“Un nuovo sceriffo è in città”. A James David Vance non fa difetto la chiarezza, anche nelle forme più ruvide e immediate. Il discorso che il vicepresidente degli Usa ha tenuto il 14 febbraio scorso alla Conferenza sulla sicurezza a Monaco di Baviera ha avuto l’indubbio merito di rappresentare senza artifici diplomatici il pensiero dell’amministrazione americana sulle faccende del mondo. Il nuovo sceriffo è Donald Trump, già calatosi del ruolo inaugurando una pratica di autoritarismo le cui conseguenze – sul piano interno ma anche e forse soprattutto su quello estero – sono ancora tutte da valutare. Intanto, giusto per sgomberare il campo da ogni equivoco, detta ordini, ridefinisce confini, minaccia sanzioni, distribuisce avvertimenti, individua alleati e proclama nemici, disegna scenari di equilibri inediti con una foga immobiliare, da imperatore che sente di poter giocare il suo Monopoli a scala planetaria. Da uomo consapevole di avere pieni e assoluti poteri può dire e smentire, affermare e negare, utilizzare il linguaggio nella sua dimensione provocatoria e scompaginante e delineare il profilo di uno statista che non risponde più ai canoni istituzionali e culturali finora conosciuti. Si muove esattamente come uno sceriffo che dichiara di dover rispondere esclusivamente a chi lo ha voluto e votato per rimettere ordine nella contea e da qui nel mondo, refrattario all’ingombrante e fastidioso catalogo di norme e leggi, di principii e valori, di valutazioni critiche e intermediazioni garantiste.
Se questo è, il “tecnoautoritarismo” – la definizione è del “New York Times” – proclamato da Donald Trump appare come l’approdo finale del neoliberismo, l’esito di un processo lungo e complesso che ha scavato nel profondo erodendo certezze, evidenziando fragilità e incontrando vuoti all’interno del sistema su cui si riteneva dovesse reggere il mondo uscito prima dalla Secondo conflitto mondiale e poi dal crollo del Muro di Berlino. Una ideologia che ha ridotto l’essere umano a homo economicus, che propaganda la fede nell’accumulazione dei beni, che assimila il potere alla ricchezza, che impone il dogma dell’autoimprenditorialità, che diffonde la filosofia del successo nelle varianti dell’estremismo cinico e spregiudicato, che demanda alla competizione nella giungla del mercato ogni criterio di selezione, affermazione e crescita. L’uomo che torna a essere lupo per l’altro uomo, azzerando secoli di teoresi politica e di filosofia della storia.
Il neoliberismo è diventato così il credo unico di questi tempi. L’aggiornamento del suo paradigma, che nell’allestimento reaganiano – e thatcheriano – sembrava avere un’articolazione legata a una dimensione analogica, novecentesca della Storia, oggi, invece, si è riversato nell’agone digitale, sancendo alleanze nel concerto popolato da Elon Musk, Peter Thiel, David Sacks, Mark Zuckerberg, Marc Andreessen o Eric Schmidt, tra gli anarcoidi visionari che hanno riorganizzato le forme del capitalismo globale ripassandole nel laboratorio simbolico della Silicon Valley. Qui una volta poteva avere un senso – addirittura pedagogico e sicuramente è stato avvolto dall’aura della fascinazione, magari con affrettata disinvoltura – il “Siate affamati, siate folli” di Steve Jobs pronunciato nella lezione-saluto all’Università di Stanford il 12 giugno 2005. Salvo accorgersi che il pensiero pressocché unico della tecnologia sregolata e dell’algoritmo governante ritiene acronistico il parlamentarismo, dannosa la democrazia, inutile la burocrazia, insopportabile l’apporto pubblico nei servizi, indispensabile la presenza dominante del privato, osceni gli intellettuali, una bestemmia il socialismo.
Sono argomenti e temi che non soltanto appartengono al passato da archiviare ma vengono denunciati come la causa dell’indebolimento degli Stati Uniti e dell’intero Occidente, robaccia woke, paccottiglia politically correct che l’onda del free spreech rivendicato da Vance a Monaco, mosso dal ghigno trumpiano del Make American Great Again, spazzerà inesorabilmente via. Di fronte, davanti, a un passo, Donald Trump indica la meta dell’età dell’oro. In fondo, è questo l’annuncio messianico del tycoon taumaturgo.
C’è un’immagine che racconta tutto ciò e ne restituisce con tonalità eloquente l’atmosfera. Si tratta di una fotografia scattata il 10 febbraio nella Sala ovale della Casa Bianca che vede il presidente seduto al tavolo delle decisioni in una sorta di raccoglimento spirituale, attorniato da una trentina di pastori e telepredicatori in adorazione estatica. Nella didascalia pubblicata su X si legge: “Come dice la Bibbia: ‘Beati gli operatori di pace’. E a tal fine, spero che la mia più grande eredità, quando tutto sarà finito, sarà conosciuta come un pacificatore e unificatore”.
Il richiamo, goffo e irriverente, è a “L’Ultima cena”, il dipinto che Leonardo da Vinci realizzò tra il 1495 e il 1498. Una parodia, una scenetta da filmaccio che però ribalta il tratto comico in un contrario puramente drammatico. La cifra tragica sta nella serietà robusta che sottende la messa in scena e che restituisce un elemento di decisiva importanza nei meccanismi dell’autorappresentazione del Potere. Conferisce una cornice sacrale alla figura di Trump, la colloca nello spazio mistico dei profeti della Provvidenza, ne legittima il verbo come la voce di una missione trascendente da compiere. Un nuovo sceriffo in città e per giunta con incarico divino e tanto di accompagnamento da parte della piattaforma di Elon Musk: X è sua e dunque a lui si deve l’appellativo di Trump beatificato costruttore di pace.
“Dei, semidei, eroi e mostri. Il mito è tornato”, scriveva qualche giorno dopo – il 16 febbraio su “la Repubblica” – Antonio Scurati. Annuncio o avvertimento che sia, l’autore di M aggiunge che “dopo decenni di meschino discorso politico scaduto al sottorango burocratico, assistiamo a un clamoroso ritorno del mito in politica. Come già negli anni ’20 del secolo scorso, i nuovi leader abbandonano la razionalità analitica e argomentativa per narrazioni sacrali sulle origini e sul futuro del mondo, Intronativi in una dimensione della parola nella quale la distinzione tra il vero e il falso non è più pertinente, Trump e Musk e i loro alleati europei raccontano miti storici sulla provenienza e sulla destinazione dei popoli, favole semireligiose che pretendono di essere credute come articoli di fede e osano risposte alle grandi domande che gli umani si pongono riguardo al loro posto nel cosmo e nel tempo”.
L’irrealismo reale della fotografia nella Sala ovale è una testimonianza documentale del progetto di creazione del mito trumpiano. Che si combina con l’idea ossessiva di Elon Musk di diventare il primo colonizzatore di Marte, di conquistare la nuova frontiera post-umana, di sconvolgere le coordinate dello spazio e del tempo, di essere il semidio della leggenda del futurismo 2.0. Scurati nota che dalle parti della Silicon Valley queste elucubrazioni sono declinate nel longtermismo, un incrocio tra la determinazione che assicuri il prolungamento del potenziale umano e la diffusione del tecnocapitalismo: la Terra sta implodendo, inutile approntare ipotesi di salvifica transizione ecologica, di green economy o roba simile, meglio prepararsi al trasferimento su altri pianeti. Chi può, lo faccia in fretta. Punto.
Il cappellino Maga di Donald Trump, i saluti romani di Elon Musk e dell’ideologo Steve Bannon, l’adozione della motosega del presidente argentino Javier Milei e le citazioni dell’estetica neo-nazista che l’Europa fornisce a ritmo pieno, tutti sono segni religiosi di una fede laica che cerca di allargare la sua egemonia. Dagli Stati uniti al mondo. Cinque anni fa, Marco D’Eramo pubblicava da Feltrinelli un saggio denso e prezioso, “Dominio. La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi. “Nel capitoletto conclusivo, “Post scriptum”, affrontava proprio la questione dei supporti filosofici e teologici a quello che definiva – con il titolo di un celebre frammento di Walter Benjamin – “Capitalismo come religione”.
Benjamin – era il 1921 – sosteneva che “nel capitalismo va scorta una religione, vale a dire il capitalismo serve essenzialmente ad appagare le stesse ansie, pene, inquietudini alle quali un tempo davano risposte le cosiddette religioni”. D’Eramo, per verificarne le ricadute storiche nella storia americana, mette in fila gli esempi di Cyrus Ingerson Scofield, gaglioffo e truffatore durante la guerra di secessione, imprigionato nel 1879 a St.Louis che dichiara di essersi convertito in galera, rinasce – was born again: c’è sempre un again che ricorre in certi frangenti – e si accredita come uno dei padri del moderno fondamentalismo statunitense, animatore di autentiche crociate contro anarchici, comunisti e socialisti impugnando la Bibbia da lui commentata; di Russell Herman Conwell, pastore battista creatore e primo rettore della Temple University di Philadelphia dove nel 1869 inaugurò la predizione di “Acres of diamonds”, replicata in 6152 occasioni, sempre urlando “Dico che tu dovresti diventare ricco e che è tuo dovere diventare ricco”; di Billy Graham, padre del moderno integralismo conservatore che alla fine degli anni Quaranta già gli States sostenuto dai giornali del magnate Randolph Hearst, protagonista della Guerra fredda e confidente del presidente Richard Nixon; dei fanatici antisemiti, razzisti e anticomunisti della “John Birch Society” dalle cui file negli anni Settanta vennero molti leader della rivoluzione cristiana conservatrice che conquistò il potere con Ronald Reagan; dei più recenti Pat Robertson, Jerry Falwell, Jerry Vines, Franklin Graham.
Può bastare. Per D’Eramo hanno costruito “un collante sociale extraeconomico” all’amoralità e asocialità del mercato e del capitale diffondendo – o commerciando – in assoluti. Trump e Musk hanno capito che possono addirittura farne a meno, o comunque sostituirsi a loro e farne loro gregari di supporto, imporsi da predicatori di se stessi. Hanno mezzi strumenti. Lo sceriffo e l’inventore, miti di oggi in un mondo sbandato.