La nascita è il futuro che si fa presente. Il Cantico dei cantici è il presente che annuncia il futuro. L’amore è puro e gioioso, fatto di desiderio e di erotismo. È l’amore in cui i corpi hanno rispetto l’uno dell’altro mentre si amano e godono con l’amplesso nella loro reciprocità. Nel Cantico dei Cantici lo spirito è immediatamente corpo, per questo l’erotismo si fa sacro e santo. La poesia trascende la condizione del credere o non credere. Autonomia della sposa, autonomia dello sposo, relazione come dipendenza reciproca ma non come subordinazione; eguaglianza nel riconoscimento della diversità. L’utopia si fa realtà nel momento in cui diventa poesia. È il mondo tra i mondi. È il dramma della vita che diventerà una nascita. È il sogno che dovrebbe colorare la politica, che purtroppo oggi è stinta.
Quanto disagio ha suscitato nei rabbini e nei padri della chiesa questo eversivo canto poetico e la storia d’amore che racconta! Qualcuno di loro ha parlato di metafora e di allegoria (lo sposo sarebbe Cristo e la sposa sarebbe la Chiesa) ma solo per distrarre l’attenzione del lettore e dell’ascoltatore dal fatto imbarazzante che la relazione tra lei e lui appare come quel che è: amore che, pervaso eroticamente dal desiderio, è condizione della grazia; amore, la cui profondità, come direbbe Valéry, è sulla superficie della pelle.
Ma tutto questo si è quasi perduto, come ogni cosa che annuncia un futuro, una nascita. È scomparsa la scena che nel Cantico dei Cantici si compone dei due protagonisti, lo sposo e la sposa e di un dispositivo che li divide e, nello stesso tempo, determina la modalità del loro collegamento. Riporto la traduzione di Don Roberto Filippini, già vescovo di Pescia: “guarda dalla finestra, spia attraverso le inferriate” (2,9). In realtà è la sposa che parla e ci dice dello sposo che sta dietro una parete e che si volta verso la finestra e guarda attraverso l’inferriata. Che funzione ha qui la finestra? Quella di unire e collegare due corpi attraverso una mancanza segnalata dal desiderio. Lo sposo e la sposa si vedono e vedendosi si guardano e guardandosi si desiderano. Immaginiamo che le finestre siano chiuse da una rete che non permette di passare attraverso le pareti, ma permette di vedere. I corpi non possono toccarsi né abbracciarsi, ma non diventano per questo virtuali. Restano corpi dotati di autonomia e soggettività. Lo sguardo è reciproco. Non vi è dominio, ma relazione. La finestra vincola qui il rapporto tra i due amanti, ma la sua funzione è ben diversa da quelle finestre che determinano la nostra vita quotidiana e che configurano quei dispositivi, oggi per noi imprescindibili strumenti, che sono i computer, i tablet, gli smartphone. Che altro sono infatti questi dispositivi se non finestre che vincolano e determinano le nostre relazioni con gli altri e con il mondo? Siamo talmente abituati a mediare le nostre relazioni per mezzo dei nostri dispositivi elettronici, che, avendo perso il senso di una storia lunga secoli, ci sembrano naturali. Perché configuriamo il rapporto con il mondo e con gli altri attraverso delle finestre, grandi o piccole che siano, che ci portiamo dentro uno zaino o una borsa oppure nelle tasche delle giacche e dei pantaloni? Che altro sono i computer, i tablet, gli smartphone, se non finestre? Apparentemente il telefonino funziona come una finestra, quella stessa che molti secoli prima, nel Cantico dei Cantici, era il mezzo che vincolava e determinava una meravigliosa, poetica scena d’amore. Ma è proprio la stessa finestra? E se lo è, cosa è cambiato nelle relazioni fra coloro che stanno da una parte e dall’altra di questo dispositivo? Nel Cantico dei Cantici la finestra, proprio perché divide, unisce. Essa rappresenta lo stare insieme dello sposo e della sposa nella loro attraente diversità. Negli smartphone di oggi, la finestra, proprio mentre unisce, divide. Nella prima vi è reciprocità e eguaglianza tra lo sposo e la sposa, nella seconda vi è una connessione che però si accompagna a un isolamento. Nel Cantico dei Cantici lo spazio è fisico, negli smartphone è virtuale. Per stare insieme non basta la connessione. Abbiamo ancora bisogno di toccare i nostri corpi e di stringerci fisicamente tra le pareti delle case, ma anche nelle strade, nelle piazze, con gesti di quella reciprocità che, attraverso il senso del nostro essere diversi, ci fa sentire realmente eguali. Se la vita, come scriveva molto tempo fa un biologo, è tutto ciò che resiste alla morte, di questo “tutto ciò” fa parte la nascita e dunque il futuro.