Intervista a Marco Dotti, Università di Pavia
L’ironia è un tema ostico, affascinante, ma difficile da maneggiare. Freud affermava che l’ironia consiste nel dire il contrario di ciò che si vuole suggerire, mentre si evita che gli altri abbiano l’occasione di contraddire. Come possiamo approssimarci alla sua definizione?
Da secoli, filosofi, linguisti, semiologi hanno tentato di definire l’ironia, circoscrivendola e differenziandola rispetto al comico, all’umorismo, alla satira e via dicendo. Si tratta, appunto, di tentativi perché l’ironia è qualcosa che sfugge. Sfugge e, in molti casi, straborda al punto che non è più possibile distinguerla dal comico, dall’umoristico e via discorrendo. Questo accade nonostante la definizione di ironia sia apparentemente semplice. Uno studioso di rango, troppo a lungo ostracizzato come Antonino Pagliaro, la sintetizzava così: «ciò che si ha in primo luogo nell’ironia è un gesto linguistico, il cui fine si compie a condizione che l’ascoltatore riconosca un senso opposto a quello che le parole pronunziate significano nella loro schietta funzione comunicativa». L’ironia è dunque un’espressione linguistica in cui il significato letterale è intenzionalmente opposto a ciò che si intende comunicare. Ma il contenuto da trasmettere e la sua forma linguistica si muovono su binari paralleli, ma opposti. Tuttavia, osserva Pagliaro, se tra queste due dimensioni non vi fosse un collegamento, l’ironia si ridurrebbe a una pura e semplice menzogna. È dunque necessario capire dove sia il punto di incontro che permette all’espressione verbale, dotata di un proprio significato, di diventare veicolo di ciò che realmente si intende comunicare.
Quali sono gli aspetti che possono rendere genuina tale comunicazione?
Il valore del contesto, la postura del corpo, le espressioni del volto, il tono della voce: questi elementi sono fondamentali per far sì che appaia il senso contrario che si vuole conferire al discorso. Ma definire l’ironia è assai difficile perché non è immediato cogliere il suo opposto: «Abituati come siamo a muoverci mentalmente tra due poli, di cui l’uno afferma e l’altro nega, bello-brutto, buono-cattivo, vero-falso, giusto-ingiusto, quando si tratta di fissare concetti intermedi, ci troviamo in imbarazzo e in pena». Che cos’è il negativo dell’ironia? Che cos’è la non-ironia? Non certo la serietà, perché la serietà si contrappone allo scherzo. Nemmeno la sincerità, che si contrappone alla falsità e alla menzogna. L’ironia non è serietà, né scherzo.
Pur non essendo né l’una, né l’altro, l’ironia ha punti di contatto sia con la serietà, sia con lo scherzo…
L’ironia, casomai, è un fenomeno ludico e ha a che fare col gioco. Ma questo complica tutto. Nella natura dell’ironia è implicita una sorta di irrequietudine che nasce – credo – dal fatto che è sempre in relazione con la verità. Una relazione di tipo particolare: nell’ironia la verità non è qualcosa che si rivela ma qualcosa che, improvvisamente, per un implicito cambio di passo si svela. Nel Sofista, nel corso di un’indagine sul rapporto di verità tra le parole e le cose, Platone critica l’atteggiamento ironico, perché non conoscitivo e troppo legato all’opinione. L’ironico, come il sofista, oscillerebbe tra opinioni contrastanti, senza ancoraggio al vero, incapace di scegliere e destinato, pertanto, a un continuo gioco di parole.
L’ironista, scrive Soren Kierkegaard nel suo testo dal titolo Sul concetto di ironia, è veramente profetico, siccome di continuo accenna a un che da venire, ma non sa cosa.
Solo un sofista “venuto male” come Socrate – l’espressione è di Vladimir Jankélevitch – poteva smontare da dentro questo meccanismo mostrando l’altro volto dell’ironia nel suo rapporto con la verità. Scrive Jankélevitch che «Socrate dissolve con le sue domande le cosmogonie imponenti degli Ionici e il monismo soffocante di Parmenide», questo perché «Socrate è un sofista, come Prometeo è un titano; ma un sofista “mal riuscito”” un sofista che si prende gioco della sofistica (…). In sostanza, lo spirito d’umanesimo e di controversia che anima quei ciarlatani è lo spirito stesso di Socrate (…) Per conoscere un sofista ci vuole un sofista e mezzo: Socrate smaschera lo scandalo di questa eristica, l’impostura di tale “arrivismo”; Socrate tempesta di domande i venditori di belle frasi e prova un piacere maligno nel far scoppiare i loro otri di eloquenza, nello sgonfiare quelle vesciche ricolme di un inutile sapere».
In greco, eìromai significa “interrogo” e eironeùmai , “dissimulo”, ma c’è il verbo éirõ, “parlare” che in qualche modo sembra alludere al fatto che chi pratica l’ironia proceda con interrogazioni che mettono in difficoltà l’interlocutore. Ecco allora che, per definire l’ironia, spesso ci si rifà a un atteggiamento ironico, capace di sconfinare in una sorta di pessimismo metodologico: chi interroga, in un certo senso, finge di non avere alcuna conoscenza dell’argomento per stimolare una risposta che deve nascere dall’incontro e dal confronto con l’altro, ma anche dalla demolizione di molte certezze (ecco il pessimismo metodologico). L’atteggiamento ironico, però, nel suo legame stretto con la parola e con il parlare rimanda a un parlare “altro”, coperto, a un sottotesto sul quale deve esserci intesa. Il verbo su cui si forma il participio éirõn è, con tutta probabilità, da riportare alla radice indoeuropea wer-, nel significato di nascondere o coprire.
Ecco un primo, apparente paradosso: l’ironia, pratica che scopre e mette a nudo verità spesso scomode, è al tempo stesso una pratica di copertura del discorso di verità. Il discorso ironico è sottile, si muove su una soglia. È pericoloso – poiché l’ironia è pericolosa. Kierkegaard vedeva nell’ironia una soglia. Una soglia che apre allo stadio etico dell’esistenza. Detto in altro modo e scherzosamente: l’ironia rimette al loro posto le presunte priorità della vita, quelle che scalzano i compiti più seri a cui dovremmo attenerci. I compiti ai quali, prima o poi, ci sarà chiesto di mettere testa e cuore. Quelli di cui dovremo rendere conto.
L’ ironia è un concetto oscuro, dunque?
Semplicemente ci porta dove non vorremmo andare: su un terreno dove il discorso binario non vale più. Dove finiscono le tracce. Dove conta la situazione intermedia tra me e te, tra il tu e l’io e dove il terzo è sempre incluso. In questo caso un significato celato e dissimulato dalle parole.
L’etimologia di ironia rimanda all’idea di “dissimulazione”. In che cosa si distingue dalla menzogna?
Inizialmente abbiamo parlato dell’ironia come una specie di antifrasi, ovvero come figura retorica che consiste nel fare intendere ciò che si vuole dire dicendo precisamente il contrario, solitamente con una venatura moralistica, di scherno o con tono di rimprovero. Ma c’è un altro senso del termine, richiamato da André Lalande nel suo Vocabulaire technique et critique de la philosophie (1926), che dopo essere stato corrente nel Medioevo è caduto in disuso. È l’ironia come abbassamento, come diminuzione, un atto attraverso il quale ci si fa sottovalutare. Può essere un atteggiamento legato a una sorta di dissimulazione menzognera, atteggiamento non a caso condannato da Tommaso d’Aquino come colpa grave. Aristotele, nell’Etica nicomachea, aveva apparentemente già risolto la questione contrapponendo l’ironico, che sminuisce i propri meriti, al vanaglorioso, che li amplifica e millanta. Ma questa definizione rischia di essere riduttiva, trasformando l’ironia in una sorta di modestia. Ritengo invece che nel gioco tra le parole e le cose, l’ironia si collochi esattamente al livello delle cose. Riporti le parole in prossimità delle cose. Ed è questa la ragione per cui, oggi, l’ironia è fortemente temuta e viene sostituita, sul piano pubblico, da una sorta di sarcasmo mimetico, contagioso, diffuso soprattutto nella modalità comunicativa dei social: pensiamo al fenomeno dei meme, che meriterebbero un discorso a sé in quanto corruzione del discorso ironico (su questo rimando quanto meno al libro di Alessandro Lolli, La guerra dei meme. Fenomenologia di uno scherzo infinito, Effequ 2017) o a quello dei conduttori delle trash radio americane.
Se ne deduce che sarcasmo e ironia non sono neanche lontani parenti. Vale la pena approfondire la questione.
Mentre l’ironia come matrice di ogni fenomeno di dissimulazione porta a un abbassamento di tono, il sarcasmo esaspera. Potremmo dire che l’ironia è imparentata con la dissimulazione onesta, mentre il sarcasmo è un’arma in mano alla simulazione disonesta. L’ironia richiede un complice. Il sarcasmo una vittima. Questo accade per tante ragioni, ma una su tutte ci dovrebbe interessare: l’ironia è sempre un fenomeno che nei suoi fini è polemico e/o ludico. Il sarcasmo veicolato dai media riduce l’atteggiamento ironico a un fenomeno unicamente polemico e si serve della leggerezza ludica per mascherare questa sua natura violenta. In tal senso, il sarcasmo odierno è imparentato con un dispositivo politico ancora poco studiato: quello in cui il re e il buffone, il sovrano e il trickster sono la stessa persona. Quando accade, il sovrano non ha solo la prima o l’ultima parola, ma domina l’intero ordine del discorso. In una nota del suo corso sugli anormali, richiamandosi alle ricerche antropologiche di Pierre Clastres presso gli indiani Guaranì, Michel Foucault circoscrive questo dispositivo con un’espressione intensa e sintomatica: la sovranità infame. Siamo entrati in un periodo dove la sovranità non ha più bisogno di solennità, ma di infamia. Questo stravolge il rapporto, ancora rassicurante, amico-nemico che secondo Carl Schmitt definisce il politico, introducendo una terza categoria: l’inimicus, ovvero il fratello nemico, presupposto di ogni guerra civile. Lo vediamo tutti i giorni, ma crediamo di tutelarci dietro un contro-sarcasmo, alzando le spalle e ridendo. Ma non ci accorgiamo che lo stiamo facendo davanti a uno specchio.
L’ironia in quanto “dissimulazione onesta” necessita del riconoscimento dell’altro. È perciò un antidoto alla relazione amico-nemico che tende a cancellare, a distruggere l’altro, e apre invece al conflitto generativo tra le differenze. Una condizione impegnativa, che sfida la nostra fisiologica ambiguità, e tuttavia ineludibile per superare la violenza e l’indifferenza nei rapporti tra le persone.
Non è un caso, come si diceva prima, che l’ironia sia un qualcosa che sfugge alle definizioni. Si aggira tra i concetti e genera quella che al Platone del Sofista apparve come un’indecisione mortale. In un libro magistrale del 1936, Vladimir Jankélevitch, definisce l’ironia in un modo decisivo e insuperato: l’ironia è la coscienza. Perché l’ironia è la coscienza? Perché fa sì che io non mi prenda sul serio. Perché fa uscire il mio pensiero dall’autoreferenzialità. Uscire dall’autoreferenzialità è la condizione affinché un pensiero esista. Non basta dire cogito ergo sum, penso dunque sono, occorre aggiungervi una “r”: cogitor ergo sum, sono pensato, dunque sono. Questo semplice slittamento ci fa capire che là fuori c’è l’altro. L’asse cartesiano vacilla, ma è inevitabile. Non a caso, anche per chi si occupa di retorica, il discorso ironico è quello che richiede ben più di una partecipazione del lettore o dell’ascoltatore. Richiede la sua complicità. Ma questo significa, al tempo stesso, che questa complicità si costruisce man mano, scontando il rischio del malinteso. Ecco perché il principio su cui si fonda la comunicazione – di cui l’ironia è una sorta di paradigma – è paradossalmente il malinteso, ossia quell’incidente di percorso, sempre possibile, che ci ricorda che l’altro è là, non come semplice fruitore passivo, ma come complice.
Ironia, malinteso, conflitto, emergono come cardini della comunicazione.
La comunicazione è un tentativo di fare comunità, ma spesso ci confrontiamo con situazioni molto diverse, al limite non del malinteso ma dello sfinimento e dello sfibramento della comunicazione. La comunicazione viene disossata e perde di senso. Pensiamo alla dimensione burocratica della comunicazione – l’antilingua, così la definiva Italo Calvino – che è sostanzialmente una sorta di continua perdita di senso e di significato ed è tipica di organizzazioni che magari non hanno perso il rapporto con le proprie radici, ma hanno rinunciato a situare certe istanze nel tempo presente. Questo è vero anche per il tema del conflitto, che ha sempre una sua dimensione ironica. Senza questa dimensione, si cade nella più bruta violenza che è, letteralmente, prendere ogni cosa alla lettera. Propongo, per il futuro, di concentrarci di più su questi elementi di senso per capire la dimensione politica dell’ironia. Una dimensione che, riprendendo Jankélevitch, anche in condizioni estreme, propone continuamente la possibilità che una coscienza si dia, che un senso si trovi, che un conflitto possa risolversi in ben altro che in qualche nota sulla rassegna stampa. Jankélevitch ci dice che il problema dell’ironia è un po’ come quello della tela di Penelope che cuce e disfa al tempo stesso. Apparentemente è lo stesso movimento di Sisifo che porta la sua roccia su un promontorio e poi la vede cadere. Ma nel lavorio di Penelope c’è ironia, c’è senso e c’è conflitto. In Sisifo solo rassegnata disperazione.
L’ironia ha una certa affinità con l’umorismo. Luigi Pirandello non solo scrisse un saggio in proposito nel 1908, ma tutta la sua produzione drammaturgica è attraversata da ironia e umorismo che egli definisce “il sentimento del contrario”.
Ricorda Jankélévitch che «chi fa dell’umorismo e dell’ironia due categorie concettualmente separate e ci impone di scegliere fra esse, ci imprigiona in un ultimatum un po’ caricaturale, perché è proprio di queste attitudini della coscienza di diventare tendenzialmente evanescenti, nebulose, e sconfinare l’una nell’altra, interferendo tra loro». Umberto Eco rimarca che quello di Pirandello sull’umorismo è un saggio mancato, ma è in realtà una sorta di pièce in cui l’autore ci racconta l’impossibilità di circoscrivere drasticamente alcuni fenomeni, tra i quali l’ironia. Ma c’è un elemento interessante in questo testo di Pirandello, che peraltro venne molto contestato da Benedetto Croce che affermava che l’ironia al massimo può afferire alla sfera psicologica. Pirandello dice che esiste un transito sempre possibile dal comico – qualcosa che mi fa ridere punto e basta – all’umoristico. Ciò avviene proprio attraverso l’ironia, e avviene nel momento in cui il riso in qualche modo tocca la pietà. Nell’umorismo non si ride, anzi si finisce per piangere; c’è una dimensione di empatia con l’altro che provoca quel grande paradosso che, a un certo punto, porta il comico a non farmi ridere, mentre l’umoristico per sua natura può non farmi ridere, ma piangere.
Il teatro serve ad attraversare le frontiere fra te e me, diceva Jerzy Grotowsky, regista ed esponente dell’avanguardia teatrale del Novecento.
Il teatro è un modo per sentire l’altro, la tragedia greca non a caso doveva avere la catarsi perché altrimenti diventava come certe serie di Netflix che sono tragedie senza catarsi, capaci però di innescare un cattivo e perverso contagio mimetico negli spettatori. L’«avvertimento del contrario», che secondo Pirandello caratterizzerebbe il fenomeno, diventa un semplice contrario, senza alcun avvertimento. Senza coscienza del rovesciamento. Un prendere, nuovamente, le parole senza però collegarle alle cose. Credo si stia assistendo a una forma di dissociazione patologica della comunicazione dall’ironia. Ma la dimensione ironica della comunicazione – chiamiamola anche umoristica, forzando il ragionamento raffinato di Pirandello – rende me, quando esco dai panni dell’altro, quando sono riuscito a sentire anche solo per un istante l’altro, più consapevole di questo meccanismo di alterità che deve contraddistinguere ogni comunicazione.
L’empatia è la dimensione costitutiva del teatro, è la quinta parete che pochi riescono ad abbattere. Pirandello con I sei personaggi in cerca d’autore l’ha fatto. Ci troviamo quindi a doverci rapportare con il fenomeno ironico in un continuo rovesciamento, perché l’ironia la pensiamo legata solo a qualcosa che mi porta a ridere. La leggerezza è molto seria. È come il gioco. In fondo, come insegnava Eco, «se si ride, si sorride, si scherza, si architettano sublimi strategie del risibile – e siamo l’unica specie a farlo, poiché sono esclusi da questa sorte gli animali e gli angeli – è perché siamo l’unica specie che, non essendo immortale, sa di non esserlo. Il cane vede altri cani morire, ma non sa – almeno non per forza di sillogismo – che anche lui è mortale. Socrate lo sa. Ed è perché lo sa che è capace di ironia».