un forte integralismo perchè evocano omologazione. Si potrebbe costruire un piccolo dizionario della mente integralista…..
E’ un grande tema, grazie ancora Ugo, faremo un bel numero della rivista.
Un caro saluto a tutti.
Rosario Iaccarino
Ciao a tutti,
Significativo il testo e significativi i pensieri miei e di tutti voi ad esso associati.
A me vengono in mente più cose:
Questa “nuova” educazione del non toccarsi tra bambini mi fa pensare ad una persona che nasce celiaca o cieca o che lo diventa in età adulta. È diverso essere abituati ad una cosa fin dall’inizio o caderci dentro più tardi, e allora la nuova (non) socialità nei bambini sembra quasi normale per loro ma non per noi, e da sopportare è ancora più faticoso.
L’amore può essere espresso anche nell’attenzione di questi piccoli gesti come il toccarsi, ma è un sentimento talmente diverso che per alcune persone toccarsi non è neanche simbolo.
L’integrazione in culture diverse (sono stata alla mostra fotografica di Steve Mc Curry) e ho capito che anche pensando di essere integrati in un qualcosa alle volte, comunque, non raggiungiamo l’integrazione o la comprensione piena. E mi chiedo come mai? Sarà una cosa che rimarrà sempre così o potrà essere diversa con le menti e gli strumenti nuovi in futuro. E la verità è che non conosco la risposta..
La stessa situazione di toccare il dito del bigliettaio mi capita quando a qualcuno cade qualcosa e che istintivamente mi capita di raccogliere per semplice gentilezza, ma ora questo gesto gentile è visto non più come solo aiuto, supporto ma come distruzione della sicurezza igienica, e provoca dolore, rabbia.
Mi piace tutto lo scritto ma in particolare questi due passaggi:
1. “Ciò che a volte si arresta di fronte a un confine, dopo averlo inventato, è la nostra coscienza. Se abbiamo bisogno, come tutti di definirci, sarebbe fondamentale educarci a quel confine come l’inizio necessario e germinale di ognuno di noi.”
Quante volte siamo noi a porci limiti e confini anche secondo me in base a come abbiamo vissuto e alla società stessa..
E se l’educazione di quel confine ci viene da qualcuno che è a sua volta confinato?
2. “Se la musica non si può suonare, non solo la musica vera e proprio, ma la musica dell’incontro, quella che si sente nell’amicizia e nell’amore, che ne sarà di vite ridotte all’esistente e impegnate a proteggerlo, l’esistente, dentro muri e confini?”.
Mi manca quella musica, quella melodia dolce che rendeva speciale ogni situazione, incontrare l’altro, il diverso e scoprire e creare insieme nuovi orizzonti..
Grazie Ugo per questa condivisione, hai accesso molte domande in me.
Sofia Pederzolli
Buon pomeriggio Ugo e buon pomeriggio a tutti voi.
Il tema proposto mi appare tanto stimolante quanto ricco e complesso: ho anch’io letto più volte il testo ed ogni volta mi si schiudono significati, ragionamenti e collegamenti diversi – dalla qual cosa deriva il tempo che ho impiegato per dare forma a qualcuno di loro prima di restituirvelo. Vi propongo qualcuna delle mie riflessioni, non vedendo l’ora di discuterne a voce con voi – e così di incontrarvi e conoscervi.
“Mi rendo conto che le cose appena percepite e quelle immaginate sono reali […]. Piano piano mi pare di capire che l’integrità che presidio sia un mito che mi sono costruito da solo. Un rifugio della mia mente […]. (Il mio corpo-mente) Si nega i contatti per sentirsi sicuro, sicuro da morire. Sogna barriere, plexiglas e muri. Sviluppa gesti monchi e ritirati. Anestetizza il desiderio prima ancora che si manifesti. Diventa un sistema igienico e preventivo. Previene la vita prima che si affacci. Non si fa domande, vietato farsele. Non si ascolta per neutralizzare eventuali dubbi. Si consegna alla sua versione egoistica e dimentica il verbo aprire. Coniuga il verbo chiudere in ogni tempo e persona. Non vuole scoprire altro che conferme e, quindi, non vuole scoprire e basta.”
Una riflessione che mi viene a margine di questo passaggio riguarda l’insicurezza che si sta palesando nei confronti di quel che sta accadendo, come risposta alla pandemia. Un minuscolo virus ha ribaltato il “nostro” mondo: non ci sentiamo più sicuri di niente. Ci manifestiamo così sospettosi e ritirati in noi stessi – in questo senso, integralisti – nell’illusione che il confine dato dalla mia individualità coincida con un perimetro di sicurezza, forse dell’unica precaria sicurezza possibile. Nessuno si salva da solo, lo sappiamo, eppure ci stiamo intimamente sentendo così: il disagio che ci provoca il contatto con il controllore (la parte per il tutto) – ed anche il suo solo pensiero, come affresca magistralmente Ugo – narra noi a noi stessi. Non mi sembra che sia cambiata la nostra attrazione né il nostro dover fare i conti con l’altro, ma che sia cambiato profondamente il tipo di risposta che quel confronto inevitabile ci porta ad elaborare: abbiamo paura e cerchiamo sicurezza, ci barrichiamo in noi stessi. È l’insicurezza nella quale siamo stati e ci siamo gettati che cerca disperatamente soltanto conferme e disarma la possibilità che accada qualcosa di imprevisto, che “previene la vita prima che si affacci”. Ma perché? Perché non chiediamo aiuto, delegando con fiducia in momento in cui non possiamo che fare questo? Perché guardiamo tutto ciò che è alterità che ci si avvicina con sospetto, dal virologo al vicino di casa? Eppure la contingenza che viviamo ci dimostra pedantemente che è solo collaborando che potremo uscirne. Quale leva, mi chiedo, possiamo utilizzare per superare il confine del mio io e riacquistare fiducia, tornando a declinare il verbo aprire? Quale spazio per l’eccedenza generativa in questa condizione? Mi piacerebbe discuterne con voi.
“Possiamo imparare, tra l’altro, che il nome della grotta di Delfi era associato al vocabolo delphys, “matrice”, da cui il nome del tempio, e che quell’inquietante grembo era chiamato stomios, termine che disegnava anche la vagina [Ramon Andres, Il mondo nell’orecchio, Adelphi, Milano 2021; p. 36]”.
Bellissimo questo aggancio dopo esserti chiesto che cosa l’esperienza creativa di un musicista ci può insegnare di noi stessi, citando indirettamente proprio quel “gnòthi s’autòn”/”conosci te stesso” che stava sullo stipite del tempio. Mi sembra tutto perfettamente collegato… si apre però un tema troppo ampio anche solo per essere qui accennato. Solo, mi premeva non perdere lo spunto per una possibile discussione.
Quanto alla questione nel suo complesso, mi risuonano molti dei contributi inseriti in T. Nagel, The view from nowhere, 1986, Oxford Univesity Press.
Carlo Pacher
Grazie, caro Ugo,
per aver condiviso con noi questo testo che risulta particolarmente incisivo –
e il livello e la profondità delle riflessioni che ha suscitato lo confermano.
Colpisce il modo in cui l'”incidente” (e in queste virgolette c’è
tutta la drammaticità della nostra situazione) col controllore agisce da
innesco per un ripensamento del nostro rapporto con la corporeità, l’alterità,
“la purezza e il pericolo”, al fine di mappare criticamente i
cambiamenti indotti dal terremoto pandemico nelle percezioni, nelle
rappresentazioni, nel ragionamento, nell’immaginazione e nella coscienza di sé.
La crisi che oggi ci scuote, infatti, nasconde e rivela una faglia gigante
al livello degli strati profondi della nostra forma di vita, e il tuo
testo assomiglia a un’autopsia su carne viva per (e, al contempo, un appello
ad) accedere alle cause sepolte di questo smottamento.
Sono molti gli spunti offerti, e condivido l’entusiasmo di Carlo – al quale
rivolgo un caloroso benvenuto – per il nostro prossimo incontro. Qui mi limito
a esplicitare solo due suggestioni.
In primis, considero particolarmente feconda la prospettiva “sintomatologica” che fa da sfondo alla tua analisi della “mente integralista”, ossia lo sforzo di problematizzare i rapporti tra le forme di inquietudine psichica e la società in cui queste emergono, interrogandosi sulla natura delle nuove forme di malessere e su come queste riflettano una crisi più generale, più profonda. Il divenire del mondo e della vita tesse la trama interiore delle nostre biografie, e la tristezza diffusa che caratterizza la società odierna, percorsa da un sentimento permanente di insicurezza e di precarietà, discende dalle condizioni culturali e politiche della nostra contemporaneità. Perché è dal noi che emerge l’io, come tu hai ben sottolineato. Invece, considerare il malessere psichico degli individui come totalmente sciolto dai condizionamenti socio-politici vuol dire, da un lato, non riconoscere l’importanza fondamentale che questi hanno nella formazione dell’individuo stesso e, dall’altro, proporre un’immagine dell’individuo come ripiegato su se stesso e preoccupato unicamente al soddisfacimento dei propri appetiti individualistici. Si tratta, allora, di sentire il polso socio-politico nella nostra situazione emotiva, svelando così le radici del nostro comune sentire, nonché la natura comune del torto. E ciò mi pare indispensabile per recuperare l’ideale della salvezza collettiva, della salvezza declinata al plurale a cui Carlo fa riferimento, per ritessere la trama del nostro vivere insieme e aprire uno spazio di virtualità, dischiudendo nuove dimensioni della vita oltre il nostro microcosmo individuale.
In secondo luogo, sottoscrivo il tuo appello ad abbracciare una concezione dell’alterità come condizione di ogni individuazione, e dunque l’idea di ogni persona come “modo di essere”: ciascuno di noi esiste attraverso il proprio modo di porsi in relazione con il mondo, con gli altri, con il pensiero, con il corpo, con il piacere e con le costrizioni. Occorrerebbe dunque accettare la dimensione di fragilità in cui la libertà, conciliata con il destino (che non è fatalità) ci colloca. Diversamente da quanto sembra suggerirci l’ideale individualistico promosso dalla società (l’equivalenza di autonomia e potere), dovremmo assumere la nostra costitutiva fragilità, dandoci la possibilità di vivere in una rete di legami con gli altri. La persona, come modo d’essere, non è un ruolo fisso, ma anzi si costruisce nella possibilità di rapporti di interdipendenza, restando sempre una una singolarità in costruzione. In quest’ottica, i legami, lungi dall’esserne i limiti, sono l’autentica condizione della nostra libertà. La condivisione costruttiva con l’altro, il rapporto di apertura col mondo, l’assumere la propria molteplicità e i propri legami: tutto ciò è essenziale allo sviluppo di passioni autenticamente sociali, capaci di fondare legami concreti tra le persone.
Alessandro Picone