Legàmi e légami: quando l’accento cambia tutto (o quasi)

Autore

Emanuela Fellin
Emanuela Fellin, pedagogista clinica, svolge la sua attività professionale, di studio, ricerca e consulenza per lo sviluppo individuale, sia con l’infanzia e l’adolescenza, che con gli adulti. Si occupa di interventi con i gruppi e le organizzazioni per la formazione e lo sviluppo dell’apprendimento e della motivazione. L’impegno di studio e applicazione è rivolto agli interventi nei contesti critici dell’educazione contemporanea, sia istituzionali che scolastici. Le tematiche principali di interesse vertono sui concetti di vivibilità, ambiente, cura e apprendimento. I metodi utilizzati sono quelli propri della ricerca-intervento e della consulenza al ruolo per lo sviluppo individuale e il sostegno alle dinamiche dei gruppi e delle organizzazioni.

È curioso come, in italiano, basti spostare un accento per cambiare completamente il senso di una parola. Parliamo di legàmi e légami, due facce della stessa medaglia che, però, possono trasformare una relazione da solida e rassicurante a soffocante e patologica. Questo gioco linguistico si presta molto bene a descrivere quello che accade nelle organizzazioni di lavoro “malate”, dove i rapporti interpersonali si intrecciano in modo così stretto da diventare veri e propri nodi gordiani.

Proviamo ad approfondire, seppur parzialmente, cosa rende un legame professionale funzionale oppure tossico. La differenza, del resto, non è così netta come si potrebbe immaginare. C’è sempre una componente di dipendenza in ogni autonomia e, allo stesso tempo, non è immaginabile alcuna conquista di autonomia senza dipendere da coloro o dalle situazioni che la rendono possibile. 

L’ufficio: laboratorio di legàmi

Ogni ambiente di lavoro è una micro-società regolata da ruoli, norme e inevitabili conflitti. I legàmi professionali non sono mai neutrali, ma possono rappresentare tanto vincoli che sostengono quanto catene che imprigionano. Le dinamiche negative si manifestano in diverse forme: dalle rivalità interne alle gerarchie oppressive, fino ai comportamenti passivo-aggressivi che alimentano tensioni croniche. Troviamo il collega-passivo-aggressivo che sembra uscito da un manuale di psicopatologia, il capo narcisista che monopolizza le riunioni per nutrire il proprio ego e la squadra di lavoro dove le lotte interne ricordano le rivalità di una tragedia greca.

In contesti tossici, i rapporti interpersonali diventano il luogo privilegiato per la proiezione di ansie, insicurezze e conflitti irrisolti. Questi fenomeni non sono casuali, ma trovano una spiegazione nelle teorie psicoanalitiche, che ci offrono strumenti per esplorarne le radici profonde. Può accadere, insomma, che le situazioni lavorative siano utilizzate per esprimere o sfogare problematiche interiori irrisolte utilizzando in modo difensivo l’organizzazione; per difendersi cioè dalle proprie ansie.

Freud: l’inconscio non timbra il cartellino

Sigmund Freud, fondatore della psicoanalisi, ha posto l’accento sull’influenza dell’inconscio nelle relazioni sociali. In ambito lavorativo, le dinamiche tra colleghi e superiori spesso riproducono schemi familiari interiorizzati: il capo autoritario può evocare la figura paterna, mentre i colleghi più esperti possono assumere il ruolo di fratelli maggiori, con tutte le tensioni competitive che ne derivano.

Freud sosteneva che il lavoro costituisce uno spazio in cui si esprimono desideri inconsci, conflitti latenti e meccanismi di difesa. La competizione e l’invidia, ad esempio, non sono semplici reazioni razionali, ma affondano le loro radici in pulsioni profonde, che condizionano sia i comportamenti individuali sia quelli collettivi.

Klein: dipendenze e aggressività

Melanie Klein, pioniera dello studio delle relazioni oggettuali, ha messo in luce come gli individui tendano a proiettare le proprie ansie sugli altri, generando legàmi caratterizzati da dipendenza o aggressività. Nei gruppi di lavoro, tali dinamiche emergono attraverso comportamenti polarizzati: da un lato, la ricerca ossessiva di approvazione, che alimenta relazioni di dipendenza; dall’altro, il sabotaggio e la rivalità, che sono espressioni di aggressività latente.

In un contesto difensivo e disfunzionale, il collega che monopolizza risorse e attenzioni non agisce necessariamente per egoismo, ma potrebbe rispondere a un’ansia inconscia legata alla paura della scarsità. Analogamente, il leader incapace di delegare potrebbe essere prigioniero di un ruolo onnipotente, motivato dal timore di perdere il controllo.

Lacan: il linguaggio e il desiderio

Jacques Lacan, con il suo contributo innovativo alla psicoanalisi, ci invita a riflettere sul ruolo del linguaggio e del desiderio nelle relazioni. Per Lacan, ogni legame è mediato dall’Altro, inteso come sistema simbolico di norme e significati che plasmano l’identità del soggetto. Nei contesti lavorativi, ciò implica che i rapporti tra colleghi e superiori siano intrisi di aspettative e significati simbolici, spesso inconsapevoli.

Il desiderio di riconoscimento, ad esempio, non si manifesta in modo diretto, ma si articola attraverso i rituali aziendali, come promozioni, premi e attestati di merito. Quando questi segnali vengono distorti o, peggio, ignorati, il legame professionale si indebolisce, lasciando spazio a sentimenti di frustrazione e alienazione.

Sciogliere i nodi: è possibile?

Se i legàmi difensivi e tossici sono radicati nell’inconscio e nelle dinamiche simboliche, è possibile modificarli? La psicoanalisi ci suggerisce che la consapevolezza rappresenta il primo passo verso il cambiamento. Riconoscere e comprendere le dinamiche nascoste che alimentano le tensioni consente di affrontarle e, in alcuni casi, di trasformarle in relazioni più sane e produttive.

È tuttavia fondamentale accettare che i legàmi e i légami non possano mai essere completamente esenti da conflitti. Come affermava Lacan, “Non si scioglie mai un nodo senza crearne un altro”. Il cambiamento è un processo continuo, che richiede un equilibrio tra razionalità e comprensione emotiva.

Il vero obiettivo non dovrebbe essere l’eliminazione dei conflitti, bensì l’acquisizione di strumenti per gestirli in maniera consapevole. Solo in questo modo i legami professionali possono evolvere da catene soffocanti a reti di supporto, trasformando l’ambiente di lavoro in uno spazio di crescita personale e collettiva.

Perché ciò accada, spesso la consapevolezza non è sufficiente. Anche se si è consapevoli di un detto stato di cose, non è automatico che ne derivi un cambiamento. Tra la consapevolezza e il cambiamento si situa l’azione. Il cambiamento per essere effettivo deve essere agito, magari con gradualità, ma l’azione è necessaria. L’azione tra l’altro si muove sempre in un contesto di incertezza e induce al riconoscimento dell’imperfezione come fattore costitutivo.

Ma forse il segreto sta proprio lì: accettare che i legàmi—e i légami—non sono mai perfetti, e che il vero cambiamento nasce dall’ambiguità stessa. In fondo, come ci insegna il grande Woody Allen, “Le relazioni sono come gli squali: devono continuare a muoversi o muoiono”.

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