Klondike

Autore

Fausto
Nato a Trento nel 1998, ha studiato filosofia presso le Università di Trento e Bologna. Da sempre appassionato di letteratura e osservatore del mondo naturale.

«Credevi che vi avrebbero lasciati sparare per sempre?».
«Io non sono uno di quegli ubriaconi con la tremarella, non ho mai sparato agli innocenti per la strada».
«Non cambia, Bobby. Anche tu sei un insofferente, non vuoi stare alle leggi del tuo popolo».

Il deserto era del colore della calce, tra le sue pietre e i cactus gonfi risuonavano malinconiche trombe mariachi. Bobby aveva distolto lo sguardo. Un movimento brusco del collo, le vene muscolose gonfiavano le macchie di terra secca che gli stavano addosso. Le grosse labbra tremanti tradivano l’offesa ricevuta.
In quel New Mexico sulla via della civilizzazione bisognava ingegnarsi sempre di più per campare, Bobby aveva scampato il cappio per miracolo e aveva deciso di andarsene, il nemico era troppo organizzato.
Adesso sbuffava e si grattava le tempie, scuotendo tutta la sua imponente corporatura. Dopo diverse ore di cammino aveva gli stivali più lerci che si fossero mai visti, pari ai cinquant’anni di sciocchezze che gli segnavano il volto appuntito. Girava a piedi perché gli avevano requisito il cavallo e da qualche tempo non era più capace di rubarne.
Almeno aveva compagnia: con gli ultimi risparmi aveva assoldato un Mowok che lo conducesse segretamente oltre il confine messicano. Si era intestardito a pagare tutto in anticipo, perché diceva che non avrebbe più usato un dollaro in vita sua. L’indiano aveva un nome complicato, che nella lingua indigena significava “giaguaro paziente”; dava tutta l’idea di esserlo. Bobby faticava a pronunciarlo, per questo aveva deciso di ribattezzarlo come “Lou”, il nome del più silenzioso dei suoi vecchi compagni. Lou si era occidentalizzato, insegnava la lingua dei nativi agli studiosi e li accompagnava nelle spedizioni come guida. Aveva un viso tondo e una perenne espressione di una dura nostalgia, due trecce sottilissime sbucavano dalla bombetta opaca. Mentre avanzavano nella polvere, le pupille scure erano vive nell’ascoltare le sventure di Bobby.

L’ultimo colpo sembrava architettato alla perfezione e doveva essere una sciocchezza: Los Lunas era una cittadina antica e decadente, sebbene florida per le manifatture in metallo che penzolavano da ogni bottega legnosa. Era piccola, sconnessa dal resto dello stato e con un solo sceriffo, conosciuto giusto per le sbronze e per il fatto di lasciare il giovane vice a sorvegliare la banca.
Bobby aveva assoldato i migliori ceffi sulla piazza, assicurava, senza contare il vero Lou e i complici di una vita. C’erano tutti, persino Snorty Cowen che restava sempre a casa, preso com’era dalla giovane moglie. «Anche perché era un codardo,» disse Bobby fermandosi «lo chiamavamo Snorty perché si addormentava sempre».
Poi sputò a terra e fissò intensamente la sua saliva restare immobile sullo sfondo sabbioso. Quando riprese a camminare, guardò in alto e barcollò per qualche passo, come se soffrisse di una vertigine delirante. I picchi dei monti arsi sembravano tremare e smaterializzarsi, per l’effetto di un miraggio solare. Non era la stanchezza o il caldo a colpire Bobby, ma l’amarezza per l’epilogo del racconto.

Quando la banda arrivò strafottente in vista della città, videro una schiera di civili armati con a capo una manciata di ranger. Li stavano aspettando. Il grasso sceriffo era stato evidentemente avvisato e aveva ottenuto l’aiuto del governo centrale: gli mancavano soltanto i cannoni. C’era da immischiarsi in una carneficina dall’altissimo coefficiente di fallimento, in più dovettero fuggire perché i protettori di Los Lunas si erano scagliati all’assalto. Ci volle metà giornata per seminarli e la banda criminale si sciolse subito dopo; da quel giorno, molti non avrebbero più toccato una pistola.
Bobby li malediceva e affermava che il suo passato criminale aveva iniziato ad essere conosciuto per colpa loro. Si sentiva osservato in ogni cittadina e non si azzardava di presentarsi alla frontiera, l’eterocromia degli occhi lo rendeva inconfondibile. Il destro riluceva di un verdognolo tenue, che tendeva alla paglia, mentre il sinistro era un lapislazzulo.
Vedendolo arrivare sotto il porticato dell’emporio, dove si erano dati appuntamento, Lou pensò di trovarsi di fronte all’incarnazione di uno sciamano o di uno spirito di Manitù. Se ne convinse ancor di più quando gli chiese di essere accompagnato nel deserto, nei luoghi ricordati soltanto da scorpioni e avvoltoi.
«Potrebbe piovere, tra poco». Disse Lou, guardando in alto dietro di sé, il viso scuro e rugoso era contratto in una smorfia di timore.
«Ma se c’è un sole del cazzo, mi spacca la nuca! e il cielo mi è sembrato sempre identico». Aveva risposto Bobby con voce divertita.
«Questo perché guardi e basta».
«E che diavolo dovrei fare, Lou, toccarlo?».
La mano muscolosa turbinava nell’aria e accompagnava la testa che scuoteva confusa. Lou sorrideva pacato, con la risposta pronta.
«No. Sento che il vento ha un profumo diverso, più umido».
Percorrevano un sentiero sterrato, roba di chissà quanti anni fa, che continuava a diramarsi inutilmente. Nessuno si era interessato ad aggiornare i tragitti e moltissime strade correvano in cerchio, poiché un tempo servivano a collegare una serie di fattorie, ormai inutilizzabili. Svoltarono a destra, come suggeriva un cartello pieno di pallottole.
«Un profumo, dici». Bobby allargava le narici, ma non sembravano soddisfatte dall’esperimento, allora stringeva le labbra perplesse.
«Sì. In più si è alzato, adesso muove le nuvole. Si sente risuonare meglio tra i rami». Lou si guardava intorno e, per un momento, si perse nelle sue stesse parole, con il viso rivolto verso l’alto e le palpebre chiuse. Il compagno si divertiva sempre di più e gli disse che non pensava di aver pagato anche per l’intrattenimento comico. Quando ebbe finito di ridere, disse:
«Uno che annusa l’aria e ascolta i tronchi, questa mi mancava. I grandi spiriti, vero?».
Il viso del Mowok si scurì, il suo tono faceva capire quanto rimpiangesse gli antropologi: «Adesso non esagerare, Bobby».
Il ghigno dell’altro era perfido, diede un morsetto alla sigaretta che si era portato alla bocca e cercò di provocarlo ancora:
«Mi sembra che sia tu ad esagerare, belle-treccine».
«Sempre meglio di te, con quei fili d’erba». Sbottò Lou, fermatosi nervoso nel mezzo del sentiero arido. Gli avrebbe tirato un cactus per riempire la stempiatura. Bobby si toccò il capo e si appoggiò ad un masso per rifiatare.
«È difficile invecchiare in questo mondo».
La stizza di Lou venne subito sostituita dal riso, una piccola rivincita.
«Puoi dirlo! Sei magro da far ribrezzo, chi vorresti spaventare così?».
Bobby si raddrizzò per riscattare l’orgoglio ferito, non avrebbe permesso altre mancanze di rispetto. Lo fissò negli occhi e gli puntò contro il dito, come a volergli insegnare la vita.
«La fame può portare a cose incredibili, e non si fermerà in New Mexico. Sarà sempre con me, anche quando mi sarò riempito la pancia».
Accompagnò la frase colpendosi il ventre con entrambe le mani. Era vuoto e non faceva un bel rumore.
Lou guardò l’orizzonte tristemente e quando vide la carcassa di un bufalo parve tranquillizzarsi, perché anche la miseria poteva essere grandiosa.

«Non so cosa ti aspetti oltre quel confine, Bobby, ma non penso che potrai saziarti come credi».
Il meteo stava cambiando davvero, il sole era diventato meno invasivo e chiudeva l’intera distesa arida nella penombra. Non illuminava più il sozzume incrostato sulla camicia e sulla barba ispida di Bobby, che ora sperava iniziasse a piovere per potersi dare una lavata e rimettere a nuovo gli stivali. Ma non ce ne fu bisogno, perché dietro una collinetta spelacchiata trovarono un fiume.
«È il Pecos,» disse Lou «stiamo per entrare nella provincia di Juareza. Diamoci una rinfrescata». Nemmeno il tempo di udire la risposta, Bobby si era fiondato nell’acqua cristallina di quel rio con un tonfo scoordinato. Si dibatteva con le correnti delicate galleggiando, e il suo passaggio era segnalato da una scia terrosa, che lentamente andava a depositarsi sul fondale. Lou si era tolto i pantaloni e il doppiopetto, sotto il quale non indossava nulla, camminava scalzo sul fondale e si scusava con i ciottoli per lo sporco. Poi si ripulì con attenzione e trasporto, come partecipasse a un rituale. Quando ebbe finito respirò a pieni polmoni, ringraziò il fiume, seguendone il corso con lo sguardo pensoso.
«Anni fa combatterono una battaglia su questo fiume. Ai tempi lo chiamavano ancora Rio Grande, come tre quarti dei fiumi del West».
Bobby poggiò i piedi a terra, con mezzo busto peloso all’asciutto.
«Parli del tuo popolo, Lou?».
Il Mowok era sprofondato nelle acque, lasciando Bobby con le braccia sui fianchi e il capo inclinato, a fare domande alle carpe iridate. Eppure, quando riemerse, si capì che aveva sentito tutto:
«No, quelli furono cacciati ancor prima. Da piccolo non permettevano nemmeno che mi avvicinassi a queste zone, dicevano ci fosse il diavolo bianco». Le braccia mimavano qualcosa di enorme e tentacolare, non si capiva se parlasse sul serio o ironizzasse sugli stereotipi, che per Bobby erano verità.
«Allora chi è stato?».
«Te l’ho detto, Bobby, il diavolo bianco. I messicani fecero saltare quel ponte, lo vedi?». Il sottile dito indiano aveva condotto gli sguardi a sinistra, qualche centinaio di metri più avanti. Ai tempi doveva essere stata una costruzione all’avanguardia, con i lineamenti d’acciaio lucente e bulloni grossi come le ruote di una diligenza, degna di poter accogliere il potere dei motori a vapore. Non l’avevano ricostruito da allora, per mancanza di fondi o come monito di guerra. Bobby era rimasto a bocca aperta, nel vedere le macerie rimaste ad ostacolare il fiume.
Con un cenno del capo grondante, palesò la sua curiosità a Lou che aveva ripreso, da brava guida: «Insomma, quelli dell’Unione volevano raggiungere una miniera, secondo i loro esperti ricchissima d’oro e pietre preziose».
«E i messicani non volevano».
«Esatto, allora il governatore diede pieni poteri al generale Diego, una merda umana ma un comandante geniale: fece saltare il ponte e massacrò l’esercito americano».
Bobby aveva strabuzzato gli occhi e scagliato un pugno all’acqua, non avendo un tavolo su cui battere il suo dissenso.
«Come? Un messicano che sconfigge l’Unione?».
Lou aveva sorriso voltandosi: «Immaginavo non ve l’avessero detto».
Si immerse come per chiudere il discorso, aveva nuotato per un po’ in direzione del ponte e per un istante scomparve alla vista. Quando tornò sbracciando, Bobby non aveva ancora superato la notizia.
«Quel Diego doveva essere davvero in gamba».
Lou alzò gli occhi sconsolati al cielo: «Era la malvagità fatta persona. Assomigliava a un demonio, gigante e con la chioma bruna scompigliata; sorrideva come un bastardo, pronto a rubarti tutto». Parlando come se lo conoscesse, si era scostato le trecce dalle spalle con violenza.
«Bel governatore, per un paese». Disse Bobby con ironia.
«Non lo fu a lungo, per fortuna. Diego credeva agli esperti americani. Diceva sempre che bisogna agire con il sangue caliente, ma con il pensiero di un occidentale».
Bobby continuava a stupirsi per la conoscenza del compagno, che trasformava un folle in un eroe epico. Quanto più si confondeva, tanto più s’incuriosiva.
«Tipo strano, per essere un messicano. Che significa?».
Lou allargò le braccia e piegò la testa.
«L’avevo letto su qualche libro. Non so come lo intendesse lui, quel che so è che fece morire una decina dei suoi uomini negli scavi presso la miniera».
«E come andò?». Incalzò Bobby, con ingordigia.
«In due settimane avevano trovato meno di un chilo d’oro, allora il governatore dovette intervenire e fermò gli scavi. Nessuno sentì più parlare del generale Diego».
Bobby abbassò gli occhi con un sospiro, avrebbe applaudito quel coraggio ma la smorfia era dispiaciuta. Si era avvicinato alla sponda e poi seduto sui ciottoli, con le caviglie allagate. Aveva raccolto da terra la camicia e si era asciugato le mani; erano tornate subito sporche. Aveva arrotolato due sigarette ma Lou aveva rifiutato la propria. Non avrebbe fumato prima di aver terminato la spedizione, la sua prima regola lavorativa. Gli dava alla testa e temeva che l’odore potesse essere percepito dalle bestie, oppure dagli ultimi indiani battaglieri.
Per qualche minuto fu il silenzio più assoluto, poi un fiammifero.
«Dov’è la miniera, Lou?». Ed uscì la prima nuvoletta vaporosa, che il vento deviò saggiamente verso il ponte reciso.
«Poco distante, in verità. Lo vedi, quel monte sulla sinistra?». Bobby sorrise alla vista delle vette, che non tremavano più e si stagliavano definite sul grigiore circostante.
«Quale, quello più alto o quello più robusto?».
Lou indicò a destra, il secondo. Aveva la forma di un tumulo squadrato, come un gigante mattone incastonato nella sabbia. Le rotaie arrugginite gli correvano affianco, ma non si capiva se lo penetrassero o se lo aggirassero. In ogni caso, erano sicuri che là dietro stesse l’ultima fermata, dove una volta caricavano le locomotive che tornavano ad est.
«Potremmo andarci, Lou». Bobby ammiccava con fare complice, non come avrebbe fatto con Snorty Cowen, ma con i grandi pistoleri. Lou si corrugò:
«A far che?».
«Come a far che? A scavare, a prenderci l’oro».
I movimenti di Bobby erano sempre più impazienti, continuava a guardarsi intorno, cercando il supporto di un pubblico immaginario. Fissava intensamente la destinazione, ogni tanto si voltava verso Lou nervosamente.
Il Mowok rispose subito, rivedendogli negli occhi quell’antico potere di Manitù: «Te l’assicuro, là non c’è niente».
Aveva un’espressione di scettico spavento. Quel posto era sostanzialmente un cimitero, perché con quella resa non si poteva parlare di una vera miniera. Nonostante gliel’avesse anche spiegato, Bobby aveva altro per la testa.
«Hanno scavato soltanto per due settimane, al primo colpo di piccone si apre la cassaforte, credimi».
Soltanto a nominare il desiderio asfissiante allargava la bocca, portandosi le mani al viso invasato e raggiante.
Lou cercava di dissuaderlo, in quell’uomo imperterrito vedeva la vecchia febbre dell’oro e la follia di non sapersi adattare. Non sapendo come convincerlo, cercò di essere diretto: «Laggiù non ci andrebbe nemmeno un disperato, sono finiti quei Klondike. Tanto vale cercare le pepite nel fiume».
La sua mano aveva fatto come per setacciare l’acqua e dato un rapido colpo di taglio, per accentuare la sua convinzione, ma fu scacciata da una sberla di Bobby, che puntò di nuovo il dito ossuto in faccia al Mowok: «Io disperato? E tu che scappi come un leprotto? Cristo, ti metti in doppiopetto per nasconderti, piume d’aquila».
Questo doveva essere il volto minaccioso che sfoggiava nelle grandi occasioni, e nonostante i fallimenti che conosceva, Lou avrebbe consegnato le chiavi di Los Lunas con le braccia alzate. Aveva incassato l’offesa serrando i pugni, trattenendosi in maniera vistosa, ma non poteva tollerare quel ghigno infido, che ricordava il ritratto del generale Diego, osservato al museo storico.
«Non sono io quello che sta fuggendo». Il suo sguardo rispondeva a tono, fece un passo avanti e si trovarono di fronte, con i piedi rossi sui ciottoli bagnati.
«Ah, no di certo! Tu vai qua e là, insegni, guidi» Bobby tratteneva delle risatine ironiche. Certamente sangue caliente, pensiero poco.
Spinse con entrambe le mani il petto di Lou, che indietreggiò di un passo; bilanciando il bacino si tenne in equilibrio. Ritornò in faccia a Bobby, con il volto ancora più resistente e intoccabile. Le carpe del Pecos mormoravano in agitazione, mentre le nubi s’infittivano continuamente sulla valle violacea.
«Dovresti vederti! Credi che in Messico ti permetteranno di tornare a vivere di colpetti? O finirai per scappare fino in Patagonia?».
Gli arrivò un pugno in volto e cadde nell’acqua bassa, fece il rumore di un macchinario morente. In lontananza si udì gracchiare una cornacchia, che sorvolandoli deviò a nord, di ritorno verso il continente mutevole. Fortunatamente Bobby non aveva con sé la pistola, perché con lo sguardo assatanato sarebbe stato capace di tutto, e soltanto la fame lo distolse dalla violenza. Il silenzio fu l’ultima cosa su cui furono d’accordo, i due sguardi non s’incrociarono più.
Bobby aveva preso a rivestirsi freneticamente, cercava uno stivale mancante. Le gambe facevano impressione, erano martoriate e storte, ricoperte di lividi e tagli mal cuciti; sarebbe stato rischioso tentare un altro balzo da cavallo o da un treno in corsa. Dai calzoni volanti, che si stava mettendo con movenze tanto decise da apparire ridicole, perse la sigaretta che aveva arrotolato per Lou. Nessuno glielo fece notare e nella foga la calpestò più volte. Trovò il secondo stivale appena nascosto da un cespuglio basso e disidratato.
Lou lo fissava, con un rivolo di sangue che gli sporcava il naso aquilino e si incanalava giù per lo sterno. Era ancora sdraiato in acqua, con la stessa nostalgia nelle pupille, nella posa e nel portamento. Non si sarebbe mai battuto, nonostante avesse capito di trovarsi di fronte ad un comune mortale.
Bobby si allontanava a grandi falcate, senza voltarsi. Al suo passaggio fuggirono anche i pesci e dai cactus si sollevarono delle spine, assassine per i rari volatili. Con gli occhi multicolori scrutava il ponte crollato e cercava di scavalcare la montagna, per poterne vedere l’ingresso. La pancia gli brontolava senza sosta.

I due non si videro mai più. Lou rientrò in solitaria al paese, chi lo vide sulla via desertica lo insultò e minacciò la vendetta del marshall locale. Già si immaginavano Bobby al di là della frontiera, libero e impunito. Lou non riusciva ad immaginarsi le autorità sulle tracce di quel fallito, perfetto esemplare di una razza malvagia.
Decise che se ne sarebbe tornato nella riserva. «Col diavolo bianco non si ragiona, capisce solo la baionetta e la dinamite». Tirò fuori le piume d’aquila da una scatola lucida, legno cerato e decorato dalle migliori mani indigene. Le dita gli tremavano di rispetto e nostalgia, mentre la sfiorava e ne rimuoveva la polvere, dello stesso colore del deserto. Pensò che non le avrebbe ritrovate sotto le tende. Il pugnale era stato il prezzo del cambiamento, non è permesso condurlo al di fuori dei confini prestabiliti, se non per un’azione di guerra. Sciolse le treccine e vendette il doppiopetto per una busta di tabacco e una bottiglia di spirito. Quando il negoziante le diede questo nome, restò un momento con la mano sospesa, poi scosse la testa e la batté sul tavolo, tirò fuori qualche moneta e uscì senza salutare.
Per un’intera settimana non smise di piovere e i suoi preparativi furono continuamente rallentati e posticipati. Talvolta temeva di veder tornare Bobby, con il revolver oppure le pepite in tasca. Sicuramente sarebbe tornato con gli stivali puliti e un odore più sopportabile. Però senza cavallo, mentre Lou teneva sotto la tettoia lo stallone maculato più prezioso che si fosse visto a disposizione di un Mowok. Del marshall nessuna traccia.
Quando tornò il sole era tempo di far saltare il suo ponte. Non sopportava più nulla, dalle case ai camini, dall’acciaio lavorato alle macchine da scrivere. Il vero sapere restava quello non stampato, quello respirato tra gli alberi e sussurrato dai ciottoli del fiume. Se c’era una cosa che gli sarebbe mancata, pensò, era il telegrafo. Quella sì che si trattava di un’idea geniale, che azzerava le distanze ed evitava di strozzarsi con il fumo denso. Meglio un pochino d’acciaio che strappare i rami ancora umidi e poi darli in pasto alle fiamme. In più, le tribù non comunicavano che notizie di guerra oppure questioni di emergenza, quindi non esisteva gioia nel parlarsi in quella maniera.
Per questo motivo, decise che l’ultimo saluto ai visi pallidi sarebbe stato al telegrafo. Ne odiava i suoni: gente che urlava, tastini impazziti. Però rimaneva ammaliato dalle nuove che arrivavano quasi prima dello svolgersi degli eventi, vedeva il tipetto con occhiali e bretelle e pensava che nemmeno gli interpreti di Manitù conoscessero il mondo così dettagliatamente. Ci avrebbe voluto portare l’intera tribù.
Anche stavolta rimase senza parole. L’ufficio del telegrafo era completamente vuoto, soltanto il tipetto a digitare forsennato, avvolto dai vapori della pipa poggiata di traverso e con la cenere sparsa ovunque. Le rotaie che correvano appena fuori splendevano fortissimo, da abbassare lo sguardo. Non serviva consultare l’orologio infisso alla parete, il treno non sarebbe passato per qualche ora. Ce n’erano ancora pochi, ai tempi.
Lou si sedette su una panca rosicchiata, le assi scricchiolarono e il tipetto sollevò lo sguardo. Vide Lou ma fu come non vederlo. Nulla di nuovo, si era abituato a quell’accoglienza. Era ancora peggio quando il telegrafo era gonfio di persone che aspettavano il diretto per San Fernando. Non si usciva di lì senza uno sputo sul doppiopetto. Oggi non lo indossava nemmeno e avrebbe rischiato di uscirne nudo.
Tempo di far saltare il ponte, Lou si alzò e cercò per un’ultima volta lo sguardo del signore. Quello arrestò improvvisamente la scrittura, a sua volta si tirò in piedi e lasciò il gabbiotto che lo ospitava mentre lavorava. Teneva una risma di fogli nella mano nera per l’inchiostro. Lou aspettò che ne appendesse uno alla bacheca degli annunci, prima di consultarlo con gli occhi accesi. Non poteva perdersi l’ultimo responso dell’oracolo bianco.
Leggendo il dispaccio vide che la miniera era crollata, una seconda volta. La notizia riportava il ritrovamento di una vittima, ormai irriconoscibile per l’impatto mostruoso della pietra, eppure certamente di sesso maschile. La pagina ingiallita concludeva con una foto in bianco e nero, che confondeva soltanto per la sua vaghezza. Lou si immaginò gli ultimi colpi di piccone, il sudore che batteva sui mattoni irregolari e spezzettati.
Pensò che l’ultima visione di Bobby fosse un teschio, abbandonato ai tempi della prima tragedia. Era convinto che vi si potesse ancora riconoscere il ghigno del generale Diego.  

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