Crisi dell’educazione e della formazione manageriale, aspetti relazionali, motivazionali e di comportamento organizzativo
È un periodo in cui la parola “confine” risuona quotidianamente.
Stiamo nei nostri confini, chiusi “dentro”, limitati nell’andare “fuori”. Stiamo nei nostri confini, è più sicuro.
Viviamo una situazione nella quale le azioni di ciascuno si muovono con un margine di discrezionalità basso, e al tempo stesso molto alto. Possiamo decidere se stare alle regole o infrangerle, incorrendo in sanzioni, pur di preservare quello che per noi è libertà. Ai mille alibi che ci diamo per non fare determinate cose, si aggiungono parole come pandemia, lockdown, zona rossa, e noi siamo fatti di parole, agiamo e rispecchiamo le parole che ci circondano e invadono il nostro essere, cambiandoci profondamente, senza nemmeno accorgerci di ciò che stiamo diventando: chi più arido, chi più generoso, chi immobilizzato dalla paura, chi è vittima di facili complottismi, chi non ha risorse emotive per reagire…
Parole e alibi dietro i quali ci trinceriamo. Aspettiamo.
E il mondo della formazione di cui mi occupo da anni, come si inserisce in tutto questo? È un mondo in crisi? Ma che significa crisi? Crisi di cosa? Di modelli? Di processi? No. Di valori.
Come sempre, la differenza la fanno le persone, niente generalizzazioni.
In questo anno si sono visti comportamenti organizzativi diversi.
L’iniziale chiusura ha avanzato richieste di formazione per “occupare” le persone, spingendo verso una formazione tecnica, dove l’online potesse sopperire ad uno stop forzato e correre ai ripari facendo tutta la formazione obbligatoria possibile, così poi da “non pensarci più”.
Il permanere della chiusura ha aperto poi anche ad altre possibilità di formazione, dove il confronto sui massimi sistemi ha portato professionisti e guru a parlare di tutto in webinar di ogni tipo. Difficile scegliere nell’abbondanza di proposte e difficile riconoscere le attività di valore e spessore. Si fa leva in questo caso sull’autonomia e la responsabilità del singolo nell’attivarsi a scoprire anche mondi che apparentemente non sono mai stati di suo interesse.
Non potersi incontrare e condividere gli spazi dell’organizzazione ha portato in alcuni casi a “rimandare” continuamente attività determinanti per lo sviluppo delle persone, con l’ipotesi che alcune “materie” si possano affrontare solo in presenza (e forse è vero). Spesso, però, questa posizione ha significato semplicemente un procrastinare per mancanza di pensiero e di visione, per giunta con giustificazioni deboli. Si è trattato di valutazioni che, in realtà, hanno portato ad una sorta di stand-by, che ha bloccato tutto, nell’attesa di un rapido “ritorno alla normalità”. E invece? Eccoci ancora qui dopo più di un anno.
Nel caso di coloro che non sopportano l’immobilismo, si è registrata una reazione dettata dal bisogno di “fare” qualcosa. Di qui la corsa allo “strumento” e la conseguente rin-corsa ad un adeguamento rapido per sopperire alle scarse competenze digitali dei più, come se la tecnologia potesse risolvere tutto. È certamente determinante sapersi muovere in tale ambiente, ma abbracciando una dimensione più ampia, dove la persona deve pur sempre restare al centro e trovare motivazioni, nella fatica di adattarsi e riadattarsi ad un mondo veloce, così veloce che da inizio pandemia ad oggi ha conosciuto un’evoluzione inaspettata.
Le prime emozioni oscillavano fra l’entusiasmo per la novità di un modo nuovo di lavorare, al rifiuto del vedere che tutto stava cambiando e non per pochi mesi, ma per sempre. Paura, stanchezza, solitudine sono diventati l’altra faccia di una medesima medaglia, rispetto ad entusiasmo, eccitazione, ad una spinta, un’agitazione verso un modo di lavorare diverso. Attrazione e rifiuto si sono alternati, o meglio, si alternano, con una frequenza quasi inquietante.
A ben vedere, è ancora una storia di confini: questo modo nuovo di lavorare ci ha permesso di essere contemporaneamente in posti diversi, magari perfino con più pc attivi, un occhio e un orecchio per ciascuno schermo… Abbiamo sperimentato la possibilità di essere ovunque e in nessun posto, in una dimensione di multitasking che ci stanca, ci sfida, ma non sempre ci soddisfa. Ore 9 riunione con Milano, ore 9.45 siamo in un incontro a Roma. Pochi minuti e la tecnologia ci permette di annullare le dimensioni di tempo e spazio, riferimenti che da sempre danno certezze… E ora? Ora, in un’era di spaesamento e disorientamento, dobbiamo trovare e scoprire nuovi punti di riferimento che ci permettano di vivere nell’incertezza, caratteristica di questo e del mondo futuro.
Abbiamo vissuto e convissuto in una dimensione nuova; siamo stati travolti da parole come smart-working o remote-working entrate nel linguaggio quotidiano, perdendoci in infinite discussioni ed elucubrazioni mentali sulla sostanziale differenza di significato.
Incontri virtuali sempre più frequenti hanno creato una nuova consuetudine e forse anche una nuova solitudine. Collegamento non significa automaticamente esserci.
Ci si muove al confine fra obbedienza e rassegnazione, rifiuto e attrazione.
Abbiamo vissuto mesi di “abbondanza” di informazioni, webinar, talk, incontri con l’autore, professionisti… non sapendo neppure più scegliere cosa seguire. Ed ecco, nuovi confini, stare dentro o fuori, partecipare o curiosare nascosti dietro uno schermo.
Ancora, il confine fra ambiente di lavoro e casa, fra colleghi e amici, fra casual ed elegante… confine fra intimità e professionalità, competenze ed emozioni.
Paura del virus, paura dell’ignoto, desiderio di sperimentarsi in un mondo nuovo, di riscattarsi, di dimostrare a tutto e tutti che abbiamo la forza per affrontare tutto questo… Alla fine, ci siamo trovati a dover riconoscere che da soli non si va da nessuna parte: ancora una volta, la differenza la fanno le persone e le relazioni che si instaurano.
I sentimenti si mescolano: voglia di affrontare tutto questo, come fosse un nuovo inizio e contemporaneamente voglia di tornare ad una quotidianità forse troppo spesso sottovalutata.
Tutto ci porta a riconsiderare quanto realizzato in anni, a pensare a dove abbiamo investito le nostre energie e dove abbiamo speso il nostro tempo. Si rimette tutto in discussione, provando a non farci travolgere dagli eventi. E se oltre a noi dobbiamo occuparci anche di altri, tutto è esponenzialmente più violento. Dare il buon esempio, orientare e al tempo stesso trovare una bussola per questo nuovo mondo, dove i confini e la globalizzazione non sono più solo parole su carta.
Sperimentiamo forse per la prima volta cos’è questo famoso mondo VUCA, un termine utilizzato per la prima volta nel 1987 che ora ci travolge: volatilità, incertezza, complessità e ambiguità delle condizioni e delle situazioni. Siamo qui.
La formazione dovrebbe anticipare i bisogni dell’altro e prendersi cura del processo di apprendimento.
Non basta più rispondere alle esigenze delle persone, non servono più semplici analisi dei bisogni formativi, è oggi necessario orientare verso nuovi atteggiamenti e nuovi comportamenti che, proprio in quanto nuovi, non sono esplicitamente percepiti come bisogni.
Abbiamo bisogno di nuove competenze perché il terreno sotto i nostri piedi è cambiato e non è nemmeno stabile, continue scosse di assestamento ci destabilizzano tutti i giorni. E allora ci ritroviamo a dover studiare, conoscere sempre di più, esercitarci, fare pratica di nuove azioni, sperimentarci, relazionarci in modo nuovo.
Sono diventati così mobili i confini fra formazione tecnica, specialistica, commerciale, manageriale… Se è vero che le distinzioni non sono mai state nette, oggi si contaminano continuamente.
Ci muoviamo in una ZONA GRIGIA.
Abbiamo bisogno di nuovi leader e insieme a loro dobbiamo creare ambienti di apprendimento; la leadership diffusa non è più frontiera per illuminati, ma una competenza divenuta necessità.
Quindi, quale bussola per orientarsi e muoversi dentro e fuori questi nuovi confini?
La relazione con noi stessi, che si genera nella relazione con l’altro, è forse l’unica via. Va riscoperto un EGOISMO BUONO, sano e al tempo stesso un ALTRUISMO che da anni è spesso calpestato da arrivismo e desiderio di emergere. Far convivere queste due dimensioni ci permette non solo di sopravvivere agli eventi, ma di vivere e far vivere un mondo nuovo. E la formazione, pensata, può fare la differenza per preparare tutti ad essere un po’ più consapevoli dei passi da fare. La formazione ha bisogno di persone capaci di essere antenne proiettate sul futuro, in grado di giocare d’anticipo in un contesto sempre meno prevedibile.
La domanda che dovrebbe rincorrerci in ogni momento della giornata, in ogni situazione, con grande senso di responsabilità è: “Dato il contesto in cui siamo, data l’imprevedibilità degli eventi, cosa posso fare io per i miei affetti, per il mio team, per la mia organizzazione, per me stesso?”. Si tratta di imparare ad occupare uno spazio organizzativo diverso, di imparare quindi ad abitare nuovi confini.
“La complessità richiede strategia,
che è l’arte di muoversi nell’incertezza”.
Edgar Morin
Brava Francesca !