Ho incontrato Daniele Del Giudice soltanto una volta, a Venezia, ai margini di un convegno letterario. Tanti anni fa, non cerco neppure di dire quanti. Ricordo che qualche tempo dopo qualcuno mi mandò una foto in bianco e nero purtroppo perduta: Lodoli, Del Giudice e io stavamo parlando, all’aperto, in una calle. Del Giudice era una persona gentile, e ricordo che parlammo di lettori, cioè anche di noi, che eravamo scrittori ma anche e soprattutto lettori. Avevamo entrambi un grande rispetto per i lettori, che si rifletteva anche nel nostro modo di scrivere. Incontrare dei lettori è importante per chi scrive. E nei nostri libri c’è l’ombra di questo bisogno essenziale: l’incontro con un pubblico non passivo, che riconosca il bisogno un po’ metafisico di confrontarsi con una narrazione inattesa della loro stessa quotidianità. La letteratura come forma di pensiero, di metafisica appunto, e non come pettegolezzo vestito di rosa o di giallo per ammazzare un viaggio in treno. Da qui la conoscenza di mondi apparentemente lontani: fisici, industriali, avvocati, ingegneri, medici, e andrei avanti con tutte le professioni, anche meno nobili o nient’affatto nobili. Personalmente non ho mai scelto uno scrittore, come protagonista, proprio per questo motivo. Non si scrive per altri letterati, ma per tutti. Ci vuole una certa curiosità per il mondo, per la scienza, per la tecnica, per tutto. Del Giudice era curioso e non convenzionale. I libri che ha scritto non avrebbe potuto scriverli nessun altro.
Ora che è morto sono stati scritti numerosi articoli. Persone che non avevano mai scritto niente su di lui, e che molto probabilmente non l’hanno mai letto, affermano ora: uno dei più grandi del 900, il più grande, addirittura. Niente di nuovo, si dirà. Infatti, niente di nuovo. Parlando del pubblico, e quindi della collocazione della letteratura in questo astratto concetto di pubblico, si affronta un problema essenziale: la letteratura occupa uno spazio marginale e del tutto sbagliato nel pubblico e nella realtà. Prima di tutto per la pochezza dell’ambiente che dovrebbe esprimerlo. Quando eravamo giovani erano pochissimi in Italia a scrivere letteratura (l’autore, purtroppo, era tramontato), tutti molto diversi e dispersi. I piccoli dibattiti in cui venivamo coinvolti involontariamente erano desolanti e incredibili. Per anni fummo divisi in due gruppi: letteratura calda (Tondelli, Lodoli, e in fondo io stesso) e letteratura fredda (da Calvino fino a De Carlo e Del Giudice). Che tra gli strumenti della critica ci fosse il termometro suscitava molta ilarità tra noi, ma la nostra era sempre più una cittadella minuscola, inespugnabile ma anche insignificante. Dopo due o tre decenni di dibattiti simili si tende forzatamente alla solitudine. Ma non al solipsismo, almeno non tutti. Da una parte si cercano contatti con ambienti culturali lontani (scienziati, per esempio) dall’altra, portando avanti il lavoro di scrittori, si cerca di portare questi mondi dentro la letteratura, sfuggendo la vischiosa e narcisistica strada dell’autoreferenzialità (che è poi l’attuale cultura letteraria dominante).
Ho sempre letto Staccando l’ombra da terra come metafora di questo disagio che ho cercato di descrivere. Il volo come metafora non è in sé una novità. La definirei addirittura una super-metafora. Del Giudice ricorda l’immagine archetipica del volo, quella mitologica: il volo di Icaro, maneggiato da tanti letterati. Lo ricorda insieme a un commento per nulla banale, l’osservazione di Leopardi sulla cera che si scioglie quando Icaro sale verso il sole: come può sciogliersi se salendo di quota la temperatura si abbassa sensibilmente? Se nella fantasia e nella religione si volava con l’ausilio di semplici carri o in compagnia di angioletti la salita in cielo degli uomini è stata insieme più umile e ben più laboriosa. Si vola con il pensiero, ma senza miracoli. Generazioni di pensieri, uno sciame di pensieri. Si costruisce, si inventa, si disegna, si progetta, si sperimenta, si fallisce, si riprova.
Vai con la macchina in alto, sì, ma ignoto resta il gaudio del volo. \ Non può chi va in barchetta dire: io nuoto.
Lo ricordava Saba con feroce ironia.
Il volo è dunque una realtà mediata, parziale, una conquista soltanto più elaborata rispetto al volo di Icaro, che sulla necessità di una protesi aveva visto giusto. Negli stessi anni in cui Del Giudice si avvicinava al volo molti nostri coetanei sceglievano altri voli: per esempio quello della droga.
Non so perché ma questo libro mi ha sempre fatto pensare alla morte di un mio amico giovanile, tossico della più lontana delle periferie bolognesi. Un tipo solitario, buono, che si vedeva spesso sulla circolare da solo, quando non saliva più nessuno e tutti erano a cena. Faceva quasi ogni sera decine di volte il giro della città. Ricordo che lo vidi sorridere di fronte a una grande pubblicità contro l’eroina, affissa su un cartellone del piazzale della stazione. La foto ritoccata di un ragazzo con gli occhi bianchi, e sotto lo slogan che diceva più o meno: l’eroina è la morte! Era diretta proprio a lui, la pubblicità, che sicuramente era strafatto come sempre, ma lui rideva. Ecco: un ministero gli spiegava che l’eroina era pericolosa e si poteva morire usandola. Dirlo a lui! che aveva seppellito almeno una dozzina di amici intimi, tutti morti per strada o in qualche bagno sporco in stazione. Chiedere a chi ha la passione del volo di essere prudente, perché può essere pericoloso credo produca lo stesso stupore. L’ossessione del volo, e questo libro ce lo racconta, è intrecciato con il pensiero della morte. L’errore, la pazzia degli uomini, gli eventi atmosferici. Non li puoi escludere del tutto, neanche in un volo sopra la tua città. Anche il mio amico tossico volava, seduto da solo su quel bus, e sapeva che prima o poi sarebbe caduto. Contrariamente al nostro pilota non ne aveva più paura. Per il momento la circolare continuava a volare attorno alla città, e non c’era niente di più bello al mondo.
Anche lui, come il protagonista del romanzo si identifica con la macchina: “Ma quando non ero impegnato nel trasporto urbano su rotaia mi sentivo un aeroplano: non un pilota, insisto, un aeroplano. Da grande avrei fatto l’aeroplano piú grande, un quadrielica, crescendo in apertura alare e cavalli vapore. Come aeroplano nacqui dunque da un tram, come una farfalla dal baco, e come aeroplano sorvolai le strade a una certa altezza, alla quota degli occhi di un bambino, anche se amavo sfiorare il suolo con la guancia in lunghi e infanganti rasoterra.“
Per volare non basta neppure uno strumento adeguato (un piccolo aereo) bisogna anche prendere la licenza: ci vuole un maestro. E l’alter ego di Del Giudice ne incontra uno paradigmatico: un maestro silenzioso. Come sono silenziosi i (veri) maestri! Tutto il contrario dei cialtroni che in quegli anni si autoproclamavano guru e maestri, intestandosi addirittura i cambiamenti della Storia. Poi finalmente arriva il gran giorno: in contatto radio con il maestro a terra rolla lungo la pista per prendere il volo da solo. La corsa di decollo è una metamorfosi: “metallo che si trasforma in aeroplano.” Ora è in volo, la terra si allontana, lo sguardo diventa obliquo su tutte le cose. Solista, si chiama chi vola da solo. Il sogno era infatti quello di volare da solo. Trovarsi lassù, lontano dalla terra e dalla sua gravità. Ma non dagli infiniti errori, pronti a frapporsi tra lui e il sogno. Qui tornano a sovrapporsi il mio amico tossico e il pilota: durante un volo succede l’imprevisto. Si perde nella nebbia. Non sa più dov’è. “La mano sul microfono, lo sguardo fisso nel nerume del cielo, pensavi alla frase; in realtà la frase era lí bell’e pronta, un’augusta frase naturale stampata in mente: Treviso Radar, non voglio morire. Ripeto, non voglio morire.”
Narrativamente splendido questo perdersi tra le nubi. Il dialogo con la torre di controllo, che lo prende sul serio fino a un certo punto. L’operatore sembra annoiato, c’è anche la routine dell’emergenza. Questa sensazione, questo acuto senso di smarrimento, è presente in tutto il libro. Ed è forse esattamente quello che cerca il nostro appassionato pilota. Perdersi nel nulla, sfidando l’indifferenza degli uomini e della natura.
La paura sembra invadere tutto il libro. “Il volo, anche di questo ci si rendeva conto presto, è totalmente innaturale, anzi è per noi la cosa piú innaturale che esista, e la paura al riguardo è un sentimento sano e coerente.“ Anche nelle storie ascoltate nel piccolo aeroporto di provincia torna la paura. Perché anziani piloti, civili e militari, appaiono nottetempo come fantasmi. Il racconto del mancato incidente. Il racconto dell’abbattimento di un aereo civile sopra i cieli di Ustica. Antiche storie di guerra, di cui voglio dare almeno un frammento: “E in una notte del gennaio del quarantatre venne il mio turno, uscí il mio numero, una notte senza luna, del resto non si poteva andare in combattimento solo col suo favore; decollammo alle otto di sera da Decimomannu per la baia di Bona in Algeria, sganciammo nella piú perfetta oscurità contro un piroscafo, subito il cielo s’illuminò d’una pirotecnia saettante di traccianti e colpi di mitraglia.“ E infine ci si ricongiunge a uno dei miti dell’aviazione: Saint-Exupéry. L’autore-aviatore per antonomasia. Il suo misterioso, eroico fantasma attraversa tutto il libro, lo anima addirittura. Un uomo che aveva raccontato atterraggi avventurosi tra le montagne, l’uomo caduto nel deserto, la leggenda inghiottita dall’ultimo, fatale volo della sua vita. La fascinazione del volo collima con quella per la scrittura, reciprocamente metafore in un infinito gioco di specchi. Ma se davvero la vita di ogni uomo è riassunta nella sua fine voglio immaginare Daniele Del Giudice sparito tra le nuvole col suo bimotore diretto verso chissà-dove.