Vent’anni che scrivo e mi sembra di parlare ai muri.
Non sono stato colto da un improvviso attacco di sconforto. Questa frase è apparsa qualche anno fa su un muro della mia città. A scriverla è stato Zeb, un artista graffitaro. Gli esempi di ironia sui muri o nei gabinetti di scuole e autogrill sono tanti. Sarebbe divertente stilarne un catalogo. Le tematiche che affrontano sono le più varie. C’è l’ironia sentimentale: Ci credi nell’amore a prima vista o te devo ripassa’ davanti?; quella teologica: Ma Dio c’è o ci fa?; quella sociale: Il mondo non è brutto, è solo mal frequentato; quella psicologica: Stabile come i pomodori sulla bruschetta; e perfino quella neurologica: Non è che perdono. È che non mi ricordo un cazzo.
Tutte le categorie dello scibile vengono affrontate, scomposte e derise implacabilmente. Si tratta, in questi casi, di ironia volontaria. Ma l’ironia può essere anche involontaria. Frasi matte, come le chiama Stefano Bartezzaghi che ne ha raccolte un gran numero nel suo libro intitolato, scegliendo forse la più bella, Non ne ho la più squallida idea.
Anche Achille Campanile nel Trattato delle barzellette riporta una gran quantità di casi di ironia involontaria. Ve ne riporto alcuni esempi:
- alla reception di un albergo: “obbligo di mangiare quando si dorme”;
- alla porta d’un ufficio comunale: “Decessi. Si prega di aspettare il proprio turno”;
- per i soci di un circolo: “Sono vietati i giochi proibiti”;
- all’ingresso di un cantiere: “Vietato entrare in ora non permessa”;
- nel programma di un concerto intitolato Canto del condannato a morte: “Allegretto ma non troppo”;
- all’interno di un libro di Proudhon intitolato La proprietà è un furto: “I diritti di proprietà sono salvaguardati dalle vigenti leggi”.
Un caso insuperabile di ironia involontaria si trovava (in seguito fu corretto) nel piccolo Comune di Calci, vicino Pisa. Nella piazza principale un monumento ricordava i caduti nella Prima Guerra Mondiale con la scritta: “Calci ai caduti”.
E, per finire, due esempi, non si sa se volontari o involontari, che risalgono al ventennio. Il primo fu il beneagurante refuso “Via il Fascismo” apparso erroneamente più volte in luogo di “Viva il Fascismo”. Il secondo si verificò in occasione di una delle tante visite del duce in giro per l’Italia. Questi eventi venivano preparati tappezzando i muri di scritte invocanti il suo arrivo. Accadde così che una volta, in una città in felice attesa, apparisse la scritta “Vieni presto, Duce, ti aspettiamo!”. Purtroppo, il muro su cui quella scritta era stata dipinta a grandi lettere era quello del cimitero.
L’ironia è un arcipelago e i suoi confini sono incerti e mutevoli. Un passo è sufficiente per entrare nel territorio dell’Umorismo o del Comico ed è facile imbattersi nel Sarcasmo, nello Scherno, nel Dileggio, nel Beffardo, nel Burlesco, nel Canzonatorio. Dobbiamo quindi fare un passo indietro e cercare prima di tutto di capire che cosa sia.
Per Romain Gary, che ovviamente si riferiva a quella volontaria: «L’ironia è una dichiarazione di dignità. È l’affermazione della superiorità dell’essere umano su quello che gli capita».
Un buon dizionario si sforza di essere più preciso (anche se meno poetico) e afferma che può essere principalmente due cose: un atteggiamento o una figura retorica.
L’ironia come “atteggiamento” si verifica tutte le volte che attribuiamo un’importanza minore del giusto a noi stessi, alla nostra situazione, o a cose e persone che sono in stretto rapporto con noi. Ne è emblematica l’ironia socratica, cioè la sottovalutazione che Socrate faceva di sé stesso dichiarandosi ignorante; un atteggiamento che gli permetteva poi di smascherare la presunzione degli interlocutori. Non è casuale il fatto che questa particolare forma di ironia non abbia riscosso gran fortuna presso homo sapiens, tanto che Aristotele sostenne, non senza ragione, che si trattasse di una simulazione e San Tommaso che fosse addirittura una menzogna.
L’ironia come “figura retorica” consiste invece nell’usare parole di significato contrario a ciò che si pensa. Eccone due celebri definizioni. Giovanni Boccaccio: «per vocabolo contrario mostrando quello che egli intende di dimostrare». Vincenzo Monti: «L’ironia, che vale lo stesso che “dissimulazione”, è una figura a due facce, la quale significa il contrario di quello che suonano le parole».
Il dizionario elenca anche altri significati minori: l’ironia come dissimulazione del proprio pensiero espressa con parole di tono derisorio o paradossale, e la cui vera intenzione è biasimare o giudicare qualcuno o qualcosa; l’ironia come beffa; l’ironia come atteggiamento d’artista che rappresenta la realtà con accenti di sdegno civile, di satira, di sarcasmo. Poi, en passant, fa un’importante rivelazione: il più grande maestro di ironia è il tempo. Le espressioni “ironia della sorte” e “ironia del destino” rivelano che non possiamo sottrarci al tempo che inevitabilmente trasformerà le nostre serietà in cose da sorridere. Il tempo cioè, ci guarda con la stessa espressione della Gioconda.
Da questo punto di vista quindi soltanto il tempo ha i titoli per trattare l’ironia. Cosa che in effetti fa dandocene lezioni quotidiane, senonché noi sapiens siamo allievi distratti.
Ma torniamo al punto. Se l’ironia è il nobile atteggiamento col quale attribuiamo poca importanza a noi stessi e a ciò che ci riguarda, incappiamo subito in una difficoltà insormontabile. La nostra specie che si è autodefinita sapiens e, più recentemente, addirittura sapiens sapiens, cioè sapiens al quadrato, non pare la candidata migliore per fregiarsi del titolo di specie ironica.
La possibilità che definirsi sapiens sia stata una mossa retorica, e dunque ironica nel secondo senso, infatti, è molto remota. Se così fosse “sapiens” starebbe per “stultus”, “asinus”, e la definizione avrebbe un tono derisorio che nessuno però ha mai percepito. Così, nonostante le incontrovertibili prove della nostra insipienza, restiamo affezionati all’idea di essere “sapiens sapiens”.
Inoltre, dal momento che anche l’ironia che si esprime tramite l’atteggiamento, può essere rivolta verso sé stessi oppure verso gli altri, è facile osservare che finché si tratta di dare importanza minore del giusto agli altri non abbiamo difficoltà, ma quando si tratta di farlo con noi improvvisamente diventiamo poco socratici: i muscoli del volto hanno una paresi e si rifiutano di sorridere. Insomma, quando vediamo qualcuno cadere ridiamo di gusto, ma quando siamo noi a finire col sedere per terra dalla nostra bocca usciranno soltanto amare riflessioni.
Homo sapiens cioè ha notevole predisposizione ad esercitare questo tipo di ironia volontaria sugli altri e involontaria su di sé. Manifesta invece grosse difficoltà nell’ironia volontaria su sé stessi. Molte altre creature hanno più titoli dei sapiens sapiens per aspirare alla qualifica di “ironiche”. Basti pensare all’olimpica noncuranza delle farfalle o delle cicale, alla generosità delle api e delle formiche, alla pigrizia dell’orso, al nichilismo del bradipo, alla scelta di non violenza degli alberi: tutte queste creature sì, attribuiscono poca importanza a sé stesse. Perciò, visto che l’autoironia è un fenomeno raro, ce ne occuperemo per ultimo.
Tornando all’ironia di secondo tipo, cioè alla capacità di usare parole di significato opposto a quello che si pensa, è evidente a tutti che si tratta di una facoltà di cui noi sapiens siamo invece straordinariamente dotati. Essa ci fornisce interessanti alternative da utilizzare nelle nostre interazioni verbali. Per limitarci alle principali strategie che abbiamo a disposizione per manipolare il prossimo possiamo citare:
- non dire ciò che pensiamo;
- dire ciò che non pensiamo;
- dire l’opposto di ciò che pensiamo;
- pensare ciò che non diciamo;
- non pensare ciò che diciamo.
Sorvoliamo, per ora, su quest’ultimo caso. La stupidità, che secondo Schiller neanche gli dèi sono in grado di contrastare, è un argomento troppo vasto. Mi limiterò a darvene un breve cenno alla fine. Concentriamoci invece sui primi quattro casi: essi illustrano alla perfezione il paradosso per cui per determinare cosa noi sapiens pensiamo davvero, a volte si debba dar fede alle nostre parole e altre volte sia necessario pensare all’esatto contrario. La nostra abilità nell’usarli, infatti, è tale che nessuno è stato in grado di trovare le regole che permettono di stabilire con certezza quando si può fidarsi di noi e quando è meglio diffidare.
Questo determina la caratteristica confusione fra vero e falso, sincerità e ipocrisia, tipica del nostro pianeta. Altre creature hanno la camaleontica virtù di sembrare diverse da ciò che sono, ma solo noi sapiens siamo capaci di dire una cosa che non pensiamo e poi di fare qualcosa che non abbiamo né detto né pensato. Noi stessi, del resto, a volte non sappiamo se ciò che diciamo è ciò che pensiamo e anzi, a volte non sappiamo neanche cosa pensiamo o addirittura parliamo a vanvera di cose che non siamo capaci neanche di pensare.
Ci sono soltanto due modi per determinare cosa pensiamo noi sapiens. Il primo è tirare a sorte per decidere se abbiamo mentito o eravamo sinceri; il secondo è controllare se c’è stata corrispondenza fra ciò che abbiamo detto e ciò che abbiamo fatto. Applicando queste due regole, essendo rarissimo il caso in cui si dice ciò che si pensa e poi effettivamente lo si faccia, si è riusciti a catalogare i comportamenti principali di noi sapiens che sono:
- pensare una cosa, dirne un’altra e farne un’altra ancora;
- pensare una cosa, dirne un’altra e fare ciò che si è pensato;
- pensare una cosa e dire e farne un’altra;
- pensare e dire una cosa ma poi farne un’altra.
Noi Sapiens dedichiamo gran parte del nostro tempo a questi tipi d’ironia. E i motivi per cui lo facciamo sono chiari. Per prima cosa ci liberano dall’obbligo insensato di “dire la verità”. Un compito che, oltre a non rientrare nelle nostre possibilità, rischierebbe di mandare a monte i nostri progetti, che siano sentimentali o di carriera. Ci liberano poi dall’obbligo di “dire tutta la verità”; una circostanza che, ove si verificasse, determinerebbe una quantità insopportabile di scandali. Infine, ci esimono dall’ultimo obbligo, quello che recita “dire nient’altro che la verità”: un’imposizione che ci condannerebbe ad un ergastolo nella prigione della noia.
Insomma, è il caso di dire che fra noi sapiens e la verità non corre buon sangue.
Comunque, ridendo e scherzando, abbiamo scoperto, e non è un paradosso privo di conseguenze, che in quanto sapiens siamo e al tempo stesso non siamo capaci di ironia: non siamo particolarmente dotati di ironia come atteggiamento, mentre siamo abbondantemente dotati di ironia come capacità retorica. Se però ci fermassimo qui l’immagine di noi sapiens che avremmo dipinto sarebbe quella di persone piuttosto antipatiche, per niente portate all’autoironia, piene di sé, dalle straordinarie capacità istrioniche, di cui è impossibile fidarsi.
Anche se mi sembra di riconoscere la fisionomia di qualcuno che conosco bene perché gli faccio la barba tutti i giorni, al tempo stesso so di non aver reso giustizia a tutti i possibili significati contenuti nella parola ironia. Del resto, Leonardo Sciascia, che se ne intendeva, ha scritto: “Nulla è più difficile da capire, più indecifrabile, dell’ironia”.
Chissà se può aiutarci la filosofia? Una bella definizione in effetti ce la fornisce Richard Rorty che sostiene che l’«ironico è uno che si chiede continuamente se non sia stato inserito nella tribù sbagliata», uno che «guarda a viso aperto la contingenza delle sue credenze e dei suoi desideri» ed ha «abbandonato l’idea che tali credenze e desideri rimandino a qualcosa che sfugge al tempo e al caso». L’ironico di Rorty ha tre caratteristiche: «1. Nutre profondi dubbi sul suo attuale vocabolario decisivo perché è stato colpito da altri vocabolari», decisivi per altre persone; «2. Sa che i suoi dubbi non possono essere né confermati né sciolti da argomenti formulati nel suo attuale vocabolario; 3. non ritiene che il proprio vocabolario sia più vicino alla realtà degli altri» e sa che nessuna autorità esterna lo autorizza.
Inoltre, l’ironia da sola, e Rorty lo sottolinea, è pericolosa: può essere usata anche per fare il male o per allontanarci dagli altri esseri umani. In fondo, anche la scritta sul cancello d’ingresso di Auschwitz, “Il lavoro rende liberi”, era ironia. Per questo motivo le accosta altre due parole: “liberale” e “solidarietà”. Liberale è colui che pensa «che la crudeltà sia il nostro peggior misfatto» e gli ironici liberali sono «coloro che hanno la speranza che la sofferenza possa diminuire e che possa aver fine l’umiliazione subita dagli esseri umani a causa di altri esseri umani». L’ironico di Rorty è cioè un “sapiens” che sa di essere anche, almeno un poco, “asinus”.
Questo è certo un passo avanti. Ma non è ancora tutto. Chissà se può aiutarci la letteratura? Milan Kundera non dà una definizione di ironia ma ci indica dove la si può trovare in grande quantità e cioè nel romanzo, perché il romanzo, «la grande forma della prosa in cui l’autore, attraverso degli io sperimentali, esamina fino in fondo alcuni grandi temi dell’esistenza», è l’arte ironica per eccellenza.
«Chi ha ragione e chi ha torto? – scrive Milan Kundera – Emma Bovary è insopportabile oppure coraggiosa e commovente? Werther è sensibile e nobile oppure un sentimentale aggressivo, innamorato di sé stesso? Più si legge il romanzo con attenzione, più la risposta diventa impossibile perché, per definizione, il romanzo è l’arte ironica: la sua «verità» è nascosta, non pronunciata, non-pronunciabile. […] L’ironia irrita. Non perché si faccia beffe o attacchi, ma perché ci priva delle certezze svelando il mondo come ambiguità».
Anche se ha il difetto di indurci a pensare che l’ironia abbia dovuto attendere la nascita del romanzo per essere scoperta – mentre sappiamo che era praticata già abbondantemente nel teatro, nella filosofia, nel gioco, nel canto e in mille altre forme popolari della convivenza – questo di Kundera è comunque un suggerimento prezioso.
Grazie a lui, infatti, gli esempi si affollano alla mia mente. Mi sovvengono ironie di tutti i tipi: Amleto che per sopportare la propria paura sbeffeggia Polonio e si prende gioco di Rosencrantz e Guildestern; Sheheraz’had che supera la paura che le venga tagliata la testa prendendosi gioco della gelosia del Visir; Pinocchio che ci insegna a mentire per la paura di diventare sia asinus che sapiens; Ennio Flaiano che in pieno ’68 si fa questa domanda: “L’immaginazione al potere. Ma quale immaginazione accetterà poi di restarvi?”; René Magritte che crea un quadro raffigurante una pipa e lo intitola “Ceci n’est pas une pipe”; Samuel Beckett che scrive: “Tornai a casa e mi misi a scrivere. «È mezzanotte. La pioggia batte sui vetri». Non era mezzanotte. Non pioveva”. Quindi, poiché il tempo oltre che ironico è prezioso e non ho l’illusione di poter definire l’ironia, ve ne propongo piuttosto alcuni buoni esempi. Credo che chi di voi, come il sottoscritto, ancora non sa se appartiene alla tribù dei sapiens o a quella degli asinus ne potrà apprezzare qualche indicazione di comportamento.
Primo esempio: Antonio Clemente
Fu nel 1916 e proprio nella mia città, Livorno, che un giovane, Antonio Clemente, stabilì una bipartizione del genere umano maschile che è diventata celebre. Quel giovane si fece una domanda che vale per tutti noi: Siamo uomini o caporali?
Antonio, che solo in seguito si chiamerà De Curtis, si trovava a Livorno per scontarvi il servizio militare e aveva avuto un incontro fatale con un caporale. Costui lo aveva preso di mira e lo angariava con corvè assurde. Fu perciò per spirito di sopravvivenza che Antonio concepì questa domanda che aiutò lui e i suoi compagni di sventura a conservare il bene prezioso della libertà interiore. Dopo pochi anni questa frase ironica divenne – e lo rimase per decenni – il tormentone più famoso per milioni di italiani che erano alle prese con altre, ben più sciagurate, stupidaggini e prepotenze.
Ciò che ho detto finora è un tentativo di sviluppare l’intuizione di quell’uomo, universalmente noto col nome di Totò, e, in particolare, di sondare le potenzialità euristiche di quella bipartizione una volta che venga applicata all’intera specie sapiens sapiens.
Secondo esempio: Achille Campanile
In una commedia intitolata “Autoritratto” si immaginò di venire intervistato dalla Storia e dichiarò di avere «finora» scritto «2528 lavori teatrali e un numero imprecisato di scene e scenette varie, duemila circa in due sole battute e una tragedia in cinque atti». Scrisse inoltre un “Trattato delle barzellette”, un “Manuale di conversazione” e libri dal titolo insuperabile come “Asparagi e immortalità dell’anima”. Pietro Pancrazi ha scritto che quello di Campanile era il più vuoto, il più inutile degli umorismi e che proprio per questo era l’umorismo perfetto. Enzo Siciliano rafforzò il concetto: in Campanile il riso rifletteva l’inutilità di sé stesso.
L’inutilità è un concetto che si sente spesso citare a proposito dell’ironia col chiaro intento di sminuirne l’importanza mentre invece complimento migliore non potrebbe esserle fatto. Quando infatti di qualcosa o qualcuno si dice che è inutile si certifica il suo “non servire a niente e a nessuno”. E non servire è la condizione indispensabile per essere liberi.
Detto questo a onore dell’inutilità, non credo affatto però che riso, sorriso e ironia, siano inutili, e adesso proverò a dire perché.
Temple Grandin, una straordinaria zoologa autistica, sostiene che la cosa peggiore che si possa fare a un qualsiasi animale è di spaventarlo. L’animale terrorizzato è un animale che soffre, incapace di amare, impossibile da educare, spesso aggressivo e causa di enormi guai per sé e per gli altri. Sono personalmente convinto che questa osservazione valga anche per homo sapiens e per homo asinus. Sia sapiens che asinus quando vengono spaventati non sono più in grado di fare o di comprendere l’ironia, l’umorismo, la comicità, cioè gli anticorpi e il sistema immunitario che ci difendono dalla paura. L’originale punto di vista di Temple Grandin ci permette di capire che il contrario dell’ironia non è, come avremmo pensato, la serietà, ma la paura; e che perciò il contrario della paura non è il coraggio, ma l’ironia.
Ecco dov’è l’utilità dell’ironia: essa ci aiuta a sopportare le paure giuste e a evitare che diventino terrore. Inoltre, ci fa comprendere perché tutti coloro che utilizzano la paura per prendere il potere, l’ironia la temono.
Terzo esempio: Una relazione per un’Accademia, Franz Kafka.
«Illustri signori dell’Accademia! Mi avete fatto l’onore d’invitarmi a presentare all’Accademia una relazione sulla mia trascorsa vita di scimmia. Non posso purtroppo soddisfare completamente in questo senso la richiesta. Quasi cinque anni mi separano dalla mia vita di scimmia, un periodo breve forse, se misurato sul calendario, infinitamente lungo però a passarlo a galoppo, come ho fatto io […] In un senso molto limitato però posso soddisfare forse la vostra richiesta e lo faccio anzi con molto piacere […] Se do uno sguardo alla mia evoluzione e alla mèta raggiunta finora, non mi lamento, né mi dichiaro soddisfatto. Con le mani in tasca, la bottiglia sulla tavola, me ne sto mezzo sdraiato e mezzo a sedere sulla mia seggiola a dondolo guardando fuori della finestra. Se vengono visite, le ricevo come si conviene. Il mio impresario è nell’anticamera; se suono si presenta per sentire cosa ho da dirgli. La sera c’è quasi sempre spettacolo, e io ho successi difficilmente superabili. Se a tarda notte torno a casa, dopo banchetti, riunioni scientifiche, cordiali trattenimenti con amici, una piccola scimpanzè mezza addomesticata, mi attende, ed io me la spasso con lei alla maniera delle scimmie. Di giorno non la voglio vedere perché ha negli occhi lo sguardo spiritato degli animali ammaestrati; io solo me ne accorgo e non lo posso sopportare. Nell’insieme sono comunque riuscito a ottenere quel che volevo. Non mi si dica che non ne valeva la pena. Del resto, non chiedo nessun giudizio umano, non voglio che divulgare delle cognizioni, non faccio che riferire. Anche a voi, illustri signori dell’Accademia, non ho fatto che una relazione».
J. M. Coetzee ha notato che «Non sappiamo con certezza, che cosa succeda davvero» in questo racconto: «se sia un uomo a parlare agli uomini o una scimmia a parlare alle scimmie o una scimmia a parlare agli uomini o un uomo a parlare alle scimmie». Tradotto nella nostra terminologia: non sappiamo se sia un asinus a parlare a degli asini o un asinus a parlare a dei sapiens o un sapiens a parlare a degli asini o un sapiens a parlare ai sapientes. Cioè, nei termini della mia imbarazzante situazione attuale, e tenendo voi indenni da ogni illazione: sono io un asinus o un sapiens?
Quarto esempio: Petrolini.
Tra tutti gli esempi di asinus quello di Petrolini è il mio preferito. Pietro Pancrazi ha scritto che «Petrolini ha avuto il coraggio di essere idiota; apertamente, liberamente e allegramente idiota; più idiota che poteva». Era forse il più grande attore italiano del Novecento e fu un maestro di ironia: non solo non temeva la propria asineria ma la considerava una formidabile alleata. Ascoltiamolo nel “Discorso dell’attor comico”:
«Ho recitato nella mia vita delle cose stupidissime che avevano soltanto il torto di non essere a quel punto di imbecillità che desideravo e che, alla fine, per ottenerlo, dovetti inventare da me. Nel periodo di musoneria italiana in cui un buon attore non era considerato tale se non si prestava alle parti lacrimose, io passai come un buffone distinto. Mi venivano a sentire per esclamare: «Quanto è scemo!». Io, in quel tempo, inventai il mio motto: «più stupidi di così si muore» […] Molti critici mi proclamarono l’interprete della idiozia sublime, di quella idiozia che è la sola fuga possibile da questo mondo troppo logico, dove esistono troppe cose insolubili e troppe domande senza risposta; […] ho fatto, nei primi anni della mia vita, di tutto […] Fu una vita selvaggia, allegra e guitta, e un’educazione a tutti i trucchi e a tutti i funambolismi. Ho imparato in questa mia esperienza a sondare la stupidaggine, ad anatomizzare la puerilità, a vivisezionare il grottesco e l’imbecillità del nostro prossimo, per arricchire il museo della cretineria. Il sentimentalismo odioso, la prosopopea, il tragicismo ad agni costo, mi hanno attratto irresistibilmente; e la boria presuntuosa di qualche attore del teatro così detto serio, mi ha fornito molto materiale umoristico per il mio teatro […] Il mio ideale era ormai la creazione dell’imbecille di statura ciclopica».
Il “museo della cretineria”. Quello di Petrolini è il programma artistico più straordinariamente ironico che conosca. Petrolini, proprio come Gustave Flaubert che in “Bouvard e Pécuchet” si impegnò nell’impresa eroica di rappresentare l’ubiquità dell’idiozia, si proponeva di fare esattamente ciò che fa il Tempo, cioè dimostrare che gli stupidi più stupidi di così si muore, siamo noi.
Fossimo coraggiosi dovremmo raccogliere la sfida di Petrolini: la nostra stupidità merita di essere anatomizzata, la nostra asineria ha diritto ad avere il proprio museo. Non quello en plein air che già si trova in ogni città o quello contenuto nei nostri telefoni portatili, perché è vero che vi si posson vedere e ascoltare scemenze di ogni specie, ma è anche vero che si tratta soprattutto di scemenze mediocri. Possiamo invece pensare in grande e aspirare all’eccellenza: nel museo della cretineria che la nostra specie si merita testimonieremo solo i capolavori della stupidità. Faremo un Louvre della cretineria, un Palazzo Pitti degli asini. Ci porteremo i bambini perché imparino che in ogni sapiens c’è un asinus (anche se non è vero il contrario) e che quindi, nella più rosea delle ipotesi, la nostra specie è asinus sapiens. Passeggiando per le vaste sale di questo museo dell’umano impareremmo a conoscerci meglio e a diffidare dei sapiens che non sopportano il dubbio, che per noi asini è una certezza, di essere cretini.
Quando è ormai prossimo al termine del suo magico viaggio, Dante viene informato da Beatrice sulle gerarchie angeliche: esse coincidono con la descrizione che ne aveva fatta Dionigi e che era stata contestata da San Gregorio Magno. Proprio per questo – prosegue Beatrice –, appena giunto in Paradiso e scoperto il proprio errore, Gregorio:
… sì tosto come li occhi aperse
in questo ciel, di se medesmo rise
Queste parole le scriveremo all’ingresso, perché non esiste augurio migliore: scoprire la propria asineria e ammetterla. Quel museo sarà per noi come il paradiso per San Gregorio, ci sveglieremo e, anziché specchiarci nell’orgoglio, di noi rideremo.
In quel museo si documenterà che molti secoli fa si decise di aprire un’indagine sull’intelligenza e sulla stupidità. A tal fine si convocò una grande assemblea in uno spiazzo all’aperto. Là, sotto un cielo stellato, una comunità decise di mandare dei pionieri in esplorazione chiedendo loro di fingere di essere altre persone. Perché «la conoscenza che possiamo raggiungere di noi stessi si può ottenere solo tramite interposta persona, con una frequentazione immaginaria» (Louis Jouvet). Questi pionieri si chiamavano attori e spettatori, quel luogo si chiamava teatro. Chi aveva ragione e chi aveva torto? Antigone o Creonte, Edipo o Tebe? Più si fa teatro, più la risposta diventa impossibile perché, per definizione, il teatro è arte ironica. Per questo irrita, perché ci priva di ogni certezza – soprattutto della certezza di essere sapiens sapiens – e svela il mondo come ambiguità.
Qualcuno dice che gli stupidi non possono riconoscersi come tali perché non è stato inventato uno specchio in cui essi possano ravvisare riflesse le proprie fattezze. Chi dice questo non conosce il teatro.
Poiché però rischio di scivolare verso territori seri, inadatti per una scimmia e un asino quale sono, torno al teatro e a Totò per tentar di rispondere alla sua domanda: siamo uomini o caporali?
Giunto al termine di questa relazione, vi propongo di correggere la formula di Totò. Non dovremo più chiederci se “siamo uomini o caporali”, ma ammettere orgogliosi che “siamo uomini e caporali”, siamo asinus e sapiens, siamo asinus sapiens. Sapendolo potremo dedicarci con cura ad aumentare il solo PIL che può salvare la nostra specie: la Produzione di Ironia Lorda.