«…Nella visione del mondo dei Tong-va (o gabrielinos), la popolazione aborigena della regione di Los Angeles, i serpenti e i puma, sono considerati “messaggeri” (tsatsnitsam) speciali del dio messianico Chengiichngech. Come gli aborigeni australiani, i Tong–va sono convinti che numerosi mondi o realtà paralleli si annidino l’uno dentro l’altro e gli tsatsnistsam fornirebbero il collegamento tra i vari livelli. Nei periodi di crisi ecologica o di disordine, queste creature sono araldi di sciagura e, quando necessario, i vendicatori degli affronti alla natura».
Nella California in cui le reti neurali dell’intelligenza artificiale hanno sostituito le vie dei canti e i presagi viaggiano dentro cavi digitali, la wildness sembra voler riconquistare il suo spazio con il fuoco, bruciando una topografia la cui essenza si nutre del nostro immaginario.
Mike Davis in Ecology of fear del 1998 – tradotto in italiano in un’introvabile edizione per Feltrinelli con il titolo Geografie della paura – ricordando che la contea di Los Angeles rappresenta un “ecotono”, ovvero “un sistema complesso di interazioni biologiche cangianti”, racconta una storia ricorrente di disastri legati agli incendi, dovuta proprio alla convivenza di selvaggio e urbano in una difficile transizione fra vegetazione ed insediamenti umani, complici i fortissimi venti di Santa Ana incanalati nei canyon delle Santa Monica Mountains. Sono tuttavia le evidenze scientifiche riportate da giornalisti ambientali come Ferdinando Cotugno o Ian James del L.A. Times, a confermare l’unicità di quello che sta succedendo dal 7 gennaio 2025, una “tempesta perfetta pirolitica” come la definisce Cotugno, un “fire weather”, in cui la commistione di vento, siccità e temperature è stata così amplificata dal global warming, ormai climaticamente fattore dominante degli Stati Uniti Occidentali, rendendo gli incendi così estesi e distruttivi da creare, come scrive Matteo Meschiari , “un nuovo spazio immaginifico dove surriscaldamento globale e collasso ecosistemico generano eventi atmosferici mai visti”.
Los Angeles del resto nasce – rammenta Davis – su una romanticizzazione del massacro, dell’estinzione, del saccheggio e il mito turneriano della frontiera non è altro che l’idealizzazione di un incontrollato estrattivismo, della predazione irrefrenabile dell’ecosistema, di una colonizzazione guidata da un capitalismo accumulatorio di stampo razzista, da cui ancora oggi è caratterizzata la metropoli, con la sua divisone in zone socialmente connotate e un’urbanizzazione e suburbanizzazione incontrollate, a sottolineare le costanti sperequazioni fra classi ed etnie.
Scrive Vandana Shiva: «Fu nei campi minerari dell’Occidente americano che il concetto americano da Far West di proprietà privata e la regola dell’appropriazione –qui prior est in tempore potior est in iure: chi è primo nel tempo è primo per diritto- emersero per la prima volta. La dottrina dell’ appropriazione per priorità stabiliva i diritti assoluti alla proprietà».
«ELEFANTI BIANCHI: il dio di Hollywood esigeva elefanti bianchi e gli furono dati – otto mastodonti di gesso, appollaiati su piedistalli a mega fungo, che sovrastavano l’immensa corte di Belshazaar, la babilonia di cartapesta costruita ai margini della vecchia pista polverosa chiamata Sunset Boulevard.
Griffith, il regista, nei panni di Dio, dominava dall’alto – un’altezza che non avrebbe mai più raggiunta – la Città dell’Illusione, sfrecciando in ascensore su per una torre di trenta metri, verso la macchina da presa, con un gigantesco megafono pronto per urlare alle moltitudini ai suoi piedi: “Ciak! Motore”, e dar vita a tutto quanto».
Il gigantismo demiurgico del set di Intolerance, evocato da Kenneth Anger in Hollywood Babilonia, restituisce un approccio non molto differente: «L’ovest si fonda storicamente in senso ideologico su presupposti di carattere espansionistico e colonialistico. Si tratta del resto, dei presupposti stessi che presiedono alla nascita dell’America come colonia europea prima ancora che come nazione. Gli Stati Uniti hanno cioè trovato nell’ovest la figura ideologica del loro “destino storico”, una progressione orizzontale che è la cifra di una concreta marcia ideale della nazione», sottolinea Franco La Polla in Sogno e realtà americana nel cinema di Hollywood. Lo stesso nome “Hollywood”, bosco di agrifoglio, si deve alla bizzarra fantasia della moglie di uno speculatore immobiliare che vendette a lotti la terra di un piccolo villaggio di un centinaio di persone, coltivato a frutteti di arance ed avocado, a un gruppo di produttori, quasi tutti nati nell’Europa orientale, che arrivava dall’East Coast in cerca di un clima più generoso e di terre acquistabili a prezzi abbordabili.
Nacquero così gli studios e i creatori dello star system e di quel territorio sospeso che alimenta la nostra moderna mitologia.
Quella polverosa strada, ora devastata dalla distruttiva damnatio del fuoco che non sembra tralasciare nessuno spazio di questa cartografia sentimentale, ne divenne poi l’emblema,Sunset Boulevard. E non è forse Norma Desmond, protagonista dell’omonimo capolavoro di meta-cinema diretto da uno dei più iconici registi della diaspora europea -con i suoi retaggi espressionistici- Billy Wilder, un simbolo del nostro ostinato negazionismo di fronte all’irreversibilità della crisi in atto? Il film, costruito come una sorta di mise en abîme onirica, corrosiva, oscura e decadente fino alla necrofilia chiude quella che Renato Venturelli ,ripartendone la diacronia, definisce stagione dell’incubo del noir.
Ma i legami non finiscono qui. Mike Davis, in un continuo scambio fra dati oggettivi e narrazioni, individua fra le coordinate di quella che definisce “geografia del disastro” di Los Angeles, una vena che da Raymond Chandler arriva al James Ellroy di Black Dhalia e L.A. Confidential (Chandler approdò a Los Angeles proprio negli anni in cui Cecil B. De Mille girava il primo lungometraggio hollywoodiano, un western intriso di stereotipi colonialisti sull’Ovest da conquistare, The Squaw man),di cui è paradigmatica la storia di quelle che vengono ricordate come guerre dell’acqua.
«Per i coloni europei giunti in America – sottolinea ancora Vandana Shiva – la colonizzazione dei fiumi fu un’ossessione culturale e un imperativo imperialistico. I fiumi, ma anche la natura in generale, erano valutati per la loro resa commerciale e considerati come qualcosa da domare». Il reportage sulla siccità della California per Internazionale della fotografa Daria Addabbo documenta, insieme al libro Acque d’America, come sin dal 1860 alcuni coloni, attirati dalle risorse minerarie e con il sostegno dell’esercito, avessero fatto violente incursioni nei territori degli indigeni paiute e shoshone fino a compiere un autentico eccidio,la notte del 19 marzo 1863, per impadronirsi dei territori attorno al lago di Owens, dove le tribù avevano creato un autentico reticolo di canali d’irrigazione. Alla fine dell’Ottocento, infatti, la nascente Los Angeles stava già esaurendo le risorse idriche locali e nel 1907 furono emesse obbligazioni per finanziare un acquedotto in cui sarebbero defluite le acque che scendevano dal lato orientale della Sierra Madre. Il sindaco Fred Eaton e l’ingegnere di origine irlandese William Mulholland, con l’approvazione del presidente Roosvelt, anche per mezzo di una serie di stratagemmi e sotterfugi, convogliarono in un imponente acquedotto le acque del bacino di Owens le cui fiorenti terre si inaridirono fino alla totale desertificazione, esasperando a tal punto i residenti della valle da far loro organizzare un attentato dinamitardo a parte dell’acquedotto, dando così inizio alle cosiddette “guerre dell’acqua”. Seguirono altre dodici esplosioni, fino a che a presidiare l’acquedotto vennero messe guardie armate con l’ordine di uccidere. Nel 1926, Mulholland progettò anche l’enorme diga di Saint Francis che però cedette rovinosamente causando più di quattrocento vittime. Nel frattempo si era ingenerato un sistema, una commistione di interessi, in cui i progetti idrici, indispensabili per alimentare la corsa all’oro e il veloce e quasi incontrollato ampliarsi della città di Los Angeles, gli enti pubblici sostentavano i costruttori privati nei progetti idrici. Cominciò l’epoca delle grandi dighe, inaugurata dalla Hoover Dam sul fiume Colorado, in un’ambigua consociazione di governo e grandi aziende per il controllo dell’acqua.
Scrive David Thomson in La formula perfetta, ricostruendo l’ossessione che guidò la nascita della sceneggiatura di Chinatown da parte di Robert Towne: «…nell’aprile del 1971 sua moglie gli portò una copia del saggio di Carey McWilliam, Southern California Country, in cui si accennava alla storia di William Mulholland che aveva assicurato l’approvvigionamento idrico necessario all’espansione di Los Angeles convogliando l’acqua della Owens Walley, 250 miglia più a nord. Nello stesso periodo, Towne trovò in una rivista un articolo corredato di immagini che rievocavano l’atmosfera fine anni Trenta dei romanzi di Raymond Chandler». Una vicenda incentrata, ebbe modo di riassumere al produttore della Paramount Robert Evans, «sulla trasformazione di Los Angeles in metropoli: una storia di incesto e falde idriche, ambientata negli anni Trenta, pervasa della nostalgia per una città perduta». Se Towne aveva pensato ad un finale molto diverso, in realtà il successo del film si deve anche a quello straziante, infinito suono di clacson provocato dal corpo senza vita di Faye Dunaway che si accascia sul volante, la misteriosa dark lady Evelyn che il detective privato Jake Gittes (un nonchalant Jack Nicholson) non riesce a liberare dal vortice torbido di corruzione e potere che alimenta tutta la narrazione, finale imposto dal regista, Roman Polanski, reduce dal massacro di Cielo Drive e da un’infanzia in fuga dai lager, in cui erano internati entrambi i genitori, nella Polonia occupata dai nazisti.
Al regista John Huston, che con il Mistero del Falco aveva inaugurato il noir di derivazione hard-boiled, trasponendo in pellicola il Sam Spade di Dashiell Hammett ed affidandolo alla maschera enigmatica e distaccata di Humphrey Bogart (che poi nel 1946 impersonificherà anche il primo Marlowe cinematografico nel morboso e seduttivo Il grande sonno di Howard Haks), venne affidato il ruolo di Noah Cross, “incarnazione dell’impulso selvaggio all’affermazione personale”, chiaramente ispirato a quel Mulholland delle acque deviate, cui qualche anno dopo verrà intitolata la Mulholland Drive.
Mulholland Drive: «A pensarci, ogni strada rappresenta un viaggio verso l’ignoto e questo mi attira molto. Per i film è la stessa cosa: le luci si spengono, il sipario si apre e si parte, ma non si sa dove si sta andando». Così nella sua autobiografia Io vedo me stesso. La mia arte, il cinema, la vita, David Lynch sintetizzava il suo rapporto pieno di misteriosa attesa con la road. Mulholland Drive non è soltanto un neo-noir postmoderno, ma una summa del suo cinema, saturo di richiami all’inconscio, echi e rimandi. Un film surreale, onirico, visionario, a tratti psichedelico, intriso di oscurità e mistero, in una parola freudianamente perturbante. «Mulholland Drive – ricorda Daniele Dottorini – si colloca a conclusione di un’ideale trilogia della strada, della connessione, forma ulteriore di una poetica dello spazio che da sempre accompagna – come interrogazione e sperimentazione – la possibilità stessa del cinema secondo Lynch. Dopo la strada come detour infinito in Strade perdute, la strada come interrogazione dello sguardo in Una storia vera, la terza possibilità dell’errare filmico si concretizza in Mulholland Drive sotto forma dell’immaginazione come macchina creatrice di immagini».
La morte di David Lynch coincide con il culmine degli incendi di Los Angeles, si è perfino scritto che i roghi abbiano aggravato la sua malattia (paradossalmente proprio quel fuoco, quasi rêverie bachelardiana, così presente nella sua poetica) e questa sembra un’ulteriore conferma della pervasività del cambiamento climatico, ormai insinuatosi anche nel nostro immaginario.
Le visioni distopiche assumono così una nuova concretezza e percorrendo il tortuoso sentiero noir della geografia del disastro individuato da Mike Davis, Los Angeles diventa la scenografia visionaria in cui si muove il cacciatore di replicanti Rick Deckard in Blade Runner di Ridley Scott. In una realtà che non sa distinguere più l’organico dall’artificiale, un artificiale dallo statuto ambiguo ai margini della coscienza che nulla spartisce con l’ottimistica singolarità transumanista, all’interno di un melting pot da bazar postumano, sotto un’ incessante pioggia acida, portata dall’ormai irrecuperabile crisi climatica in atto, che sembra diluire anche la memoria e le identità, Deckard mantiene tutte le caratteristiche del detective chandleriano «una figura intermedia – secondo Venturelli – non schierata né dalla parte dell’ordine né da quella del disordine, quasi sempre alle prese con vicende labirintiche in cui non conta più la capacità di controllo razionale della realtà, ma è necessario aggirarsi nei meandri di un universo noir soffocato da corruzione, menzogna, debolezza. É lo sguardo problematico per eccellenza, davvero il private eye».
In realtà più che all’allucinato e claustrofobico universo di Philip Dick, Blade Runner richiama l’atmosfera del futuro immaginato da Fritz Lang nei cupi anni della Repubblica di Weimar in Metropolis, con la sua ripartizione verticistica fra la futuribile città del potere tutta grattacieli e ponti sospesi e il sottosuolo della forza-lavoro, con il suo gigantismo architettonico meticciato di futurismo, bauhaus ed art déco, ispirato anche ai progetti avanguardistici degli architetti futuristi americani Huggies Ferriss, Raymond Hood, Francisco Mujica e con il suo robot, animato da onde tesliane, Maria, sospesa fra l’Olimpia di Hoffmann e i cyborg dell’estetica post-punk. Estetica che in Blade Runner il concept artist Syd Mead ha esaltato saturandola in un cromatismo al neon che ha fra i suoi referenti anche il fumetto e i disegni di Moebius. E la sintesi sembra realizzarsi nel grattacielo della Tyrell Corporation, in realtà il vittoriano Bradbury Building, l’edificio più antico di Los Angeles, commissionato negli ultimi decenni dell’Ottocento dal magnate minerario Lewis Bradbury, per la cui costruzione, una facciata piuttosto modesta, “otto piani di di architettura insipida e anonima” scriveva Chandler, a contrastare con un trionfo avveniristico di materiali all’interno (ghisa, cupole di vetro, marmo italiano e legno intagliato), l’architetto George Wyman sembra si fosse ispirato al romanzo utopico Guardando indietro di Edward Bellamy.
Lì in un’angosciante solitudine, attorniato soltanto dai giocattoli da lui progettati, vive J.F. Sebastian, il designer genetico ideatore di replicanti, affetto dalla sindrome di Matusalemme, un invecchiamento precoce, una “decrepitezza accelerata” che lo avvicina alle sue creature, cui offre un’ospitalità fatale in cui si consuma la rivolta del figlio verso il padre-creatore, un Crono privo di tempo, culminante in un edipico accecamento.
Scrive Antonio Caronia in Dal cyborg al postumano: «…Philip K. Dick è assillato dalla ricerca di un criterio di demarcazione fra l’umano e la sua imitazione artificiale. Come in Asimov, anche in Dick questo criterio si dimostra sempre più sfuggente, ai limiti dell’evanescenza. Come ricorderà non solo chi ha letto il romanzo Il cacciatore di androidi, ma anche chi ha visto il film Blade Runner, il test con la scala Voight/Kampff fallisce nel caso di Rachel Rosen: gli androidi si possono distinguere dagli umani con la volontà, non con la ragione, in un gesto tragico e in qualche modo arbitrario, come l’uccisione. Gli androidi (“replicanti” li ha ribattezzati Scott con una invenzione linguistica che ha subito avuto successo) rappresentano per Dick la metafora di tutto quello che minaccia il lato autenticamente umano dell’uomo. Tutta l’opera di Dick è impostata su un’antropologia, una sociologia, addirittura un’ontologia che rende problematico il posto dell’uomo nel mondo».
E se il versante distopico troverà la sua strada nell’estremizzazione della minaccia, fino all’invasione aliena come nel “patriottico” Indipendence Day, la Los Angeles decadente della corruzione avrà nel neo-noir Vivere e morire a Los Angeles di William Friedkin o in L.A. Confidential di Curtis Hanson le pellicole più significative.
Nel 2019 Quentin Tarantino in Once upon a time in… Hollywood, rievoca con gli stilemi a lui cari, su tutti l’esasperato citazionismo ed un gusto pulp derivantegli anche dalla frequentazione dei b-movies, di cui il protagonista della pellicola è (ancora una volta) un attore al declino, il massacro in cui Charles Manson e altri membri della sua “famiglia” satanica, trucidarono, insieme a quattro dei suoi amici, Sharon Tate, la giovane moglie di Roman Polanski, all’ottavo mese di gravidanza a Cielo Drive, ribaltandone tuttavia ucronicamente il finale in un improbabile happy end, in cui la tragedia viene sventata. Tarantino compie quindi l’esatto opposto di quello che Polanski aveva fatto con la sceneggiatura pensata da Towne per Chinatown, legando così i due film con un fil rouge in cui si sgretolano i confini fra realtà e fiction.
L’evocazione infine dell’atmosfera della Los Angeles della contestazione, siamo nel 1969, fra controcultura e clima hippie non può non richiamare il rapporto, di cui il mediatore centrale fu l’eclettico e profetico Stewart Brand, fra quel clima anarchico, comunitario, eversivo e psichedelico e la nascita della rivoluzione informatica, le cui istanze rivoluzionarie ,incarnate dall’universo cyberpunk degli anni Novanta, si sono raggelate in quella che il filosofo Eric Sadin definisce siliconizzazione del mondo, in cui fra l’altro per placare il riscaldamento dovuto all’incessante lavoro dei data-center occorrono risorse idriche sempre meno sostenibili.
La nuova presidenza statunitense facendo visita ai luoghi appena devastati dai roghi ha subito, riferisce Ian James, invocato una drastica revisione delle politiche idriche della California, progettando di instradare le acque del delta del fiume Sacramento e massimizzando le portate di acqua a scapito dell’ecosistema.
Nessuna sceneggiatura, magari scritta dall’IA, si occuperà di queste dighe e questi acquedotti. In tempi di capitalismo della sorveglianza, il nostro immaginario è un dato da monitorare, valuta di scambio utile all’accumulazione oligarchica di profitto.
Per questo investigare, legare, decifrare, ricordare sono nuove forme di resistenza.
Per dirlo con Donna Haraway: «Nessuno vive ovunque, tutti vivono da qualche parte. Niente è connesso a tutto, tutto è connesso a qualcosa».