Il campo semantico non promette niente di buono. Almeno a prima vista. Il senso del trauma richiama il perforamento, la trafittura, la ferita, la lesione. E tuttavia “tra” ha il senso e il fondamento di “muovere”, come nel sanscrito “tarami”, “passare al di là”. Emerge perciò, oltre la prima accezione, un movimento, una possibilità, un’evoluzione possibile a partire dal trauma. Molto dipende dalla sua elaborazione.
Il trauma a lento rilascio, e allo stesso tempo di forte impatto, della pandemia, colpisce lo spazio peripersonale; destruttura il tempo vissuto; attacca l’affettività e la corporeità anche causando l’impossibilità di amare; infierisce sulla poetica e sulla creatività ottundendo la disposizione a fare e a generare l’inedito necessario.
Soprattutto induce a sospendere l’empatia causando l’imposizione di un compito ineseguibile per esseri naturalmente empatici e intersoggettivi quali noi siamo.
Andrea Zanzotto si è interrogato sull’idea che la vita sia un “tentativo senza fine di superare un trauma sconosciuto”, che costituisce una “trasformazione in termini laici dell’idea di peccato originale”, e ha precisato con l’aggiunta di un “forse” (A. Zanzotto, Eterna riabilitazione da un trauma di cui s’ignora la natura, Intervista a cura di L. Barile e G. Bompiani, Roma, Nottetempo, 2007).
Un evento realmente accaduto nella vita del poeta: un incidente del 2005, diventa un pre-testo per una proposta di particolare intensità e profondità, alla ricerca della comprensione del rapporto tra trauma ed esistenza.
Zanzotto, infatti, ha approfondito, con la sua delicata ironia, “volendo infiocchettare un po’ la cosa”, che il trauma è anche “il vissuto poetico, il vissuto della poesia, la preparazione della poesia, e poi i vari tentativi di ricevere un’ondata positiva e comunque creativa”. Uno dei punti essenziali è che il poeta si riferisce al trauma originario come un rapporto di “continuo confronto”, un “continuo autoprocesso”. La riabilitazione è la poesia e “il vissuto che è connesso al farsi continuo della poesia”.
Zanzotto, alla sua maniera, connette il trauma della creatività all’esperienza e al tempo che viviamo e, quindi, alla guerra, alla devastazione del paesaggio, alla possibilità dell’entropia, al correre del tempo tradizionale e del suo odierno mutamento, e persino al turbinio e al caleidoscopio della sua attività di poeta: persino la pluralità possibile di punti di vista può essere traumatica: “[…] non si ha un punto fisso da cui guardare le cose”.
Dentro il trauma della pandemia e il suo estenuante prolungamento nel tempo, siamo costretti a modificare le nostre stesse premesse teoriche e tecniche di analisi. Bisogna considerare, infatti, che, con Covid, ci fa difetto l’evento definibile e definito, la sua materialità visibile, la sua delimitazione spaziale, la sua topologia misurabile: Covid è ovunque e i suoi comportamenti contagiosi non sono per nulla identificabili con certezza. Il virus è invisibile eppure consistente. La sua virulenza è altrettanto incerta e può andare da una presenza e un passaggio taciti alla distruttività psicofisica fino alla morte. È, inoltre, un ospite che la fa da padrone: ha bisogno di noi ma ci usa senza preavvisi e usa soprattutto quanto di più importante vi è per noi, il nostro bisogno di relazione, di intersoggettività, di contatto corporeo, di empatia. Provoca, quindi, una paura catastrofica che sovente sfocia nel panico di intere popolazioni, salvo poi tendere a riattivare l’ineludibile bisogno di relazione e di contatto, di incontro e di affettività.
È necessario evitare di descrivere la situazione pandemica senza collocarla nei nostri atteggiamenti e nei nostri comportamenti individuali, collettivi, istituzionali. Siamo sempre noi a creare regole anti-Covid, e noi a trasgredirle; siamo sempre noi a ritenere di essere immuni e a considerare le nostre necessità come ineludibili; siamo sempre noi a giudicare i comportamenti altrui pericolosi e inaccettabili, mentre gli altri fanno lo stesso con noi. Siamo sempre noi a parlare delle altrui responsabilità e mai delle nostre. La realtà sociale che stiamo vivendo, insomma, sta alterando le nostre personalità e ognuno di noi se ne accorge considerando i comportamenti altrui e quasi mai i propri. Per non parlare di chi stabilisce connivenze e complicità con la pandemia e il virus per scopi di lucro e per praticare abusi organizzati.
Il più potente meccanismo di difesa che abbiamo messo in atto nel tentativo di non ragionare in termini di responsabilità diretta, riguarda la disposizione a trattare come eccezionale e imprevedibile l’avvento della pandemia. In questo modo tentiamo di liberarci del conflitto interno e dell’ autocritica, che sarebbero oltremodo necessari da elaborare per considerare che non siamo di fronte ad un’imprevedibilità e ad un’eccezione, ma il fatto che in quella che ritenevamo la normalità precedente nelle nostre vite, nei nostri processi di consumo, nei nostri modi di produrre, nei nostri modi di alimentarci e di accettare le ingiustizie e le disuguaglianze di un intero modello di sviluppo, risiede di fatto l’origine della pandemia e il dramma traumatico che stiamo vivendo. Se fossimo capaci di considerare i segnali effettivi consci ed inconsci della nostra opposizione all’adattabilità e al conformismo imposti dalla forza dell’abitudine, potremmo scoprire il valore della vergogna e quello dell’indignazione e reagire responsabilmente e progettualmente alla condizione che stiamo vivendo.
Uno dei rischi più gravi che corriamo è probabilmente l’affermazione della disposizione all’accettazione tacita di qualsiasi contesto e di qualsiasi realtà, persino le più ingiuste e illegittime, conferendo ad esse ovvietà, familiarità, banalità e tutto ciò che facilita il conformismo. In una certa misura questo sta già accadendo se si considera la nostra disposizione sostanzialmente passiva e tacita ad accettare le pur necessarie sospensioni della libertà individuale di movimento e di relazione. Del resto, il conformismo sociale e la continuità della sospensione delle regole anche dopo l’eventuale fine della situazione pandemica, sono due delle conseguenze tra le più temibili della situazione traumatica che stiamo vivendo. Per cercare di comprendere questi rischi è necessario attivare modelli di analisi che siano capaci di considerare le dinamiche della soggettività in rapporto al contesto traumatico in corso.
Per comprendere, o almeno cercare di farlo, alcuni aspetti degli effetti del trauma prolungato che stiamo vivendo è opportuno prendere in considerazione le dinamiche che si sviluppano negli spazi della soggettività. Quegli spazi sono almeno tre: l’intrasoggettività e quindi i processi intrapsichici che hanno a che fare con la relazione tra l’io e gli oggetti interni; l’intersoggettività riguardante i legami tra il soggetto e l’altro o gli altri della realtà esterna; i fenomeni trans-oggettivi, cioè i legami tra il soggetto e il contesto sociale condiviso.
L’emergere delle istanze arcaiche, con i loro potenziali distruttivi, può causare regressioni all’indifferenziazione con tutti i rischi connessi. Il problema principale a questo livello è la carenza o assenza totale di impegno per creare depositari inediti riguardanti sia un diverso modello di sviluppo, sia forme di organizzazione sociale alternative a quelle vigenti.
Si tratterebbe insomma di creare forme di dipendenza efficaci basate sui principi di reciprocità e vivibilità sostenibile in grado di favorire una progettualità sociale adeguata ai principi del limite e per molti aspetti opposta ai principi che hanno dominato il modello di sviluppo dal quale la pandemia si è generata.
Per ora gli effetti del trauma si esprimono principalmente con la prevalenza della paura che porta all’ oscuramento delle capacità di vedere, all’ indifferenza e a molteplici tattiche di adattamento opportunistico che risultano prevalenti ad ogni osservazione. Le stesse modalità con cui ci si atteggia rispetto alle risorse pubbliche, che sono debiti, provenienti dalle istituzioni europee, mostrano il prevalere di reazioni difensive opportunistiche rispetto alla situazione di estrema incertezza nella quale viviamo. La violenza della presenza del virus mostra di provocare fenomeni di adattamento soggettivo che accentuano l’ambiguità della situazione e producono effetti da “adattamento a qualsiasi cosa”. In una simile situazione si assiste ad un’alterazione profonda del pensiero critico e all’affermazione di processi suggestionabili e suggestionanti che espongono ad ogni rischio.
Quello che per ora non si riesce a fare e che sarebbe necessario riuscire a mettere in atto è la trasformazione della alienazione che stiamo vivendo in giudizio critico. È come se non riconoscessimo i sentimenti che ci disturbano e, mentre ci disponiamo a subire la violenza del virus, mostriamo di non riuscire a trasformare in esame di realtà il disagio, e a riconoscere che solo da un esame di realtà, anche doloroso, può scaturire un effettivo progetto di vivibilità sostenibile.
Intanto sia a livello intrasoggettivo che intersoggettivo le relazioni regrediscono; si introducono sospetti e fraintendimenti tra le persone, e si accettano compromessi che spesso sono altamente lesivi della libertà. La “confusione delle lingue”, descritta da Ferenczi [Ferenczi, S. (1932), Confusione delle lingue tra adulti e bambini, in: “Fondamenti della psicoanalisi”, Guaraldi, Rimini, vol. 3 (1974)], corrisponde all’equivoco intersoggetivo e rappresenta un’incapacità di percezione e di giudizio sui fatti che stanno succedendo. La “difesa tramite l’ambiguità” non permette ai terzi di chiarire i propri dubbi e di allarmarsi ed indignarsi al momento giusto.
A farci principalmente difetto è la transoggettività e un sentimento di appartenenza istituzionale, che potrebbero offrire regole e direzioni condivise per far fronte alla pandemia con principi di convivenza e certezze basilari. Le indicazioni e le regole invece sono particolarmente disarticolate e generano effetti confusivi destabilizzanti. A livello affettivo la transoggettività non riesce a diventare un contenitore di sentimenti condivisi, e a perdurare è la perdita di fiducia provocata dallo scomparire di contesti reali e riferimenti simbolici significativi.
Uno degli effetti più problematici e perniciosi del trauma è, quindi, la distruzione di un contesto condiviso di sicurezza e dei sentimenti relativi. Ciò conduce intere parti della popolazione verso il conformismo e l’assenza di senso critico con esiti di suggestionabilità e facile manipolazione, e altre parti della popolazione verso forme di rivolta irrazionale e di populismo negazionista. Le istituzioni insomma non riescono a svolgere una funzione di depositari condivisi.
Solo un’approfondita disposizione ad attraversare il trauma con un esame di realtà particolarmente appropriato può far emergere una generatività quanto mai necessaria, per molti aspetti suggerita come indispensabile dalla pandemia, capace di creare forme di vita che siano in grado di riconoscere il possibile nel limite.