La libertà per me? È liberarmi da me stesso. Liberarmi da me come autore della mia esistenza. Ovvero dall’autorità verso me stesso, da quel me stesso vissuto come ingombro, per cercare di essere solo un attore dai ruoli cangianti o un’opera costantemente incompiuta. È l’autorialità che mi importa, non l’autorità. Voglio riscrivermi continuamente. Contro ogni tentativo di definirmi, di ridurmi ad un’identità, di collocarmi in un’età, di fissare la mia diventità transeunte. Non voglio essere definito da una sola narrazione. Vivere per me è rendersi invisibili per rendere visibile la rappresentazione di sé stessi. Con l’ossessione della gloria immediata che solo l’unicità può garantire. Una gloria che si rivela effimera, futile, che si sgretola ogni volta sgretolando chi ad essa, credendoci, si era consegnato. Si sgretola perché sgretolarmi è l’essenza effettiva della mia provvisorietà. Si sgretola per attivare allo stesso tempo una nuova ricerca di gloria, ancora una volta immediata, capace di garantire unicità, superiorità, potere, successo. La gloria, sempre la gloria. Lo sforzo per vedermi, senza riuscirci mai del tutto, o non riuscendoci per niente; il perseguimento ossessivo dell’unicità, mi conducono paradossalmente al conformismo ripetitivo. Lì mi accaso e mi proteggo. Da lì devo urgentemente fuggire, da quel tepore ammaliante e fetido devo scappare. E proprio in questi circuiti mi sento finalmente slegato. Sì, perché di legami si muore. Si soffoca. In apparenza, e all’inizio, fonti di libertà, presto i legami divengono perversi e si alimentano di reciproche dipendenze. Sempre lì, impegnati a cercare i significati di ogni cosa, si finisce per vivere nelle foreste intricate del simbolico. Una cosa, un gesto, un evento contano solo per i significati a cui rinviano. Inseguendoli, quei significati, non si vive veramente. Non c’è gloria ma vaghezza. Non c’è sostanza ma vince l’effimero. Allora tanto vale produrre una rottura: la rottura del simbolico, o meglio, nella maggior parte dei casi perseguire l’inaccessibilità al simbolico, per portarsi a sfociare nell’immaginazione, regno del glorioso, mettendo da parte quasi del tutto o del tutto l’esame di realtà. Tanto vale divenire effettivamente capace di fingere, cioè di immaginare, o come dice l’etimo antico della parola fingere, di leccare il mondo come una madre lecca il proprio cucciolo, di prendersene cura. Tanto vale cercare di assecondare i colori del tempo, immaginando un mondo che ancora non c’è. Tanto vale giocare il gioco più serio del mondo: quello di un mondo possibile pensato con il realismo della fantasia, un mondo reale perché ritenuto impossibile. Giungo forse così a instaurare una continua genealogia di me stesso, riscritta compulsivamente alla ricerca di quella autentica, che effettiva rischia di non essere mai, perché voglio che non lo diventi mai.