Il Piano nazionale di ripresa e – absit anticipato per l’orribile neologismo, bisognerebbe vietarlo per decreto – resilienza, a cui l’Italia segnata dalla pandemia affida le sue speranze e le sue prospettive di sopravvivenza, è inquadrato in un progetto europeo intestato alle nuove generazioni. Next Generation Eu. Vuol dire che ogni azione, qualsiasi provvedimento, tutte le riforme e il complesso delle aspettative vengono calibrate perché ne divengano protagonisti, prima ancora di poterne usufruire, i cittadini che verranno da qui al 2026 e inevitabilmente più avanti. Cioè, esattamente a coloro che in questi mesi e chissà per quanto ancora si trovano in una condizione di penalizzazione formativa, sospesi in un vuoto identitario di studenti senza scuola e ragazzi e ragazze senza vita, di individui senza esperienza e quindi senza coscienza di sé, abbandonati a uno stato di solitudine profonda: immersi in un buco nero di precarietà da cui è ben difficile immaginare se ne possa uscire pronti per occupare ruoli decisivi in vista delle scadenze e delle prove che verranno.
C’è qualcosa che non funziona. Si tratta di una evidente contraddizione concettuale che di certo non sarà l’unica, ma di sicuro quella maggiormente grave. A meno che in questa incongruenza logica non si nasconda l’insidia di un retropensiero strumentale, la trama di una verità occulta ma ben dettagliata, pronta a imporsi come unica e dominate nel momento della resa dei conti: a sancire il fallimento di uno schema, di una generazione, di una istanza e sostituirle in fretta con un’altra già pronta e collaudata. Resta comunque in piedi l’interrogativo: in quale altro modo una struttura sociale di civiltà può suicidarsi?
Se la capacità di un Paese di offrire ai suoi cittadini un buon apparato educativo costituisce un elemento prioritario per la salute dell’economia e della democrazia, il metro di esame è rappresentato dall’entità degli investimenti in materia. Al contrario, difficilmente un sistema pubblico scarsamente finanziato riuscirà a garantire livelli di efficienza. Quando poi in un tessuto fragile intervengono elementi di straordinarietà come una pandemia di inedito carattere globale, l’urto diventa insostenibile perché il trauma porta alla luce problemi antichi e fratture storiche. Prima dell’irruzione del Covid-19, così, l’Italia risultava ultima in Europa nella graduatoria destinata ai fondi per l’istruzione e la ricerca: il progetto neoliberista, avviato a partire dalla crisi del 2008, aveva visto seguire la tendenza europea di tagli lineari e contrazioni graduali della percentuale del prodotto interno lordo destinata al sistema educativo. Ne sono il frutto i 14 milioni di cittadini tra i 15 e i 64 anni che oggi vengono catalogati come analfabeti funzionali, incapaci cioè di orientarsi nel mondo digitale, nella denuncia di Vittoria Gallina, esperta di educazione in età adulta e dei processi di Life Long Learning, responsabile italiana per le indagini Ocse. Ha aggiunto che “oltre 26 milioni sono al di sotto del livello che indica la piena padronanza della strumentazione per svolgere i compiti dell’età adulta, mi riferisco alla capacità di comprendere e produrre conoscenze e informazioni. E, soprattutto, alla capacità di innestare nuove esperienze su patrimoni posseduti”.
L’intervista nel corso della quale Gallina ha esposto questa situazione, che fa conquistare all’Italia il triste primato europeo di analfabetismo funzionale, ha per titolo “Salviamo l’Italia dall’ignoranza” (“la Repubblica” del 20 aprile scorso). E’ rimbalzata in un teatro di scuole e università chiuse, di aule deserte, di studenti chiusi ormai stancamente – dura da un anno – in camera e collegati al computer o allo smartphone, di insegnanti e professori che alla lezione frontale hanno sostituito – spesso con impaccio – forme e moduli di didattica a distanza brevettati in corso d’opera. Come ha sottolineato Barbara Stiegler, filosofa francese dell’Università di Bordeaux Montaigne, in una intervista a “L’Espresso” del 25 aprile: “I corsi online hanno distrutto l’insegnamento come atto collettivo, negando ciò che era al centro dell’educazione: contribuire alla socializzazione, non solo attraverso il contatto tra pari, ma soprattutto attraverso la costituzione di una società che condivide il sapere sviluppato in comune. La finzione che accompagna questi dispositivi è che l’educazione possa essere ridotta a una semplice connessione tra due individui, tra un parlante che invia un messaggio predefinito e un ricevente che riceve passivamente questi contenuti prima di ripeterli in modo identico. Questa è la negazione stessa dell’educazione”.
L’ultimo saggio di Stiegler ha per titolo “Il faut s’adapter. Sur un nouvel imperatif politique”, pubblicato da Gallimard nel 2019. “Bisogna adattarsi. Intorno a un nuovo imperativo politico”: dove, in verità, si propone la resistenza a questo stato e un adattamento per costruirne uno diverso, nella convinzione che – ha aggiunto – “la riflessione dei pedagogisti degli ultimi due secoli sull’atto educativo è stata spazzata via dal progetto neoliberista, quello di una riduzione dell’educazione alla capitalizzazione neoindividualista di prestazioni e competenze in vista della sola competizione sociale. Al punto che la valutazione è diventata l’unica ossessione delle lezioni via Zoom”.
Quando ci si accorgerà della voragine causata ai danni della generazione ormai detta Covid-19? Quando ci si ritroverà a misurare l’entità dello strappo educativo provocato? Allora, che cos’altro si potrà constatare se non un profondo e ulteriore trauma le cui conseguenze inevitabilmente avranno un peso gravoso nel predisporre il tentativo di rimediare agli effetti di quello più generale causato dalla pandemia? Ogni risposta rischia di arrivare già troppo tardi. Per evitare il mai occorrerebbe ribaltare il paradigma che ha bloccato l’istruzione, la ricerca e la cultura per decenni.