È estremamente suggestiva e affascinante la prospettiva di Janwei Xun sulla metamorfosi del rapporto tra realtà e percezione. Il nocciolo della sua spiegazione è che viviamo in una «società algoritmica» e «ipnotica», nella quale il «capitale digitale ha compreso che il vero valore non sta nel controllo dei mezzi di produzione materiali ma nel controllo degli stati di coscienza», ragione per la quale la «ipnocrazia è così la forma perfetta del capitalismo nell’era digitale: un sistema dove potere economico, politico e tecnologico convergono nella capacità di indurre, mantenere e modulare stati alterati di coscienza su scala globale» (p. 15).
All’aspetto della convergenza tra potere economico, politico e tecnologico come elemento qualificante della nostra epoca, ci si può arrivare anche attraverso percorsi più tradizionali, che più facilmente ci consentono di osservarne forse il carattere di innovazione relativa della convergenza della triade. Si potrebbe infatti argomentare che solo nelle fasi che precedono le crisi sistemiche si può avere una separazione o addirittura un’opposizione tra il potere politico e gli altri due. Si pensi al Settecento e alla rivoluzione industriale e agli effetti di sconvolgimento prodotti sul tessuto politico e sociale: interpretabili in senso positivo/progressivo nell’ambito della tradizione di pensiero liberale o, viceversa, in termini dialettici o conflittuali in una lettura marxista o in quella di Karl Polany, per esempio.
Se allunghiamo lo sguardo all’indietro, non per cercare sempre imperfette e spesso fuorvianti analogie storiche ma per capire meglio le dinamiche che ci hanno portato dove siamo e provare quindi a formulare qualche ipotesi di possibili evoluzioni future, possiamo affermare che l’insieme del liberalismo politico ha rappresentato, anche, un tentativo di impedire che la convergenza (presentata tendenzialmente come armonica) tra le diverse dimensioni del potere finisse con il costituirsi in un blocco monolitico, in grado di fotografare e congelare il fotogramma di un dato equilibrio tra i singoli interessi – e i loro detentori – a scapito di una dinamica competitiva all’interno delle diverse dimensioni. Certamente il tentativo non è sempre andato a buon fine e, anzi, possiamo affermare che i fallimenti in tal senso sono spesso coincisi con periodi nei quali le crisi sono esplose in maniera furibonda. In tal senso, il pensiero non può che andare agli anni che hanno preceduto il primo conflitto mondiale:
«I paradossi di quell’epoca derivano dunque dalla complessa interazione di due processi dialettici: da una parte un sistema internazionale aperto contro uno chiuso; dall’altra, il vecchio ordine sociale e uno nuovo. Il tentativo di risolvere il secondo paradosso per mezzo del rafforzamento del potere statale del nuovo nazionalismo ha fatto pendere la bilancia del primo paradosso a favore della frammentazione distruttiva, a scapito dell’internazionalismo aperto»1.
Oggi è impressionante osservare come la scelta trumpiana di anteporre obiettivi di natura economica a quelli di natura esplicitamente politico-ideologica ricordi molto da vicino la fase politica della Belle époque, con una competizione sempre più serrata per il controllo delle materie prime e per l’apertura forzata di mercati di sbocco per le produzioni (spesso eccedentarie) delle merci occidentali. Quello fu un tipico caso in cui la fortissima interdipendenza economica e finanziaria non funzionò come calmieratore delle spinte nazionaliste, ma semmai come acceleratore di quelle imperialiste (in tal senso dando più ragione alle dottrine marxiste che a quelle liberali).
La spiegazione del cortocircuito tra élite che erano tutte comunque di estrazione borghese o aristocratica, così elegantemente sintetizzata nel passaggio di Clark citato poc’anzi, si riassume nel fatto che di fronte all’irruzione delle masse nella politica la scelta di ricorrere in maniera sempre più convinta alla mobilitazione nazionalista collideva con il tentativo di mantenere aperti i mercati, così, secondo la teoria liberale, depotenziando i possibili conflitti tra Stati sovrani. Si potrebbe dire che i liberali sbagliassero nel sovrastimare la forza pacificatrice del mercato e nel sottostimare l’autonomia della politica. Ma forse si potrebbe aggiungere che mentre i critici marxisti coglievano meglio le dinamiche oligopolistiche assunte dal capitalismo in quella fase e la fallacia della speranza che l’imperialismo potesse offrire una via di uscita, i liberali ritenevano, sbagliando, che la teoria del mercato fosse in grado di prevalere, imbrigliandoli, sui singoli comportamenti egoistici degli attori.
In fondo, lo sviluppo della fittissima rete istituzionale del secondo dopoguerra, quella che ha caratterizzato l’edificazione dell’Ordine internazionale liberale (Oil), si poneva proprio lo scopo di regolare i rapporti tra sistema internazionale e mercato da un lato e Stati sovrani e attori economico-finanziari dall’altro, costruendo un sistema di regolazione fluido, capace di connettere e attraversare il dominio internazionale e quello domestico, così da creare una società internazionale aperta, multilaterale e abitata da una pluralità di soggetti di natura diversa a specchio e rinforzo delle società domestiche delle democrazie di mercato liberali. Anche qui operava, seppure non definito così, quella natura «ricorsiva» cui allude Xun, transconfinaria in questo caso, che però, almeno fino all’inizio della sua parziale decostruzione a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, concorreva a rinforzare tanto la natura liberale della dimensione internazionale quanto quella democratica dei sistemi politici occidentali (il nocciolo duro dell’Oil). La coerenza (per quanto imperfetta) tra queste due dimensioni consentiva la strutturazione del triangolo liberale costituito dalla preferenza per la democrazia liberale rappresentativa, per il libero mercato concorrenziale e internazionalizzato, per la società aperta.
L’approccio di Janwei Xun mi pare metta giustamente al centro gli attori piuttosto che il sistema, ovvero privilegi la ricorrente tendenza all’oligopolio che deriva dai comportamenti individuali e dal costante tentativo degli interessi più forti di catturare il regolatore – che si tratti di un’autorità propriamente politica o formalmente indipendente, domestica o inter/sovra nazionale poco importa – così come dallo scopo di svincolarsi dai limiti che le istituzioni, dovunque collocate, cercano loro di porre.
Il tema del superamento dei limiti e dello scioglimento da qualunque vincolo è sotteso tanto alla continua svalutazione del ruolo e del senso delle istituzioni quanto alla riforma del mercato attraverso la piena legittimazione delle sue derive oligopolistiche e monopolistiche. La valorizzazione del potere, inteso come asset che implica la minaccia e l’uso della forza per superare persino i limiti temporali del suo esercizio e per deformare il mercato e il contratto (e quindi la società e le regole) in una sua caricatura mafiosa fatta di estorsione e minacce, descrive una parabola in cui l’area dell’obbligazione politica e quella del contratto scambio si fondono e si sovrappongono, con esiti decisamente pericolosi tanto per la libertà politica quanto per quella economica. La crescente diffusione degli ambiti del potere – da quello strettamente politico-istituzionale a quello economico-finanziario a quello tecnologico – non coincide per nulla con una sua diluizione o con una sua maggior contendibilità, ma semmai consente la penetrazione di chi lo detiene in tutti i domini con l’accaparramento di tutte le risorse dai quali e con le quali potrebbe generarsi una forma di resistenza o anche semplicemente di alterità. Ed è precisamente qui, per concludere queste mie succinte riflessioni, che nuovamente appaiono illuminanti le considerazioni di Janwei, perché ci descrivono le modalità rivoluzionarie con le quali si perseguono tentazioni ricorrenti, dove evidentemente è la novità delle prime che rischia di esporci alla mercé delle seconde, privi dei consueti – rodati ma poco utili, forse inservibili – strumenti istituzionali che il liberalismo politico aveva messo a punto soprattutto nel corso del Novecento: «Ciò che distingue l’attuale regime ipnocratico dai suoi predecessori storici è soprattutto la sua pervasività e permanenza (…) l’Ipnocrazia digitale funziona ventiquattr’ore su ventiquattro, sette giorni su sette, penetrando ogni aspetto della vita quotidiana. Non ci sono più spazi o tempi fuori dalla manipolazione: la trance è lo stato normale dell’esistenza. La pervasività temporale si traduce in pervasività spaziale (…) Il potere non risiede più in un luogo specifico, in un palazzo o in un’istituzione: è ovunque e in nessun luogo allo stesso tempo, come una nebbia che avvolge silenziosamente ogni aspetto dell’esistenza» (pp. 42-43).
NOTE
- Clark, Ian (1997) ,Globalization and Fragmentation. International Relations in the Twentieth Century, Oxford, Oxford University Press; trad. it. Globalizzazione e frammentazione. Le relazioni internazionali nel XX secolo, Bologna, Il Mulino, 2001, p. 93.