La mia esperienza suggerisce di dislocare l’inconscio dall’individuo verso il soggetto collettivo. Se l’inconscio è mio, in quanto soggetto collettivo, l’inconscio è un fenomeno collettivo. Smaschera tutte le supposte conoscenze sicure, le rimette tutte in discussione, ci costringe all’umiltà.
Piccola storia del trauma in psicoterapia
È, il trauma, una categoria? È lecito mettere in un unico insieme, definito “trauma”, un reduce di guerra, una bambina abusata, una donna picchiata, un migrante che, per salvarsi dalle acque del Mediterraneo, è stato costretto ad accaparrarsi un salvagente lasciando gli altri morire, perché sennò sarebbe morto anche lui, un reduce della Shoah, da una dittatura, oppure, addirittura, un motociclista schiantatosi, o una persona che ha avuto un ictus o un’embolia cerebrale?
Qual è l’indirizzo della parola “trauma”, chi è il ricevente? Soprattutto, chi è il mittente?
In psicoanalisi il termine emerge più volte: durante la Belle Époque, Sigmund Freud individua nel trauma una relazione di abuso sessuale intra-familiare perpetrata dal padre, o da una persona di sesso maschile, parentale o amicale, verso la figlia in età infantile. Freud dichiara che questo episodio, più spesso un insieme di episodi, rimane vincolato psichicamente, data l’impossibilità della bambina a decodificare la doppia relazione tra la tenerezza della figura paterna interiore e la partica abusiva, a cui viene sottoposta da quel signore.
Si tratta della prima descrizione di ciò che, nel futuro, Gregory Bateson chiamerà doppio vincolo. Per Freud, questi episodi vengono vincolati psichicamente, data l’impossibilità della bambina di svincolarsi o manifestare direttamente il disagio, e riappaiono, in forma di sintomo somatico, nel tempo successivo della vita. Si tratta di una memoria del corpo, espressa presso gli organi violati: la conversione. Successivamente Freud rivedrà questa posizione, parlando di “desiderio”.
La seconda emergenza del termine “trauma” in psicoanalisi accade durante la prima guerra mondiale, quando si affrontano le questioni, delle migliaia di giovani uomini feriti e atterriti al rientro del fronte. Vere e proprie stragi, come non si erano mai viste prima, accadono durante gli scontri, i pochi sopravvissuti, definiti “veterani”, al rientro, oltre ad avere terribili mutilazioni, presentano anche sintomi psichici, o psicofisici, come l’arto fantasma, scoperto nel durante la seconda metà del secolo XIX, in relazione ai feriti della guerra civile americana. Il trauma di guerra cambia notevolmente le teorie e i presupposti della psicoanalisi. Si assiste, in quegli anni, alla più importante svolta freudiana in relazione al corpo: da corpo sessuato, al corpo martoriato, ferito, torturato.
La terza volta in cui la psicoanalisi riprende la questione del trauma riguarda il contributo di Sandor Ferenczi. Ferenczi già nel 1932 aveva scritto una sintesi necessaria, in psicoterapia, a distinguere il linguaggio della passione da quello della tenerezza, ma la sua opera rimase silente per anni, fu solo grazie a Michael Balint, che venne conosciuta. Negli anni a venire ci fu il disastro della seconda guerra mondiale e il disastro della Shoah. Fu in quegli anni che giunsero contributi di riflessione come quelli di Wilfred Bion, nel Regno Unito e di Bateson e Jurgen Ruesch, negli Stati Uniti, a proposito dei reduci di guerra. In quel periodo furono definitivamente messe in luce le matrici gruppali della psicoanalisi e le matrici sociali della psichiatria; nacquero la gruppo-analisi, la psichiatria sociale e le prima terapie sistemico-relazionali.
La mia esperienza personale con il virus
Ma il trauma è una categoria clinica? La diagnosi di “Disordine” (non disturbo) Post Traumatico da Stress, in inglese PTSD, ha valenza clinica? Non lo so, forse no, almeno nel senso della generalizzazione. Altrimenti potremmo dire anche tutto uguale tutto. Racconterò quindi una esperienza singolare e personale
Quel che ho scritto fino ad ora è stato un tentativo di spiegare l’esperienza con il trauma da un punto di vista psicoanalitico e sistemico. E’ tempo di descriverla, questa esperienza, con l’animo di trasmetterla a chi legge. Userò il tempo presente, come stesse accadendo ora:
Sono nella moltitudine, al pronto soccorso di Bergamo, durante i giorni delle morti delle persone infette, sempre di più, senza salvezza. Bergamo è, ora, la capitale europea della peste e “lo spettacolo deve continuare”, frase ignobile, ripetuta da innumerevoli dirigenti, direttori, capi, giornalisti, in molte tragedie previste e ignorate. C’è una ecatombe.
Vedo me stesso nel pronto soccorso, mischiato agli altri, sono sotto l’esperienza di una strana diplopia: vedo tutto assieme qualcuno che cammina, altri seduti o giacenti su una brandina. Tutti indossano una maschera di cotone. Questo corpo multiplo, brulicante, si trascina nello spazio dell’Ade.
I primi tre giorni sono un incubo: vedo il mio volto in fondo allo specchio, combatte per respirare, annaspando come un pesce fuor d’acqua, prima di essere ingoiato dai Titani, come Dioniso. È lo sguardo dello stupor, la potenza devastante della morte. Sto svanendo nell’aria?
Mi avvicino allo specchio supportato da un’infermiera, vedo il volto dell’Altro, che morì a 66 anni, la stessa mia età in questo momento, soffocato da una malattia respiratoria, gli dico di lasciarmi vivere, l’infermiera che mi sorregge mi chiede se sto bene – parlo da solo! – poi tutto svanisce. Arriva l’ossigeno e il respiro ritorna, un po’. L’ossigeno mi procura male di capo, poi arriva anche il paracetamolo.
La mia voce cambia. Ora è un falsetto faticoso, la potenza della mia voce baritonale è svanita. Infermiere e medici si piegano davanti al mio letto, come se meritassi più attenzioni. La mia voce maschile “ si trasforma in quella di un bimbo tremolante, tubi e fischi nei suoi suoni” (Shakespeare, Come vi piace, II.7). Sono ancora di fronte alla morte, solo di un passo arretrato, ma sono diabetico e sono stato anche operato un mese fa. Ma non scrivo per me. Benché qui sia solo – né amici, ne parenti sono ammessi – sono una moltitudine, parte disfunzionale di un corpo gigantesco. Dentro il bunker della città più malata del mondo, testimonio la morte e la malattia di amici, conoscenti, colleghi e dei loro vicini in condizioni disperate o, peggio, che muoiono. Il mio cellulare è diventata la mia sola fonte di comunicazione.
I dati statistici forniti dalla cialtroneria istituzionale – la stessa che pareva efficientissima usando lo slogan “medicina di eccellenza” – sempre meno affidabili, siamo nel lazzaretto descritto da Manzoni: qui, a Madrid, New York, ovunque, ma qui con particolari irresponsabilità ventennali. Il mio “recupero” – la sopravvivenza sarà un recupero? – dipende da quello degli altri. Ora sono affetto, infetto, posso affliggere, infettare. Siamo una comunità morente, ci infettiamo a vicenda. Il virus è parte del sistema inconscio. È un trauma? Che tipo di trauma? C’è solo un trauma? O ce ne sono milioni, ognuno diverso dall’altro?
La mia esperienza suggerisce di dislocare l’inconscio dall’individuo verso il soggetto collettivo. Se l’inconscio è mio, in quanto soggetto collettivo, l’inconscio è un fenomeno collettivo. Smaschera tutte le supposte conoscenze sicure, le rimette tutte in discussione, ci costringe all’umiltà.
Ora questo tempo è passato, questo è il tempo della claustrofilia, finirà?