Prima di Germano, il cinema, i social c’erano Guido, i Vanzina e il
cabaret…
E sono due. Nelle sale il secondo film di con su Il Milanese Imbruttito, fenomeno social nato
nel 2013 che satireggia lo stereotipo del milanese workaholic, stressato e ossessionato dal
lavoro. Il personaggio ha raggiunto milioni di follower e ha generato merchandising, eventi e
persino due film. L’ultimo, Ripartire dal taaac è uscito nelle sale italiane il 28 marzo 2024. È
il sequel di Mollo tutto e apro un chiringuito (2021) e vede ancora protagonista Germano
Lanzoni nei panni del Signor Imbruttito. La storia segue il protagonista che, dopo aver perso
tutto, deve “ripartire dal taaac” (espressione tipica del personaggio) per ricostruire la sua vita
professionale a Milano. Al suo fianco ritroviamo personaggi storici della serie come il
Giargiana (Paolo Calabresi) e il Nano (Leonardo Uslengo).
Oggi Germano, ma una volta c’era il, rigorosamente con articolo, Guido. All’anagrafe Nicheli
che per tutta la vita ha interpretato il ruolo dell’imbruttito dal super lavoro, ma la sua versione
del cumenda non era un uomo di potere, odiava tutti i Fantozzi e inseguiva “solo” la bella
vita. Ecco chi era uno dei papà del personaggio di oggi.
Prima del cinema c’era il bar
Chi l’avrebbe mai detto che per capire l’evoluzione della Milano da bere bastava sedersi a
un tavolino del Derby Club? Per vent’anni, questo locale in via Monterosa 84 è stato il
palcoscenico involontario di una commedia umana tutta milanese, dove si mescolavano
come in un cocktail shakerato comici alle prime armi, rampolli di buona famiglia, qualche
malavitoso di provincia, artisti in cerca di gloria, sciurette vere o presunte, e naturalmente
loro: i mitici cumenda.
In questo teatro sociale, un personaggio si distingue per la sua capacità di osservazione:
Guido Nicheli, il Dogui. Prima di diventare l’icona del cinema che tutti conosciamo, era
semplicemente un habitué dei locali notturni, un osservatore privilegiato del cambiamento
sociale che stava trasformando Milano dal miracolo economico fino agli anni della “Milano
da bere”. Come sottolinea Primo Moroni, questi locali erano veri e propri “incroci sociali”,
laboratori dove si forgiava l’identità della città.
Hai presente Fantozzi? Ecco, il contrario
Pensate che fortuna: dal suo sgabello al bar ha visto nascere Fantozzi (sì, proprio quello)
mentre Paolo Villaggio ne leggeva le prime pagine appena pubblicate da Rizzoli. Quel libro è
stato per anni il classico regalo di Natale. Per non presentarsi a mani vuote anche alle feste
in famiglia Guido regalava questa raccolta di storie sfortunate tra corazzate Potëmkin e
penosi eventi aziendali. I suoi nipoti ricordano ancora di aver ricevuto i libri di Villaggio quasi
fossero un monito semiserio che probabilmente suonava pressappoco così: mi raccomando
non diventate come c’è scritto qui.
Nicheli ha assistito alle prime performance di un timido impiegato della Galbusera di nome
Enrico Beruschi, che raccontava le sue “storie d’ufficio” con un’ironia che presto l’avrebbe
reso famoso. Del ragioniere meravigliao è appena uscita per i tipi di Sagoma una brillante
biografia a cura di Massimiliano Beneggi anche per capire meglio quel salto dall’ufficio al
palco in pieni anni Settanta. Ha osservato come persino i boss Vallanzasca e Turatello
riuscissero a mantenere una tregua armata tra i tavoli del Derby, dimostrando come certi
luoghi avessero un potere quasi magico nel livellare le differenze sociali.
Il vero oggetto della sua osservazione, tuttavia, erano i cumenda, questi misteriosi esemplari
della fauna milanese che ostentavano ricchezza tra pochette, gemelli e orologi d’oro (che la
mala chiamava poeticamente “tic di polenta”). Il Dogui li studiava come un antropologo
studia una tribù sconosciuta, sognando di diventare uno di loro, anche solo per una sera.
Motivato da una strana mania figlia della Milano degli anni Sessanta che nei primi Ottanta
era totalmente finita: finire sul libro paga dei ricchi dell’epoca che potevano aiutarti con vitto
e alloggio per anni. Era un aspirante cumenda, ma con una differenza fondamentale: invece
della partita IVA, aveva l’arte di arrangiarsi.
C’è cumenda e cumenda
La figura del cumenda che Nicheli osservava era molto diversa da quella che vediamo oggi.
Non era ossessionato dal fatturare come il “Milanese Imbruttito” di Germano Lanzoni, ma
piuttosto dal millantare. Era più vicino ai personaggi descritti da Lucio Mastronardi ne Il
maestro di Vigevano che gozzovigliano al bar sognando di fare i danè senza fatica o alle
figure tratteggiate da Luciano Bianciardi, che li vedeva come degli “ultracorpi” alieni nel
tessuto sociale milanese. Gente che guadagnava solo per poter spendere al momento
giusto, ma non aveva nessuna idea darwinista di carriera ai danni di qualcun altro.
La carriera artistica di Nicheli inizia quasi per caso nel 1977, quando Enzo Jannacci lo nota
e gli affida un ruolo perfetto in La tappezzeria: quello di un ricco che non vuole pagare gli
operai. La sua prima battuta è già un manifesto: «Buona la meringa, ma de grana ghe n’è
minga». Una filosofia di vita che, paradossalmente, anticipa di decenni il “figa e fatturato” del
buon Lanzoni in tempi più recenti, ma con una sfumatura più romantica e meno aziendalista.
Prima di approdare al mondo dello spettacolo, Nicheli ha attraversato mille vite –
odontotecnico, orologiaio, venditore di termometri, pasticcere – dimostrando quella capacità
tutta milanese di reinventarsi. Nei film come Viuuulentemente mia, Montecarlo Gran
Casinò, Anche i commercialisti hanno un’anima e I ragazzi della Terza C, in tutti lo
zampino dei fratelli Vanzina, interpreta, non a caso, sempre lo stesso personaggio: il
cumenda che millanta ricchezza ma che, alla fine dei conti, è solo un magnifico bluffatore.
Un po’ come Franco Califano, altro habitué del Derby, che ammetteva di dover ringraziare le
cambiali per il suo lungo soggiorno milanese.
L’amore di Nicheli per Berlusconi non nasceva dall’ammirazione per il suo impero mediatico
o edilizio, ma semplicemente per “quella cosa lì dell’elicottero” – un dettaglio che la dice
lunga sulla sua visione della vita e sul suo modo di interpretare il successo. Era affascinato
più dall’apparenza che dalla sostanza, proprio come il suo personaggio.
Basta non lavorare
Il Derby Club, giusto per tornare all’origine del personaggio, dopo il successo “mega
galattico” per citare ancora Villaggio di Renato Pozzetto, era anche e soprattutto il luogo
dove nascevano le carriere. Scrive il Renato nel suo utlimo libro Ne uccide più la gola che la
sciarpa: «Il cabaret era la nostra scuola. Il Derby era una vera factory, stavamo sempre tutti
insieme e anche il pubblico ti suggeriva le battute». Oltre a Beruschi e Villaggio, da qui sono
passati Diego Abatantuono, Massimo Boldi, Mauro Di Francesco, Giorgio Faletti, Giorgio
Porcaro, Francesco Salvi e Ernst Thole. Era un crogiolo di talenti che si mescolavano con la
Milano che contava, o che fingeva di contare. Come diceva l’Aldino, protagonista di Tirar
mattina di Umberto Simonetta: «Fino a ieri chi l’avrebbe mai detto che mi sarei piegato a
lavorare?». Al Derby Club, fino ai Sessanta l’insegna era Intra’s Derby, si poteva trovare il
modo per non piegarsi. Per campare senza faticare e non venire meno al proprio destino di
“geniali tiratardi” come li chiamava Enzo Jannacci, per decenni habituè.
Dal Derby Club al “taaac” del Milanese Imbruttito, la figura del cumenda si è evoluta ma non
è mai sparita. Se oggi Germano Lanzoni incarna il manager ossessionato dal fatturato, dalle
conference call e dalla drammaturgia delle idee corporate, Nicheli rappresentava una
versione più romantica e scanzonata: quella di chi sapeva che non avrebbe mai fatto il
grande colpo, ma continuava a sognarlo con un sorriso sulle labbra e un drink in mano.
E forse è proprio questo il segreto della Milano che fu: dietro la facciata del successo e del
denaro, c’era sempre spazio per l’ironia e per questa strana arte di prendersi in giro. A
chiusura del tutto vale la pena, una volta per tutte, ricordare da dove arriva il… “taaac”,
presente nel titolo dell’ultimo film imbruttito. Mario Valera, scommettitore, una vita passata
tra i cavalli di San Siro, battutaro più che battutista, presenza fissa al Derby, ovviamente. È
lui l’inventore del tormentone da cumenda. Trattasi di geniale sconosciuto che aveva
inventato un modo di salutare senza parole, trovata alla fine di una serata infinita con le
mogli a casa in giro per la città con un tedesco che parlava solo milanese scappando dalla
Polizia. Per ricostruire tutto ciò, tuttavia, ci vorrebbe un altro paio di film.