Le discipline di riferimento intorno all’ironia attingono sostanzialmente alla linguistica e alla filosofia, e sono accomunate dalla contrarietà o dal contrasto. Tale contrarietà o contrasto avvengono nella percezione, quindi nella cognizione.
In un mondo in cui vivere è diventato un talento da sviluppare, il contrasto resta una forma di dominio; e la contrarietà una forma di conflitto.
Non vi sono automatismi di sorta nell’essere umano; non nelle modalità di percezione, così come neppure nel respirare, di cui non sempre ci si rende conto di quanto sia lusso fragile, donatoci in concessione finita.
Quindi, ben venga la transdisciplinarietà dell’architettura che vede in ogni campo nutrimento per le sue opere. E tutto indubbiamente nutre; attraverso questa complessa contemporaneità – che dalle pratiche artistiche trova sempre il suo riscatto – si scopre se il nutrimento risulti benefico ad ognuno e a tutti. Sembra scoperta recente, agli occhi di chi non riesce o non vuole vedere, che al contrasto sia preferibile l’accettare ciò che c’è. E accettare non significa di certo assecondare, ma trasformare senza andargli contro.
Fatta questa premessa, proprio a causa della necessità di accordarci nell’indagare con urgenza le parole, ironia nasce dal modo d’interrogare altrui, fingendo di non sapere: ‘interrogare’ quindi, ‘fingendo’.
L’interrogazione e la finzione nella dissimulazione del proprio pensiero con parole o forme opposte o divergenti rispetto alla realtà che potrebbero svelare, nel migliore dei casi possono avere un fine critico, ma anche di inutile derisione; infine di cinismo. Sembrano lontane dal lavoro dell’architettura, che dovrebbe responsabilmente occuparsi d’uso per sciogliere crisi e problemi, e non simulare o dissimulare, generando esercizi per la difesa. Da chi? Da cosa? Il valore maieutico successivo alla migliore ironia come pars destruens, è proprio del dialogo; ma un’architettura che si definisce proponendo contrarietà e contrasto, per sua natura resterebbe una tragica contraddizione, generando fraintendimento nel senso stesso dell’architettura.
Perché mai raggiungere il corpo con un’impalcatura che nasconde la capacità generatrice di ogni opera di architettura?
L’ambivalenza di ogni parola è ciò che ci permette di danzare, attraversando gli aspetti vitali degli opposti. L’opera di architettura – qui intesa come servizio al pubblico – è necessariamente un’azione responsabile – a maggior ragione a fronte dei tempi che stiamo attraversando – capace di trasformare alchemicamente ogni ambivalenza. Al contrario, l’uso dell’ironia come sua impalcatura nasconde, decuplicando questa ambivalenza, rappresentando contraddizioni e ambiguità, esaltando l’aspetto destruens per prendere distanza, rifiutando così di accordare valore al mondo, ed enfatizzando il baratro col reale.
L’uso dell’ironia, esprimendo il contrario di quello che le parole o le forme significano, tende ad essere attivato per alleggerire una visione catastrofica; il che significa non dare alcuna fiducia – ma neppure possibilità – alla capacità costruttiva che ogni visione, in quanto tale, ha.
Lo si ripete. Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma; questo è anche il principio dell’architettura; ma quando prevalgono altri sottotesti – dissimulazione, quindi inganno –, si toglie la possibilità di una visione che consenta di ri-tornare a vedere. Allo stesso tempo, si toglie la possibilità del ri-guardo quale movimento possibile, quale danza che preferisce le qualità incommensurabili suggerite dalle pratiche artistiche per catturare l’epifania di ogni opera (compresa quella di architettura, capace di restare lontana dal configurarsi come prodotto esportabile ovunque, o icona, o assemblaggio di elementi performanti). L’architettura di per sé non dovrebbe essere comprensiva e indulgente per definizione?
A cosa serve sminuire con la finzione, o meglio, con l’alterazione e l’apparente dissimulazione della sua vera natura, se non a portare a vacuità ogni entusiasmo proiettivo proprio di un‘opera d’architettura? (Differente è l’opera d’arte, che non ha immediata responsabilità in termini di uso dedicato all’essere umano e di capacità di sostenere la Terra).
A cosa serve investire energie per costruire senza edificare? Dove porta, quindi, pronunciare il contrario di quello che si afferma?
L’ironia sembra implicare una forma di supponenza, quindi un giudizio, una censura aperta, ma dissimulata, giustificata da una legalità autoreferenziale: come può allora generare un’opera di architettura? Oppure, semplicemente, rappresenta un’incapacità di visione?
L’ironia in architettura sembra per lo più una via, un procedimento tecnico-stilistico per imporre uno spettacolo fuori contesto o, a volte, uno strumento – non certo un metodo che porta oltre – per promuovere un giudizio. Prevede, in questo caso, un’interpretazione critica che tenga in considerazione sia il contesto storico-culturale dell’autore e dell’epoca, che quello dell’ignaro fruitore dell’opera. Presuppone un lettore/fruitore (non abitante) attento, scrupoloso e concentrato sul testo architettonico.
Essendo più vicina a uno stile, in architettura, nasce dal rapporto ambiguo che si decide di instaurare col mondo in cui si applica. Ora, infatti, ovunque nella contemporaneità, tutte le categorie sembrano superate e la grande sfida sembra quella di andare oltre le ambivalenze per ri-costruire ciò che abbiamo distrutto. Può restare un valore (non fondamentale oggi, dove la finzione e la simulazione dilaga, distraendo, ovunque) forse nell’eloquio erudito, dove la latitanza costituisce il nucleo dell’ironia stessa.
Fa parte dei modi di confrontarsi con le difficoltà, ma non sembra offrire crescita. Funziona per contrari; se non lo si comprende, rende cinici.
Il distanziamento – non critico! – che l’ironia genera, attiva la mente ordinaria piuttosto che i sensi; la superficie priva di complessità, piuttosto che l’estetica; e si perde il fondamentale risveglio dei sensi.
Occorre quindi il coraggio di abbandonare l’ironia. Ed eventualmente il coraggio di aver paura, che è lo sconosciuto, quindi il contemporaneo (sintetizzando moltissimo il pensiero sulla contemporaneità offerto da Agamben).
A chi suggerisce l’ironia come funzione architettonica – lo ripeto, non artistica – per la sua capacità di mettere in crisi schemi formali e d’uso aprendo a inediti spazi e tempi dell’esperienza, propongo il ri-guardare, capace di promuovere l’estetica essenziale a ogni opera dell’architettura per l’incessante possibilità e necessità insieme, di continua ricostruzione di ognuno di noi.