UNA MEDITAZIONE SULLA VERITÀ COME BENE POLITICO
La riflessione che intendo sviluppare in queste brevi note muove dalla considerazione dello stato di salute politica dell’homo democraticus postmoderno. Non serve uno sguardo particolarmente perspicace per accorgersi di come esso sia pessimo; la patologia di cui l’uomo democratico contemporaneo soffre è una sindrome tanto pluristratificata quanto inquietante: tra i suoi epifenomeni spiccano, per importanza, un narcisismo patologico che – presupponendo la fine di ogni distanza critica nei confronti dell’oggettività dell’esistente – si scarica sulla società nei termini di una diserzione pressoché totale dall’impegno per il bene comune; un invincibile individualismo, determinato dall’entropizzazione del primato del benessere, e un’aridità emotiva del tutto inedita, causata dalla torsione atomistica delle passioni acquisitive, in grado di relegare gli individui all’apatia e all’indifferenza reciproca.
Subissato dalle distrazioni, investito dalla futilità e coartato, suo malgrado, entro i limiti del puramente materiale, l’homo democraticus contemporaneo – come le società a cui appartiene – si sta liquefacendo1: eccolo vagare nel nulla di un tempo che scorre senza tendere ad alcunché, incapace di provare autentiche emozioni perché portato a confondere la sua libertà con la liberazione dei piaceri e degli istinti. Apparenza, bramosia di ricchezza e degenerazione culturale sono le coordinate entro cui egli pare obbligato a muoversi, sottomesso ad un Weltgeist omologante la cui cifra più tipica risiede soprattutto nell’aver abilmente mistificato i valori di riferimento atti a permettere di vivere un’esistenza realmente degna di essere vissuta.
Mettere a fuoco la scaturigine di tale stato di cose risulta difficilissimo; è tuttavia plausibile ritenere che l’eziologia della malattia politica da cui il soggetto postmoderno è affetto si leghi – oltre che ad altri numerosissimi problemi – al rapporto conflittuale che quest’ultimo intrattiene con la dimensione della verità; un rapporto che (nostro malgrado) oggi intride le democrazie occidentali tanto da far credere a molti che verità e democrazia siano, per statuto, due polarità incompatibili2. Si tratta di una convinzione che viene da lontano: essa non è il portato del diffondersi dei mezzi di comunicazione di massa, né il risultato della pervasività di internet e dell’ipercomunicazione che segna le società avanzate, quanto piuttosto l’esito nefasto di una cultura fenomenista che, prendendo corpo nella tarda Modernità come espressione gnoseologica, s’è gradualmente trasformata in prospettiva socio/politica, al punto di rendere le nostre democrazie delle cripto-dittature o, come dicono alcuni utilizzando un efficace neologismo, delle democrature.
Sulle prime il termine può sembrare eccessivamente forte, soprattutto se lo si lega alle cosiddette democrazie occidentali: non lo è, in realtà, se si pensa a come, pure in esse, la verità sia sistematicamente mistificata (dalla classe dirigente di turno, dai mass media, dai social media, dagli interessi lobbistici di parte, dai bias cognitivi di cui sono intrise le voci di popolo) e il posto che di diritto spetta al discorso vero – al discorso, cioè, che dice le cose come stanno (ta onta legei os estin), secondo la bella espressione di Platone3 – sia assegnato al verosimile o, peggio, al falso.
«Nel mainstream della filosofia politica contemporanea – scrive Franca D’Agostini – l’idea dell’intrinseca natura antialetica della politica non sembra aver subito significativi cambiamenti dall’epoca di Machiavelli. La stessa Hannah Arendt, pur insistendo sull’importanza pubblica delle verità di fatto, colloca la politica nella sfera della menzogna necessaria. Una vasta letteratura (esemplarmente rappresentata dall’antiplatonismo di Nietzsche) ci ricorda che il binomio felicità-verità è inconcepibile, essendo la prima fondata sul tradimento o l’elusione della seconda, ed essendo la seconda per lo più orientata a distruggere la prima. Infine, la saggistica giuridica e politico-filosofica ha spesso sottolineato la tensione – o l’incompatibilità – tra l’esigenza di verità e le esigenze di pace, amicizia, benevolenza, perdono e, anche, libertà. In pratica, c’è qualche ragione di sostenere che forse, più che di un diritto alla verità, gli esseri umani e le collettività hanno bisogno (per il loro benessere e felicità) di un diritto alla menzogna: a essere piacevolmente ingannati, a non sapere e a non rivelare, a servirsi di falsità o mezze verità per ingannare o fuorviare gli altri (se mai con motivazioni e intenzioni del tutto benevole)»4.
Personalmente sono convinto che, se si giungesse ad approcciare la relazione tra democrazia e verità in modo diverso da come è tendenzialmente concepita, problemi come il calo sempre più vistoso della partecipazione dei cittadini alla vita politica, l’affluenza sempre minore dei medesimi alle urne, l’incremento del ricorso a forme maldestre di democrazia diretta che invece che migliorare la situazione la peggiorano, la crescita esponenziale del consenso delle masse verso estremismi e movimenti populisti che fanno leva sulla forza del numero piuttosto che su quella delle regole, la sfiducia generalizzata della gente per le istituzioni rappresentative (inversamente proporzionale, peraltro, alla leaderizzazione di una politica appiattita sulla media logic e sulla sua rapida superficialità) sarebbero, se non risolti, almeno fortemente attenuati. Trovo che abbia ragione chi – come la stessa D’Agostini – si riferisca alla verità come ad un bene politico ossia ad un valore da tutelare, soprattutto in un’epoca come quella che stiamo attraversando in cui tale dimensione sta subendo una preoccupante erosione, in forme sia evidenti e aggressive che nascoste e subdole. Scrive la studiosa e docente di Logic and critical thinking presso l’Università degli Studi di Milano:
«Non è difficile interpretare l’attuale malessere sociale in termini di disagio aletico: credenze vere che vengono silenziate, credenze non vere o false che guadagnano improprio vantaggio pubblico, elusioni strategiche della realtà dei fatti che provocano la “vendetta” dei fatti stessi; più drammaticamente: l’incardinarsi della menzogna in organizzazione, istituzione, canone o sistema. Si può dunque riconoscere senza difficoltà che la distorsione delle credenze (più o meno prodotta strategicamente, e/o sistematicamente) determini un danno politico oggettivo»5.
Il richiamo che viene prendendo potentemente corpo nello stralcio appena letto è importante: esso ci mette in guardia, più che dai contenuti veicolati dai tanti post-veritisti che pullulano nell’attuale agone sociale, dalla cornice completamente an-aletica nella quale questo stesso agone tende a leggersi; ci esorta pure a non smarrire il senso profondo della distinzione vero/falso e quello della saldezza del legame tra pensiero, linguaggio e mondo, perso il quale le condizioni minime di effettività della democrazia vengono irrimediabilmente compromesse. La verità, d’altro canto, è l’orizzonte naturale nel quale l’autentica liberaldemocrazia risulta chiamata a costituirsi e prosperare ed è questo fattore a renderla un’opzione politica migliore di tante altre: essa non le supera perché tesa a conferire precedenza automatica alle convinzioni o alle credenze vere, quanto piuttosto perché ritiene sia vero – politicamente e fattualmente – che senza apertura aletica non possano darsi le condizioni sufficienti né quelle necessarie per una convivenza civile basata sulla libertà e l’autodeterminazione della persona.
NOTE
¹ Cfr. L. Di Gregorio, Demopatia. Sintomi, diagnosi e terapie del malessere democratico, Rubbettino, Soveria Mannelli 2019, p. 27.
² Cfr. H. Kelsen, La democrazia, Il Mulino, Bologna 1966, p. 139.
³ Cfr. Platone, Cratilo, 385b, in Idem, Tutte le opere, Newton & Compton, Roma 2009, p. 231
⁴ F. D’Agostini, Diritti aletici, in Biblioteca della libertà, LII, 2017 gennaio-aprile, n. 218, ISSN 2035-5866 – DOI 10.23827/BDL_2017_1_2, Nuova serie [www.centroeinaudi.it], p. 11.
⁵Ibi, p. 10.