La costruzione di un amore
Spezza le vene delle mani
Mescola il sangue col sudore
Se te ne rimane
Ivano Fossati
La verità, vi prego,
sull’amore.
Wystan Hugh Auden
Devo molto
a quelli che non amo.
Il sollievo con cui accetto
che siano più vicini a un altro.
La gioia di non essere io
il lupo dei loro agnelli.
Wislawa Szymborska
Senza l’amore non c’è vita sulla terra.
Si può venire al mondo, nel senso della pienezza e della riuscita dell’esistenza, solo se sognati, desiderati, riconosciuti, congiungendosi alla nostra parte mancante – l’Altro – che ci rende esseri umani.
Ma la crisi della relazione intersoggettiva è profonda, planetaria, sistemica.
Ed è diventata politica, con la guerra endemica a diverse latitudini del mondo, con l’ostilità diffusa verso lo straniero in fuga dall’oppressione e verso la libertà di una vita desiderata, con le discriminazioni e le disuguaglianze di ogni genere. Lo aveva ampiamente pronosticato Jean-Luc Nancy quando scriveva che «se l’amore non si dà più come risorsa politica, la politica non può offrire uno spazio proprio per l’amore (…), l’intera nostra tradizione parla il linguaggio visibilmente doppio: da una parte si afferma che la vita comune deve avere per principio l’amore, d’altra parte si afferma anche che l’amore appartiene alla sfera privata e non può intervenire né come ingrediente né come modello nella sfera pubblica»1.
Siamo al cospetto di una immane crisi umanitaria, nonostante l’impegno di molte organizzazioni sociali per instaurare la fraternità nel mondo, che va ben oltre la carenza di beni materiali e investe il senso, la cultura, le istituzioni pubbliche, concimata dall’indifferenza che allarga la zona grigia dell’impassibilità e insensibilità di fronte alla crescente violenza presente nei rapporti sociali e interpersonali.
E ciò malgrado viviamo in un’epoca nella quale, cinicamente, i simboli dell’amore si sprecano, ad esempio nei festival dell’ipocrisia celebrati via social, dove cuori, baci e abbracci, formato emoticon, fioccano. Ma è una comunicazione meccanica, seriale, senz’anima, che separa il significato dai sentimenti, e, paradossalmente, invece che relazioni positive produce quella solitudine intesa nella sua declinazione meno nobile e più problematica, adottata, come scrivono Chittaro e Castigliego, «per sfuggire dal mondo sociale e ritirarsi dal potenziale ‘dolore’ dell’interazione con l’altro»2.
Questo è il punto: l’altro è percepito sempre più come una minaccia e la relazione intersoggettiva come una dipendenza insopportabile, troppo impegnativa, scomoda, che porta ad “apparecchiare” una vita a-sociale e, in casi estremi, un destino di autosegregazione, appagando la fame di riconoscimento sociale e di autostima con gli attimi fuggenti e reiterati dell’emozione nel dare e ricevere un like: «Gli effetti di un semplice ‘mi piace’ (like) sono molto più profondi di quanto si possa percepire soggettivamente, tanto che la ricerca in neuroscienze ha mostrato attraverso neuroimmagini che ricevere i like ha un effetto sui circuiti neuronali della ricompensa»3.
Luigi Pirandello nella sua produzione drammaturgica, cent’anni fa, si dedicò particolarmente al tema del riconoscimento dell’altro, e, soprattutto alla crisi dell’io e del legame intersoggettivo. In molti dei suoi personaggi, fragili, cinici, narcisisti, incapaci perciò di costruire legami significativi, l’io si moltiplica in differenti e contradditorie identità. «Così simuliamo e dissimuliamo con noi medesimi, sdoppiandoci e spesso anche moltiplicandoci – scriveva in un testo sull’umorismo – […] e rifuggiamo da quell’analisi che, svelando la vanità, ecciterebbe il morso della coscienza e ci umilierebbe di fronte a noi stessi».
Il Teatro, secondo Eduardo De Filippo, è “vivere sul serio quello che gli altri nella vita recitano male”, capace perciò, per Arthur Miller, di parlare direttamente all’umanità creandole imbarazzo. Uno specchio della società che non ha bisogno di cornici dorate, direbbe Peter Brook. Una lotta per scoprire la verità̀ su noi stessi, e uno strappare le maschere dietro le quali ogni giorno ci nascondiamo, come scriveva Jerzy Grotowsky.
In questa prospettiva drammaturgica si colloca anche Genesi di un amore, pièce teatrale di Thomas Otto Zinzi che propone l’Amore e il Teatro come il regno dell’utopia, dove cioè può ancora accadere qualcosa di inedito, che sconvolga l’immutabile apparente della miseria umana, e dove si può rimettere al mondo il mondo, come direbbe Maria Zambrano, quando la vita torna ad essere teatro del desiderio dell’altro, e il teatro rappresentazione del suo distruttivo fallimento.
Il linguaggio del teatro non tradisce mai, se genuinamente replica la vita svelando quelle parti oscure di noi che ci ostiniamo a non voler vedere, per ridurle a vantaggio di quelle migliori che, lavorandoci, ci fanno diventare esseri umani. Il teatro, come l’educazione, è l’arte della conoscenza di sé e degli altri. Ma per conoscere bisogna amare. “Tutto ciò che so, lo so solo perché amo”, diceva Lev Tolstoi, e Johann Wolfgang von Goethe nella stessa direzione affermava che “non si acquista conoscenza se non di ciò che si ama”.
Non è tuttavia una passeggiata di salute, l’amore.
Wystan Hugh Auden, tra i maggiori poeti del ‘900 in una raccolta di testi usciti negli anni ’30, invocava, tra ironia e disillusione, la verità sull’amore. Josif Brodskij commentando le poesie di Auden, da lui considerato un grande maestro, scrisse: «I temi di queste poesie sono l’amore e la disonestà, i due poli tra i quali ci siamo trovati a soggiornare nel nostro secolo, pronti a gloriarci della loro occasionale divergenza ma bravissimi, anche quando siamo sfortunati, a conciliarli fra loro, a fonderli insieme. Ci sono buone ragioni se i versi del poeta oscillano tra la più intensa tenerezza e parossismi di indifferenza, e se da queste oscillazioni nasce uno stridente lirismo che non ha precedenti».
È un percorso tortuoso, ambiguo, bellissimo e faticoso, quello dell’amore, perché il desiderio dell’altra/o al vertice più alto della relazione intersoggettiva, implica la scoperta e il riconoscimento dei propri limiti e il ri-attraversamento e la guarigione di quella ferita narcisistica di cui è portatore chi ha sperimentato il fallimento dell’incontro con l’altra/o, la sua strumentalità, il tradimento di un’aspettativa. Alla fine, come afferma il Qohelet, “chi più sa più soffre”.
La verità sull’amore.
È questo il fil rouge della drammaturgia di Thomas Otto Zinzi, che si fa, attraverso il linguaggio poetico, ricerca antropologica, svelamento dell’umano, delle sue pusillanimità e delle sue possibilità di riscatto. Una drammaturgia che continua a sorprendere, lasciando nello spettatore un segno emozionale irreversibile e promettente di giorni nuovi.
Dopo Io e te. In un buio pieno di luce, rappresentazione teatrale di un dolore capace di sconquassare la normalità borghese e di mutare in affettività, rendendo fertile ciò che è inaridito dall’abitudine, sterilizzato dal cinismo, intrappolato nel risentimento, con Genesi di un amore va in scena l’educazione sentimentale, tout court.
È la storia di un amore sostantivo, senza aggettivi, che non ha un perimetro e una foggia definiti, ma prende forma secondo la dilatazione del cuore di cui siamo capaci. Genesi di un amore è un testo drammaturgico ambizioso corredato di una regia coraggiosa. Il testo vede al centro della drammaturgia due giovani donne, Rosa e Margherita, che prendono consapevolezza, malgrado l’espressione delle loro solenni intenzioni, addirittura di condividere l’intera vita, che l’amore esige non la coincidenza di parole e gesti, ma l’eccedenza dei gesti sulle parole.
Giovani e donne. La scelta di Zinzi è chiara: per decodificare e destrutturare le caricature dell’amore in circolazione, strette tra la cultura piccolo borghese e la banalizzazione dei social, bisogna far diventare testata angolare la pietra che questa società continua a scartare: giovani e donne. Sfidando il conformismo e il pregiudizio, Genesi di un amore disegna l’amore saffico come un’anti-meccanica affettiva, che rompe i lacci del dover essere formalizzato dai canoni istituzionali, religiosi e non, per approdare all’essere autenticamente.
Non è casuale, in proposito, la scelta del regista di accompagnare poeticamente nel finale l’escalation vibrante della storia d’amore con lo splendido brano di Sting The secret marriage, che argomenta così: «Nessuna chiesa terrestre ha mai benedetto la nostra unione. Nessuno stato ci ha mai dato il permesso […] Il voto del matrimonio segreto non è mai stato pronunciato. Il matrimonio segreto mai potrà essere rotto».
Rosa e Margherita nella loro relazione non si risparmiano proprio nulla, inscenando un’altalena di stati d’animo – dal conflitto, alla delusione, all’euforia, al ripensamento, alla pace interiore – che illustrano perfettamente come l’amore, lungi da qualsivoglia romanticismo di maniera, sia un adattamento dinamico continuo, spontaneo, una ricerca di sé nella relazione con l’altra, un prendere continuamente le misure dell’altro, mettendosi nei suoi panni: l’amore non è mai un compimento ma è un eterno cominciamento.
Il colpo di scena finale, magistralmente architettato dalla regia di Zinzi, espone i corpi bacianti e combacianti, mostrando l’amore come figura della delicatezza, della tenerezza, del rispetto dell’altra/o, del consegnarsi con fiducia nelle mani dell’altra/o. L’amore non è, e non potrebbe essere, possesso, ma solo desiderio dell’altro/a, senza il riconoscimento del quale, della quale, siamo nessuno e viviamo male.
Ma il vero coup de théâtre di Genesi di un amore anticipa la rappresentazione stessa, e sta nelle premesse dell’Opera: è l’investimento sulle due giovani attrici Angelica Olmeda e Barbara Venturini, straordinarie interpreti di Rosa e Margherita che – come in apertura del testo drammaturgico scrive Thomas Otto Zinzi – «sono le registe del loro spazio scenico imprenditrici dell’emozione che non si nasconde in nessuna certezza» e che «investono la moneta del loro talento nella genesi di un amore per una vita nel Teatro».
In filigrana Genesi di un amore propone atmosfere e sensibilità poetiche affini a quelle del grande scrittore Dino Buzzati, che pure Zinzi ha drammaturgicamente frequentato mettendo in scena negli anni scorsi diversi suoi testi. Tra questi, in particolare uno dei suoi più importanti e sofferti è Gli inviti superflui. Se vogliamo, questa è la verità di Buzzati sull’amore:
Vorrei che tu venissi da me in una sera d’inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo.
Per gli stessi sentieri fatati passammo infatti tu ed io, con passi timidi, insieme andammo attraverso le foreste piene di lupi, e i medesimi genii ci spiavano dai ciuffi di muschio sospesi alle torri, tra svolazzare di corvi.
Insieme, senza saperlo, di là forse guardammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspettava. Ivi palpitarono in noi per la prima volta pazzi e teneri desideri. “Ti ricordi?” ci diremo l’un l’altro, stringendoci dolcemente, nella calda stanza, e tu mi sorriderai fiduciosa mentre fuori daran tetro suono le lamiere scosse dal vento.
NOTE
- J.L.Nancy, Sull’amore, Bollati Boringhieri, 2009
- L. Chittaro, G. Castigliego, Le illusioni dei social media. Maschere e specchi della nostra personalità, Mimesis, 2024
- L. Chittaro, G. Castigliego, Le illusioni….op. cit.