Siamo tutti Willy Loman. Viaggiatori con bussole che hanno smesso di funzionare

Autore

Rosario Iaccarino
Rosario Iaccarino, nato a Napoli nel 1960, dal 1982 al 1987 ha lavorato come operaio presso la SIRAM, assumendo l’incarico di delegato sindacale della Fim Cisl; nel 1987 è entrato a far parte dello staff della Fim Cisl nazionale, prima come Responsabile dell’Ufficio Stampa e dal 2003 come Responsabile della Formazione sindacale. Cura i rapporti con le Università e con l’Associazionismo culturale e sociale con i quali la Fim Cisl è partner nei diversi progetti. Giornalista pubblicista dal 1990. È direttore responsabile della rivista Appunti di cultura e politica. E’ componente del Comitato Direttivo e del Comitato Scientifico dell’Associazione NExT (Nuova Economia per Tutti).

A Vittorio, 
andato via troppo presto,
Willy Loman per un giorno 
nel laboratorio teatrale 
dei sindacalisti FIM

Quante volte sarà partito nella sua vita Willy Loman, il commesso viaggiatore di Arthur Miller? 

Lavorava senza risparmiarsi, Willy, si sbatteva senza sosta a destra e a manca, a qualsiasi ora; macinava chilometri ogni giorno in auto, in treno; avrà incontrato migliaia di persone. 

Era un commesso viaggiatore, e sognava il successo per sé e per i suoi figli, una carriera luminosa e una famiglia perfetta; ambiva anche lui, uomo qualunque, nell’America del dopoguerra, a qualche momento di gloria. 

Morirà suicida.

Nonostante il lavoro, Willy, non si è arricchito, anzi ha fatto i debiti. Nonostante il lavoro, non è riuscito a realizzare sè stesso, ma ha sperimentato l’alienazione, e il fallimento, anche in famiglia. Nonostante il lavoro, non ha beneficiato di quella considerazione professionale e sociale che cercava disperatamente, anzi è stato licenziato. 

Eppure partiva tutti i giorni, Willy. 

Per andare dove? Per cercare cosa?

Impietosamente, lo stesso Arthur Miller, autore di Morte di un commesso viaggiatore1, rappresentando il personaggio di Willy Loman, da lui lucidamente costruito, puntava il dito contro la deriva di quel sogno americano che, invece di essere inclusivo e redistributivo di opportunità e ricchezza, finì per alimentare una cultura della competizione, dell’apparenza, del consumismo compulsivo, affinché anche l’ultimo sfigato e signor nessuno potesse diventare qualcuno, se necessario anche a spese degli altri. Una pulsione che, secondo Miller, rispondeva a «una necessità d’immortalità», malgrado la consapevolezza «che si è scritto scrupolosamente il proprio nome su un pezzo di ghiaccio, in una torrida giornata di luglio». 

Willy Loman, commesso viaggiatore, illustra in maniera perfetta lo scarto esistente tra le promesse di emancipazione sociale del sogno americano e le sue conseguenze distruttive,   ordite dall’ideologia neoliberista e da un capitalismo industriale sempre più egemone sulla politica che nel tempo cambierà volto prima con la finanziarizzazione, quindi con le piattaforme: potenti sterilizzatori della dimensione simbolica degli esseri umani a favore di quella materialistica della vita. 

Aveva idee progressiste e critiche dell’America way of life, Arthur Miller, e per questa ragione finì nel mirino della Commissione McCarthy che sanzionava – artisti in primis – coloro considerati di sinistra, e dediti, nella ideologica visione maccartista, ad attività antiamericane. 

Mantenendo rigorosamente la cifra drammaturgica della sua comunicazione politica, Miller fronteggiò quel pesante attacco e il clima di caccia alle streghe che andava diffondendosi, mettendo in scena Il crogiuolo, un’Opera critica del maccartismo, che utilizzava come parallelo il processo di Salem, nel Massachusetts, che vide coinvolte ingiustamente centocinquanta persone accusate di stregoneria.

Già nella pièce Erano tutti miei figli, appena precedente a Morte di un commesso viaggiatore, il drammaturgo americano di origine ebrea aveva denunciato la primazia delle logiche devastanti del mercato, che portano con sé la bramosia del denaro e pure la corruzione. In questo caso la critica di Miller si rivolse verso coloro che con la guerra hanno fatto affari, arricchendosi indebitamente. È il caso dell’industriale Joe Keller, produttore di componenti per aerei militari, che pur di mantenere in vita l’azienda e continuare a fare profitti vendeva ricambi difettosi, malgrado a causa sua trovarono la morte ventuno piloti, tra i quali, disgraziatamente, c’era anche suo figlio Larry.

L’American Dream si è rivelato un tradimento, anzi è diventato un incubo, per Willy Loman e per la classe sociale che egli rappresenta, prospettiva capovolta rispetto a come il sogno americano era stato raccontato, ad esempio, nel 1931, in The Epic of America, dall’autorevole storico James Truslow Adams che in proposito affermava: «è il sogno di una terra in cui la vita dovrebbe essere migliore, più prospera e più ricca per tutti, con opportunità per ciascuno secondo le proprie capacità o i risultati raggiunti. È un sogno difficile da interpretare adeguatamente per le classi dominanti europee… Non è soltanto un sogno di auto nuove e salari elevati, ma un sogno di ordine sociale, nel quale ogni uomo e ogni donna devono essere capaci di raggiungere la massima realizzazione di cui sono, per natura, capaci di raggiungere; e devono essere riconosciuti dagli altri per quello che loro sono, a prescindere dalle circostanze fortuite legate alla nascita o alla posizione»2.

Ma Willy continuava a partire tutti i giorni. 

Per andare dove? Per realizzare cosa?

Il teatro, e l’arte in generale, hanno la capacità di anticipare questioni e visioni. Un oracolo che intuisce il farsi degli eventi, perché replica la vita, mettendo in guardia dai possibili esiti. Lo diceva lo stesso Miller: «il teatro da sempre assolve un impatto di civiltà sull’uomo, è una tribuna da cui ci si rivolge in modo semplice, diretto, tangibile, e che l’opera migliore è quella che ti crea imbarazzo».

L’imbarazzo è proprio la ragione per la quale la politica e le istituzioni, allergiche a qualsivoglia coscienza critica, il teatro hanno fatto di tutto per ridimensionarlo, ammutolirlo, togliendogli risorse. Li avessimo ascoltati Willy Loman e Arthur Miller, soprattutto dopo la pandemia, non saremmo stati a parlare di ri-partenza, mantra politico che a dispetto della tragedia, dei morti e delle cause conclamate legate alla manomissione dell’ambiente nel quale viviamo, ha potenziato, invece che mettere in discussione, le logiche del mercato e della tecnocrazia. 

Il suicidio di Willy Loman, messo in scena da Miller, mostra il limite con il quale non vogliamo fare i conti. “Limite” si propone oggi come la parola chiave del linguaggio della responsabilità e della vivibilità: quella consapevolezza a cui ci richiamava negli anni sessanta Gregory Bateson, quando avvertiva: “stiamo imparando sulla nostra pelle che l’organismo che distrugge il proprio ambiente distrugge sé stesso”.

Eppure Willy Loman, l’uomo comune, ognuno di noi, continua a viaggiare. 

Per andare dove, per realizzare cosa?

Le bussole dei moderni hanno smesso di funzionare, ci ricorderebbe Bruno Latour.
Perché la crisi economica e quella ambientale, l’aumento delle disuguaglianze su scala planetaria, la crisi migratoria, le guerre, stanno dentro un cambiamento di natura più generale, che segna un vero e proprio passaggio d’epoca3.

NOTE

  1.  A. Miller, Morte di un commesso viaggiatore. Ed. Italiana: Giulio Einaudi Editore, 1979
  2. Cfr. https://www.rivistailmulino.it/a/l-american-dream-e-la-nuova-sinistra-americana
  3. https://www.lucianotavazza.it/w4/news/le-bussole-dei-moderni-hanno-smesso-di-funzionare-la-crisi-e-le-speranze-delloccidente-di-giorgio-marcello/

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