Ostaggi del virus rischiamo di regredire ad un’inversione del legame sociale, da fonte di riconoscimento a fonte di minacce
A pensarci bene una delle conseguenze più temibili della vicenda pandemica nella quale siamo immersi da più di un anno, è la nostra regressione possibile a comportamenti ancestrali e primordiali che potrebbero essere particolarmente pericolosi e mettere a rischio la nostra convivialità più di quanto già non stia facendo il virus. In effetti accade spesso di chiedersi come mai, nonostante i non pochi comportamenti devianti rispetto alle regole che ci sono in giro, l’aggressività di noi esseri umani non si traduca, almeno per ora, in comportamenti caratterizzati da distruttività e violenza. Basterebbe, per giustificare questa domanda tutto quello che sappiamo a proposito del rapporto fra noi e lo spazio, delle condizioni della prossemica elementare tra noi umani, parametrate con la condizione di chiusura e vincoli al movimento e alla socialità che stiamo vivendo. Sappiamo dalla ricerca che ognuno di noi ha bisogno di un certo spazio vitale e di un ambiente in cui muoversi in grado di garantire differenziazione percettiva e varietà delle esperienze. Queste deprivazioni sono naturalmente sotto gli occhi di tutti e il rischio che corriamo è che si traducano in regressione individuale e di gruppo verso comportamenti antisociali, che potrebbero essere determinati non solo dai vincoli al movimento e alla spazialità, ma anche da condizioni di necessità materiali ineludibili che divenissero accessibili solo a pochi e fonte di deprivazione primaria. Siamo esseri caratterizzati dalla neuroplasticità e, quindi, continuamente coinvolti da processi di adattamento e adeguamento dei nostri comportamenti alle condizioni al contorno. Non solo, ma a distinguerci, insieme a tante altre specie, è l’epigenesi, cioè la nostra disposizione a non essere fissi ma a crescere e svilupparci in stretta interdipendenza con l’esperienza effettiva della nostra esistenza e i ritorni che quell’esperienza genera non solo sulla nostra soggettività ma anche sulle nostre caratteristiche bio-psichiche. In breve, quindi, è fondamentale domandarsi che cosa stiamo diventando mentre viviamo il trauma della pandemia. Insieme a questa domanda ve n’è un’altra strettamente correlata e riguarda come stiamo cambiando e quali sono i cambiamenti di cui ci accorgiamo e quelli di cui non ci accorgiamo. Emerge così che abbiamo dato per scontato molti aspetti della nostra convivenza, connessi alla sicurezza, alla presenza dell’altro come fonte di reciprocità o al massimo di indifferenza, alle aspettative che il comportamento altrui, a parte casi devianti tutto sommato eccezionali, sia un comportamento prevedibile sulla base delle nostre proiezioni, delle nostre percezioni, della nostra storia e delle nostre esperienze. Potremmo scoprire, e in non pochi casi ormai già stiamo scoprendo, che queste aspettative e queste previsioni relative al comportamento dell’altro possono essere disattese, sbagliate, e riservarci delle sorprese particolarmente problematiche e difficili da elaborare. La regressione infatti può essere tale, causata dal trauma, da far emergere forme ancestrali di comportamento, sollecitando particolarmente le emozioni di base e soprattutto quelle che regolano il rapporto tra sopravvivenza, aggressività e distruttività. Già le forme del sospetto relativo al comportamento degli altri e alle minacce che propongono con la loro presenza hanno a che fare con questa questione. Non è difficile constatare come il livello complessivo di fiducia reciproca e di fiducia sociale siano fortemente calati e l’altro che rappresentava per noi fonte di riconoscimento, occasione di incontro, fonte di affettività cercata e reciproca, oggi tende a configurarsi principalmente come minaccia e, d’altra parte, a nostra volta noi rappresentiamo una minaccia per gli altri in quanto potenziali veicoli di contagio. Ostaggi del virus rischiamo di regredire ad un’inversione del legame sociale, da fonte di riconoscimento a fonte di minacce. Accanto a questo, ciò che rischiamo accada è un processo regressivo determinato da un combinato di necessità materiali, difficoltà di approvvigionamento, rarefazione delle presenze pubbliche e della dimensione pubblica della vita, eccitazione delle istanze aggressive, abbassamento delle difese reputazionali e di autostima, giungendo a divenire non solo minacciosi per gli altri ma fonte di pericolo. Da questi processi regressivi possono derivare, sempre come effetti del trauma pandemico, comportamenti imprevedibili e situazioni relazionali pericolose, amplificando rischi di socialità e rischi di vita pubblica di una portata tale per cui i cosiddetti problemi di sicurezza, così tanto esibiti prima della crisi pandemica, risulterebbero semplicemente di poco conto e tutto sommato secondari. L’auspicio naturalmente è che si riesca ad elaborare i rischi di processi regressivi in atto non solo giungendo ad una elaborazione degli effetti della pandemia che tenga conto della disuguaglianza, della giustizia sociale e della cura della progettualità dei singoli, ma che si presidi quello che forse è il rischio più grave, la regressione verso uno stato di polizia motivato con l’eccitazione delle aspettative di controllo ritenute necessarie, giustificandole con i processi di regressione.