Vladimir Jankélévitch, L’ironia, Il Nuovo Melangolo, Genova 2006

Autore

Ugo Morelli
Ugo Morelli, psicologo, studioso di scienze cognitive e scrittore, oggi insegna Scienze Cognitive applicate al paesaggio e alla vivibilità al DIARC, Dipartimento di Architettura dell’Università Federico II di Napoli; è Direttore Scientifico del Corso Executive di alta formazione, Modelli di Business per la Sostenibilità Ambientale, presso CUOA Business School, Altavilla Vicentina. Già professore presso le Università degli Studi di Venezia e di Bergamo, è autore di un ampio numero di pubblicazioni, tra le quali: Mente e Bellezza. Arte, creatività e innovazione, Allemandi & C, Torino 2010; Mente e paesaggio. Una teoria della vivibilità, Bollati Boringhieri, Torino 2011; Il conflitto generativo, Città Nuova, Roma 2013; Paesaggio lingua madre, Erickson, Trento 2014; Noi, infanti planetari, Meltemi, Milano 2017; Eppur si crea. Creatività, bellezza, vivibilità, Città Nuova, Roma 2018; Noi siamo un dialogo, Città Nuova Editrice, Roma 2020; I paesaggi della nostra vita, Silvana Editoriale, Milano 2020. Collabora stabilmente con Animazione Sociale, Persone & Conoscenza, Sviluppo & Organizzazione, doppiozero, i dorsi del Corriere della Sera del Trentino, dell’Alto Adige, del Veneto e di Bologna, e con Il Mattino di Napoli.

Ugo Morelli: Che vuol dire essere dentro e fuori un certo ordine del discorso, allo stesso tempo?
Vladimir Jankélévitch: Muoversi tra presa di distanza e coinvolgimento. È un pensare canoro, paragonabile a una danza acrobatica, iniziata in un modo e terminata in un altro.

U.M.: Verrebbe da chiedersi se ironizzare non è, in qualche modo e misura, filosofare…
V.J.: La predicazione dell’ironia appare ben più simile a un movimento che a una fissità rocciosa e solida. È prima di tutto un distacco. Ironizzare vuol dire stabilire una lontananza, tramutare la presenza in assenza, presagire la possibilità di fare qualcosa di diverso, di essere altrove, più tardi.

U.M.: Distacco da cosa? 
V.J.: Innanzitutto dall’oggetto dell’ironia per come si presenta nel contesto originario. Così nel discorso ironico la persona o la situazione cui ci riferiamo improvvisamente gode di qualità e difetti sino a un attimo prima impensabili. Allo stesso tempo, e come inevitabile conseguenza di quanto abbiamo detto, la coscienza prende anche le distanze da sé stessa: in fondo finiamo noi stessi in quel mondo che abbiamo creato con la parola ironica, se non altro per poterlo descrivere e mirare con i nostri occhi.

U.M.: L’ironia è paragonabile all’allegoria, nel senso che dice una cosa e ne pensa un’altra? 
V.J.: Non si tratta che di una modalità di discorso, dissimula esibendo e fuorvia manifestando, ma fuorviando manifesta, benché in modo indiretto e obliquo. D’altronde il linguaggio è «organo-ostacolo» e nel trasmettere il senso non può fare a meno di intercettarlo e modificarlo: così impiegheremmo la circonvoluzione verbale dell’altro mondo perché è in effetti il modo meno diretto ma più fedele di parlare del nostro. 

U.M.: La strategia ironica può avere fini e motivazioni immediate: cioè possiamo ironizzare per difenderci da una critica esterna o da una parola malevola?
V.J.: Ma no. In quel caso abbiamo a che fare con un’ironia che non è nient’altro che armatura e biologica muraglia di una psiche per difendersi da un referente ostile e nemico. Si tratta, invece, di un tipo di comportamento del tutto diverso e ben più ricco di significanza, in quanto attivo e propositivo: quel genere di ironia misteriosa e fondamentale che è pratica intrinsecamente benevola e implica simpatia nei confronti del destinatario. Essa non è necessaria né inevitabile; nei casi che intendiamo potremmo non essere ironici; l’informazione in gioco potrebbe essere trasmessa in altri modi. In altre parole: vi è un di-più, un non-so-che, direi, vago e indefinito che l’ironia aggiunge al discorso, e che va indagato.

U.M.: Ma allora, siamo di fronte all’inafferrabile?
V.J.: La «buona coscienza» dell’ironia è come un’operazione ciclica che prevede un fare e un disfare; può essere accostata allo stratagemma di Penelope che per guadagnare tempo in attesa del ritorno di Ulisse vanifica ogni sera il lavoro del mattino. La differenza decisiva sta nel riassunto da parte dell’ironista della doppia operazione in un solo movimento: ma dalla parte dell’ironizzato, l’attività rimane divisa in due tempi. E proprio qui si rivela il valore pulsante dell’autentica ironia: a differenza di ogni trucco malevolo e di ogni manifestazione di cinismo, essa è essenzialmente generosa e include nel suo farsi l’ironizzato stesso. A questi infatti è concesso di comprendere l’ironia e di giocare con l’ironista: nel mondo nuovo e profondo in cui è stato trascinato a sua insaputa, egli può comportarsi da agente attivo e cosciente – edifica a sua volta il significato delle parole, identifica e decodifica i geroglifici del discorso. 

U.M.: L’ironia, quindi, può avere a che fare con la scoperta?
V.J.: Senza esagerare, l’ironia può condurre verso abissi che l’ironista stesso originariamente non aveva nemmeno previsto: può allargare e aggiungere nuovi strati di senso, arricchire il nuovo mondo di contenuti inediti – e nel farlo partecipa in realtà al processo di descrizione e comprensione dell’universo originario, il nostro. Per dirla in poche parole, l’ironia non vuole essere creduta, ma compresa; è esigente, ma solo nel senso benevolo che esige un’interpretazione da parte dell’ironizzato. Apparentemente elitaria, l’ironia è, nel suo movimento più autentico e rischioso, una pratica estremamente democratica che implica la parità di condizione tra i due partecipanti al gioco.

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