«La storia non si ferma né con la repressione né con il crimine; questa è una tappa che sarà superata, è un momento duro e difficile. È possibile che ci schiaccino, ma il domani sarà del popolo, sarà dei lavoratori. L’umanità avanza per la conquista di una vita migliore. […] I processi sociali non si arrestano né con il crimine né con la forza. La storia è nostra e la fanno i popoli». L’11 settembre 1973, il Presidente cileno, Salvador Allende, consegnava all’orizzonte del futuro del suo popolo questo bellissimo testamento politico-spirituale. Parte da qui, nel 1990, il viaggio di Daniele Del Giudice, raccontato nella sua tanto bella quanto originale opera Orizzonte Mobile. Parte dall’«Hotel Carrera nella piazza della Moneda che ricordavo dalle immagini della televisione italiana, ricordavo quando era stata bombardata dai caccia Hawker Hunter di fabbricazione inglese con le insegne degli aerei cileni, solo che i piloti erano americani come si scoprì più tardi. In quella piazza, nel palazzo della Moneda, era morto Salvador Allende, obbligato alla resa e al suicidio». Un giusto omaggio a un politico che seppe inseguire un orizzonte di speranza. E poi giù verso il sud congelato del mondo, lungo la Carretera Austral, cantata anche da Cisco, artista impegnato a tenere viva la memoria di tanti piccoli e grandi eroi dei quali dobbiamo avere cura. Il libro di Del Giudice non si limita a raccontare la sua esperienza nel «più profondo e radicale dei Sud», l’Antartide, o il suo ultimo viaggio immaginario del 2007 verso le stesse mete. A questi aggiunge il racconto di altre due importanti spedizioni lungo gli stessi orizzonti: la prima è ripresa dai taccuini di viaggio dell’italiano Giacomo Bove che guidò la spedizione australe italo-argentina del 1882 a bordo prima della nave Cabo de Hornos e poi della goletta San Josè; la seconda dai rapporti dell’esplorazione voluta dalla Reale società geografica di Bruxelles, guidata dal belga Adrien de Gerlache de Gomery a bordo della Belgica tra il 1897 e il 1899. E qui si nasconde una parte del capolavoro di Del Giudice, ovvero l’aver saputo assemblare, con rara maestria, viaggi diversi trasformandoli in un’unica grande spedizione, giocando sulla diversità delle prospettive, delle parole e degli scenari, capace di far respirare esperienze e sentimenti ancorati alla voglia di correre alla scoperta della natura, dei paesaggi, in un abile e leggero parallelismo con l’esplorazione degli orizzonti della vita che si assaporano attraversando la banchisa o fermandocisi sopra a osservare. Del Giudice riesce a incastonare, come in un grande mosaico, tanti e diversi frammenti colorati, realizzando un racconto alto e potente, la cui bellezza può essere ammirata solo scostandosi da esso, ponendosi alla giusta distanza per apprezzarlo, proprio come si fa con un mosaico.
Del Giudice ci fa sperimentare la mobilità dell’orizzonte, e quindi il suo essere indefinito e mutabile, con alcuni accorgimenti linguistico letterari che, tuttavia, appaiono naturali e piacevoli. Certamente la sua capacità di saltellare tra i vari tempi verbali, in tutte le direzioni, accompagna il lettore in un viaggio che sembra non avere un filo conduttore logico; la sua, sembra essere una lingua indifferente al tempo allo stesso modo in cui l’Antartide sembra essere indifferente all’uomo. Ogni capitolo si apre con annotazioni specifiche su spazio e tempo: citando coordinate geografiche e anno, traspare l’dea del movimento, del continuo abbracciarsi e del tenero rincorrersi delle esperienze. Infine, l’alternanza dei racconti, e quindi della lettura, prendono per mano il lettore, tra terre sconosciute e inesplorate, naufragi, navi imprigionate per mesi, marinai in preda alla disperazione, equipaggi coraggiosi, consentendogli di entrare nella storia da qualsiasi porta e in qualsiasi momento, senza smarrire il senso del cammino.
Del Giudice prova anche a rovesciare i punti di vista allo stesso modo per cui, all’inizio del libro, giunge a recriminare che «Il guaio delle storie, con i pinguini, è che sono narrate da un unico punto di vista, quello umano. Alla loro fantasia e curiosità, inesauribili, sovrapponiamo ciò che appartiene a noi, mutandone il senso». E allora, pur facendo suonare i taccuini e i racconti di quelle spedizioni, si percepisce come siano proprio la natura e il paesaggio i protagonisti di quest’opera. «Mi sembra che il mistero si componga di tre parti: quello che l’Antartide ha in comune con il resto della Terra ma che qui diventa eccezionale; quello che c’è solo qui nascosto sotto i ghiacci, e i ghiacci stessi, o che accade nel cielo; e quello che originando da qui influenza poi tutto il pianeta. Sono le cose che la scienza ha sempre cercato di questo luogo, la terra incognita». Il paesaggio diventa quello spazio di vita che connette il mondo esterno con il nostro mondo interno, come ci insegna il professor Ugo Morelli. Una intuizione che apre lo spazio al tema dei cambiamenti climatici dovuti allo sfruttamento della terra ad opera dell’uomo e al nichilismo che non si capisce come possa aver avuto la meglio. Nel libro di Del Giudice si parla anche di questo, ricordando quanto «aria ed acqua trasportano ogni cosa, e poiché l’Antartide non produce in proprio gli elementi che inquinano l’atmosfera del pianeta, ogni cosa può essere misurata qui meglio che altrove. È un grande osservatorio, una cartina di tornasole delle immondizie messe in circolo nel globo. C’è però un elemento che l’Antartide esporta, ed è il freddo indispensabile per il grande processo termodinamico globale». Lì, c’è tutto ciò che serve alla vita visto che in «tutto quel ghiaccio (del duomo Circe) più il ghiaccio della calotta occidentale e delle zone periferiche racchiude i 9/10 dell’acqua dolce del pianeta». Anche Andri Snær Magnanson, autore del libro Il tempo e l’acqua, riconosce, nella sfida globale ai cambiamenti climatici, l’importanza di riconoscere che «siamo plasmati da idee e cultura ma è il paesaggio che da forma, è il tempo che ci scolpisce ogni giorno, l’habitat che ci costringe a sfidarlo con le parole, plasma il destino, e usa il linguaggio per cambiare il rapporto dell’uomo con la terra». Un legame intellettuale con Morelli, anch’esso sostenitore dell’importanza di un linguaggio nuovo capace di rappresentare il mondo in divenire e di cambiarlo in meglio. Perché le parole sono importanti per poter spiegare ciò che accade, premessa fondamentale di ogni cambiamento come conferma Magnanson: «Quanto tempo di vuole affinché una parola di stabilisca nella cultura? Vi sono parole nuove come acidificazione dell’oceano diffusa per la prima volta dai media 20 anni fa. È la parola più grande del mondo poiché tratta del più grande cambiamento nella chimica dei nostri oceani degli ultimi 50 milioni di anni: il calo del PH da 8,1 a 7,7», una variazione che sembra un’inezia ma che, invece, rappresenta uno sconvolgimento epocale in grado di squassare l’intero ciclo alimentare del mare e di far crollare la produzione di ossigeno garantita per il 60% dal fitoplancton.
Eppure siamo imprigionati in una visione economicista. «È dal XVIII secolo che l’economia usurpa il lessico della valutazione del benessere sociale. Vi proietta le proprie categorie in maniera esclusiva. Riordina il tempo, lo governa e impone a tutti un tempo spazializzato unicamente orientato alla produttività e all’efficienza. Un tempo che tracima nello spazio dell’intimità delle persone e in quello degli scambi non mercantili» come ben argomentano Gaël Giraud e Felwine Sarr nel loro interessantissimo libro Un’economia indisciplinata. Riformare il capitalismo dopo la pandemia.
Davanti agli sconvolgimenti globali che ci attendono, e che stanno già dando importanti avvisaglie, l’opera di Del Giudice può regalarci spunti importanti. La sfida è quella di ricollegare questi orizzonti mobili, ricucendo le relazioni e radicandole in un pensiero comune capace di creare nuovi linguaggi e, quindi, un nuovo e comune orizzonte che abbia al centro il ben-essere collettivo.