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Sul trauma e sulla sua potenza ortopedica

Autore

Paolo Fedrigotti
Paolo Fedrigotti (Rovereto, 1981) si è laureato in filosofia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano con una tesi su Dante e la filosofia medioevale. Si è specializzato nell’insegnamento secondario presso la Ssis della Libera Università di Bolzano. Ha conseguito il baccellierato in Sacra Teologia presso lo Studio teologico accademico di Trento. Nella stessa città è docente di storia della filosofia e di filosofia della conoscenza ed epistemologia all’Istituto teologico affiliato e all’Istituto di scienze religiose, nonché di filosofia e storia nei licei di Riva del Garda. È membro della Scuola di Anagogia di Bologna e autore di numerosi articoli specialistici e monografie.

NOTE PER UN APPROCCIO PEDAGOGICO ALLE GIOVANI GENERAZIONI

Lavorare oggi come educatori nel mondo di giovani e adolescenti può talora risultare frustrante: muoversi all’interno del loro contesto significa infatti misurarsi sempre più spesso con un arcipelago di monadi capricciose ed emotivamente instabili, con uno scenario popolato da soggetti tendenzialmente interessati a beni materiali immediatamente fruibili, competenti ad intessere più collegamenti virtuali che relazioni reali, inidonei a qualsivoglia forma di sacrificio, insaziabili di novità e, nel medesimo tempo, incapaci di vivere l’attesa (esperienza che, sola, può far apprezzare lo spessore di ciò che ha valore)1. Certo, fare di tutta l’erba un fascio è ingiusto e, fortunatamente, non tutto quanto concerne l’universo giovanile è oscuro; è innegabile, tuttavia, che quest’ultimo si configuri come un orizzonte tendente a catalizzare le distorsioni interiori ed esteriori delle generazioni che storicamente l’hanno preceduto e a rendere così esplicite le contraddizioni dell’intera società in cui s’inserisce. 

La cosa è drammatica ed è più che opportuno sottolinearne la rilevanza, a meno di non voler ridurre il discorso sui giovani alla pappa del cuore, dell’amicizia e dell’entusiasmo2: mi sembra incontestabile il fatto che non solo tra coloro che fanno parte della cosiddetta Generazione Z (composta dai nati tra il 1995 e il 2010), ma pure tra preadolescenti – esseri naturaliter mimetici e specchio (spesso impietoso) dei tempi da loro attraversati – i tratti patognomici che negli adulti sono solitamente celati con vergogna diventino materia conclamata d’intervento per psicoterapeuti e specialisti di settore. Tra tali tratti possiamo annoverare, a titolo esemplificativo, la tendenza diffusa a far prevalere gli agiti sui processi di elaborazione psichica; l’ambivalente sentimento di dipendenza dalle figure di riferimento (che può sfociare in una conflittualità del tutto sterile o in forme di remissività patologica); la priorità accordata all’immagine rispetto alla sostanza; l’apatia e l’indifferenza per l’altrui realtà psichica; il ricorso, spesso compulsivo, a dipendenze di vario tipo (droga o alcool, internet, gadget e beni di consumo); il senso di vuoto e la conseguente ricerca di soddisfazioni immediate che intaccano la struttura del desiderio, accentuando uno stato depressivo latente, ma sempre in agguato; la ridotta capacità di fantasia creativa autonoma; il predominio dell’hic et nunc sul senso della storia o della preoccupazione per il domani e, ancora, lo smarrimento di punti di riferimento autorevoli, di ideali e di valori capaci di trascendere la mera sopravvivenza3.

Viene da chiedersi quali siano le cause di tali forme di malessere relazionale, psichico e, direi, più latamente spirituale. La loro eziologia è senza dubbio assai complessa e difficile da ricostruire in maniera analitica; è nondimeno plausibile ritenere che essa si leghi a due nodi problematici tra loro interdipendenti, due grovigli intrinsecamente connessi al vissuto delle generazioni che dovrebbero fungere da esempio e guida per giovani e ragazzi, di coloro, cioè, che fanno parte della Gen X (i nati tra il 1965 e il 1980) e del gruppo dei Millennials (i nati tra il 1981 e il 1995). A quali nodi sto alludendo? Da una parte a quello relativo al loro narcisismo, una postura tanto pervicace da causare la dimenticanza del senso sociale dell’umana esistenza e da soffocare la luminosità di quegli atti quotidiani con i quali si è costitutivamente chiamati a consegnare il mondo ad altri (nella fattispecie, ai figli); da un’altra parte, a quello della tendenza da parte di queste stesse generazioni ad allontanare dai giovani, dai ragazzi e, prima ancora, dai bambini ogni tipo di trauma, prevenendo assurdamente ogni nuvola che possa oscurare o minacciare il loro benessere e mettendosi così al riparo da ogni squilibrio che – tramite la vicenda biografica dei figli – possa palesarsi come un indice indiretto della loro inconsistenza esistenziale e, a fortiori, come un’aperta denuncia della loro inadeguatezza educativa. 

La tendenza ad esorcizzare, rimuovere o a voler del tutto eliminare il trauma è una prassi pedagogica estremamente fuorviante, giacché il trauma – su cui qui voglio tentare una breve sortita per farne comprendere la preziosa valenza – è a ben vedere condizione di possibilità della crescita della persona e della sua maturazione psichico-esistenziale. 

Parlare di trauma non significa rimandare necessariamente ad eventi straordinariamente catastrofici o luttuosi: il termine viene designando semplicemente ogni dimensione destabilizzante dell’esistenza che costringa il soggetto ad uscire dalla propria omeostasi, ossia dall’(apparentemente pacifico ma, in verità, sterile) equilibrio con se stesso, per maturare una nuova esperienza del reale ed approdare così ad una visione più articolata ed esaustiva del senso delle cose.   

«Il concetto di esperienza – scrive Francesco Stoppa nel suo brillante saggio La restituzione. Perché si è rotto il patto fra le generazioni – si lega strettamente a quello di trauma. Per quanto la si possa considerare un’affermazione controtendenza e paradossale, il disagio di molti dipende oggi dal fatto che, nelle loro vite, non c’è stato posto per l’esperienza strutturante, ortopedica, del trauma. Può sembrare strano sentir parlare del trauma nei termini di un evento necessario e quasi inaugurale per la persona, soprattutto in tempi come i nostri nei quali vige l’assoluta precauzione di evitare o prevenire ogni possibile ferita inferta dalla vita (in greco trauma significa proprio ferita) e nei quali, qualora sia stato impossibile farlo, essa va immediatamente allontanata dal campo di responsabilità di chi l’ha subita e ricondotta al destino avverso, ad altrui inadempienze o a qualche volontà maligna; una reazione che ha l’obiettivo di suscitare vissuti di commiserazione e che innesca una serie di aspettative di risarcimento affettivo quando non pecuniario. (…) Bisogna tener presente come lo sviluppo dell’uomo non consista in un movimento continuo e graduale, ma proceda per fratture e discontinuità. Nel corso dell’esistenza si producono infatti dei salti esperienziali che, ripresi e rielaborati, si rivelano determinanti per l’umanizzazione della persona. Quest’operazione, effettuata a più riprese nel corso del tempo e sempre in riferimento a passaggi fondamentali dell’esistenza, consente a ciascuno di noi, a seconda delle fasi e del tipo di crisi che attraversa, di rinegoziare il proprio rapporto con la vita. È chiaro quindi che, così concepito, il trauma non coincide col momento dell’infortunio, né col danno, ma con un fenomeno ben più ricco e profondo»4.

Tali considerazioni sono illuminanti: esse ci insegnano come il trauma – lungi dall’essere un semplice incidente di percorso – si possa palesare come un accadimento capace (se adeguatamente accolto) di risvegliare il soggetto a se stesso e di fargli assumere, a partire dalla frattura prodottasi nel flusso della sua esistenza, il peso e la responsabilità della sua storia. Far seriamente propria tale prospettiva permette di cogliere appieno la rilevanza pedagogica del trauma: sostenerne la significatività non significa certo affermare che chi educa – si tratti di un genitore, un docente, un allenatore, ecc… – debba traumatizzare i soggetti a lui affidati; vuol dire piuttosto ritenere che l’educatore sia adeguato al suo ruolo quando – vigilando affinché i traumi che colpiscono coloro che segue non siano ferite mortali – risulti capace di aiutare gli altri ad affrontare la traumaticità dell’esistenza, aiutandoli a capire che dire di sì alla vita vuol dire (anche) lasciarsi graffiare e segnare dalla sua ruvidità. È convinzione di molti che proprio gli eventi che ci destabilizzano, ci spiazzano e che cozzano con il nostro bisogno di equilibrio e stabilità ci permettano – a patto che, in qualche modo, essi vengano rielaborati – di imparare tante cose su di noi e sulla nostra vita, insegnandoci ad accettarci5: tra queste c’è una dimensione che le nuove generazioni dovrebbero inequivocabilmente riscoprire e che consiste nella consapevolezza del proprio limite e, più in specifico, della propria caducità. Non si può forse pretendere che una simile consapevolezza susciti tra giovani e adolescenti moti di entusiasmo o slanci di esaltazione, ma non è nemmeno detto che essa sia causa di mortificazione, visto che contribuisce a illuminare il nostro cammino di uomini facendocene percepire tutta la specificità e la profondità6.

NOTE

  1. Cfr. F. Stoppa, La restituzione. Perché si è rotto il patto tra le generazioni, Feltrinelli, Milano 2011, p. 10.
  2. Cfr. G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Bari 1979, p. 10.  
  3. Cfr. F. Stoppa, La restituzione. Perché si è rotto il patto tra le generazioni, p. 12.
  4. Ibi, p. 30.
  5. Cfr. A. Petagine, Coltivare l’umano. Perché abbiamo bisogno dell’etica, Orthotes, Napoli 2019, p. 24.
  6. Cfr. F. Stoppa, La restituzione. Perché si è rotto il patto tra le generazioni, pp. 28-29.

1 commento

  1. Bella analisi perche si muove tutta in un contesto in movimento, dove ogni certezza rimanda ad altro…ad altro ancora! Da qui la necessita di reperire un modus vivendi che sia d’ancora a quello in cui ancora crediamo.
    O meglio crediamo di credere…

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