Finzioni digitali

Autore

Giuliano Castigliego
Laureato in medicina, specialista in psichiatria e psicoterapia, svolge attività di psichiatra e psicoterapeuta a indirizzo analitico nel proprio studio a Coira, Svizzera. È membro dell’Accademia psicoanalitica della Svizzera italiana e della Società Balint Svizzera. È formatore, supervisore e conduttore di gruppi Balint. Co-fondatore dell’associazione uma.na.mente http://www.umanamenteonline.it Cura il blog Incontri di confine https://giulianocastigliego.nova100.ilsole24ore.com su Nòva Il Sole 24 ore. Membro del comitato scientifico della Fondazione per la sostenibilità digitale, cura su Techeconomy il blog Sulla via psicologica della sostenibilità digitale https://www.techeconomy2030.it/sulla-via-psicologica-della-sostenibilita-digitale/

Jorge Luis Borges, maestro di finzione e autore di Finzioni, immagina, nel più celebre dei racconti ivi contenuti, La biblioteca di Babele, l’universo in forma di biblioteca.

«La Biblioteca – scrive Borges – è una sfera il cui centro perfetto è qualunque esagono, e la cui circonferenza è inaccessibile. A ogni muro di ogni esagono corrispondono cinque scaffali; ogni scaffale racchiude trentadue libri dal formato uniforme; ogni libro è di quattrocentodieci pagine; ogni pagina, di quaranta righe; ogni riga, di circa ottanta lettere di colore nero». Considerato inoltre che «tutti i libri, per quanto diversi, sono formati da elementi uguali: lo spazio, il punto, la virgola, le ventidue lettere dell’alfabeto», se ne deduce incontrovertibilmente, che «la Biblioteca è totale e che i suoi scaffali registrano tutte le combinazioni possibili della ventina di simboli ortografici…, cioè tutto ciò che è dato di esprimere: in tutte le lingue» dunque anche «migliaia e migliaia di cataloghi falsi, la dimostrazione della falsità di quei cataloghi, la dimostrazione della falsità del catalogo vero» nonché naturalmente il presunto catalogo vero.

Non ci vuole la genialità di Borges per immaginare che la sua metafora, oltre che per l’universo, valga anche per la Rete, l’universo di Internet, che, creato dall’uomo, sembra essergli sfuggito di mano, come d’altro canto l’universo al suo divino creatore, dopo il peccato originale. È sotto gli occhi di tutti/tutte la radicale trasformazione di atteggiamento nei confronti della rete e in particolare di un suo sub-universo quello cioè dei social. Se fino a pochi anni fa la rete era ancora la stanza intelligente, più intelligente di ciascuno che vi stazionava, ora i toni del dibattito pubblico sono diventati assai più critici nei confronti di Internet, del suo Hate Speech e ancor di più dei social ormai considerati dei bacilli patogeni, la cui viralità, non fa più rima con vitalità ma è ritenuta ora una pericolosa infezione. L’augurio di Freud, anzi il suo perentorio invito a sostituire l’Es con l’Io (“dove era l’Es deve subentrare l’Io”), progetto che il padre della psicoanalisi dichiarava essere «un’opera di civiltà come il prosciugamento dello Zuidersee» – la bonifica cioè completata al tempo di Freud, di un lago olandese la cui acqua salata aveva

lasciato il posto a terra coltivabile – sembrava inizialmente davvero realizzarsi con l’avvento del Cyberspace, definito nella celebre Declaration of the Independence of Cyberspace di John Perry Barlow, un «luogo fatto di transazioni, relazioni e di puro pensiero […] una realtà che va oltre il mondo dei nostri corpi, un mondo, appunto, che si trova ovunque e allo stesso tempo da nessuna parte». In tale «mondo della mente» – recitava ancora la Dichiarazione – «ognuno in ogni luogo può esprimere le sue idee, senza pregiudizio riguardo al fatto che siano strane, senza paura di essere costretto al silenzio o al conformismo» e nel quale «tutte le creazioni della mente umana possono essere riprodotte e distribuite infinitamente a costo zero». .

Tuttavia l’invocata rivoluzione digitale, che avrebbe dovuto essere foriera solo di informazione, cultura e libertà per tutti/tutte, ha ben presto rivelato i suoi limiti, fatti di istinti incontrollati e fake news, di fronte ai quali la reazione della pubblica opinione è virata dall’euforia al pessimismo e infine alla condanna. Il mondo digitale si è rapidamente trasformato sotto i nostri occhi in un universo oscuro, malvagio e pericoloso, il che peraltro non avrebbe dovuto troppo stupire visto la natura del suo creatore, l’essere umano. Se dunque inizialmente il cyberspace sembrava rappresentare la realizzazione della nostra parte più presentabile, la mente, ben presto abbiamo dovuto fare i conti con il fatto che nel mondo digitale abbiamo portato anche il nostro corpo e tutto ciò che vi è connesso. Anche in questo caso lo stupore appare immotivato visto che da tempo avremmo dovuto sapere che non siamo un cervello isolato ma un corpo in relazione, come ci ricordano tra l’altro Morelli e Gallese nel loro Cosa significa essere umani?

Stupiti o consapevoli, abbiamo dovuto prendere atto che il virtuale è reale e tristemente, limitatamente umano, che la finzione di un digitale di puro, astratto, nobile pensiero è appunto una finzione. Questo viraggio dalla speranza alla depressione di fronte alla consapevolezza della finzione e dei suoi limiti viene preconizzato anche nella biblioteca di Babele di cui scrive Borges. «Quando venne proclamato che la Biblioteca comprendeva tutti i libri, la prima sensazione fu di stravagante felicità. Tutti gli uomini si sentirono padroni di un tesoro intatto e segreto. Non c’era problema personale o mondiale la cui eloquente soluzione non esistesse in qualche esagono. L’universo era giustificato, l’universo usurpò bruscamente le dimensioni illimitate della speranza». «Alla speranza esagerata, – scrive però Borges – seguì, com’è naturale, un’eccessiva depressione. La certezza che qualche scaffale in qualche esagono racchiudesse dei libri preziosi e che quei libri preziosi fossero inaccessibili, sembrò quasi intollerabile». Sette di ogni tipo si combatterono crudelmente: alcuni cercarono attraverso il caso di arrivare ai libri canonici, altri vollero eliminare quelli inutili, altri ancora andarono alla ricerca fanatica del compendio perfetto di tutti i libri. Fino a che divenne chiaro a tutti «che lo sproposito è normale nella Biblioteca, e che la ragionevolezza (e perfino la umile e pura coerenza) è un’eccezione quasi miracolosa», per cui i «volumi precari corrono il rischio incessante di mutarsi in altri, e tutto affermano, negano e confondono come una divinità delirante».

La Rete non solo ha suscitato, come la Biblioteca di Babele, prima un’euforica speranza e una sgomenta depressione poi, ma, proprio come la Biblioteca, è una divinità delirante i cui “volumi precari tutto affermano, negano e confondono”. Partendo da queste premesse, non stupisce forse che, come ho già avuto modo di scrivere, il digitale abbia caratteristiche assai simili a quelle che Freud riconosce all’inconscio. Assurdo? Analizziamo allora le caratteristiche del digitale, prendendo come punto di riferimento L’inconscio (1915), in cui Freud riassume le sue scoperte e ipotesi, illustrando per la prima volta in modo sistematico i tratti fondamentali dell’inconscio. Freud spiega che nell’inconscio «non esistono né la negazione, né il dubbio, né diversi livelli di certezza». Inoltre, afferma che «le intensità degli investimenti sono di gran lunga più mobili», ossia l’investimento emotivo legato a un contenuto può spostarsi rapidamente su un altro (spostamento) e molteplici rappresentazioni possono fondersi in una sola (condensazione). Questi processi, comuni ai sogni, vengono definiti da Freud come il sistema psichico primario dell’inconscio. Egli aggiunge: «I processi del sistema inconscio sono atemporali», cioè non sono ordinati temporalmente né influenzati dal trascorrere del tempo. Infine, «i processi inconsci non tengono in considerazione la realtà», rispondendo unicamente al principio di piacere.

Le caratteristiche che Freud attribuisce all’inconscio trovano sorprendenti parallelismi con il mondo digitale.

In primo luogo, il digitale crea una realtà alternativa che, pur non essendo psichica, è stata definita nella Dichiarazione di Indipendenza del Cyberspace come «la nuova casa della Mente». Questa realtà, oggi indicata con termini come Cyberspace, realtà virtuale o aumentata, è il prodotto della tecnologia digitale.

Un altro punto di contatto è l’atemporalità. I contenuti digitali, pur potendo essere organizzati temporalmente, non sono soggetti all’usura del tempo, proprio come i processi inconsci. Come scrive Freud: «Tutto ciò che è conscio si consuma. Ciò che è inconscio resta inalterabile». Allo stesso modo, i contenuti digitali sembrano essere preservati in un ambiente che li protegge dal tempo.

Un’altra analogia evidente è la mobilità degli investimenti emotivi. Nel digitale, i contenuti possono guadagnare e perdere rapidamente interesse, come dimostrato dal fenomeno della viralità. Ciò che oggi è virale potrebbe non esserlo più domani, riflettendo la stessa dinamica che Freud attribuisce all’inconscio.

Freud sottolinea anche che nell’inconscio «non esistono la negazione, né il dubbio, né diversi livelli di certezza», una descrizione che si applica anche al digitale, dove tutto e il contrario di tutto possono coesistere. Questa caratteristica è spesso vista come un difetto del mondo digitale, per la mancanza di un ordine chiaro o di valori di riferimento. Tuttavia, essa rappresenta anche la base della libertà su cui si fonda Internet.

Un esperimento condotto nel 2014 e pubblicato su PNAS ha infine dimostrato il fenomeno del contagio emotivo via social network, laddove «gli stati emotivi possono essere trasmessi agli altri tramite contagio emotivo, inducendo le persone a provare le stesse emozioni senza esserne consapevoli». Possiamo quindi parlare di un “inconscio digitale”, inteso come l’insieme delle emozioni, pensieri e desideri che proiettiamo inconsapevolmente nel mondo digitale e dei contenuti che, a loro volta, influenzano il nostro inconscio. Questo inconscio digitale non si trova fisicamente in Internet o nei social media, ma risiede dentro di noi, funzionando secondo le stesse modalità dell’inconscio tradizionale. Le nostre interazioni online sono filtrate dalle nostre esperienze emotive e cognitive precedenti, proprio come nella vita quotidiana. Tuttavia, nel digitale, questi processi avvengono in modo accelerato e con maggiore intensità, sia per la riduzione degli stimoli sensoriali (principalmente visivi), sia per il fenomeno di Internet Regression, di cui scriveva Holland già nel 1996, i cui tre principali sintomi sarebbero l’insulto facile, la molestia sessuale e la generosità verso estranei, tutti riconducibili ad una mancanza/riduzione di inibizione).

Sulla base di queste premesse non è difficile comprendere che il digitale e i social in particolare possono costituire il terreno più fertile per una nuova forma di finzione, resa possibile da una tecnologia sempre più sofisticata, grazie alla quale possiamo assumere l’aspetto che desideriamo o meglio che noi riteniamo sia più desiderabile. Se è la tecnologia a rendere possibile tale nuova finzione, che ci può addirittura trasformare in “chimere digitali”, costituite da collage di parti che prendiamo da altri aggiunte alle nostre, la radice della finzione è assai più antica e viene descritta da Freud nel suo Il poeta e la fantasia. Freud associa il comportamento del bambino che gioca all’attività creativa del poeta, sottolineando che entrambi trattano con grande serietà la loro creazione immaginativa. La differenza principale risiede nel modo in cui collegano le loro fantasie al mondo reale: il bambino si lega agli oggetti e alle situazioni concrete, mentre l’artista si spinge oltre, nella dimensione simbolica. Quando poi il bambino/la bambina, cresce, abbandonati i giocattoli, si dedica alle sue fantasie, come scrive Freud «costruisce castelli in aria e crea i cosiddetti sogni a occhi aperti» La fantasia e il gioco sono dunque, l’una la continuazione dell’altro e la loro radice è la stessa. L’atto creativo del gioco e dell’arte così come il piacere del fantasticare nascono dalla frustrazione. «Le forze motrici delle fantasie sono desideri insoddisfatti, e ogni singola fantasia è la realizzazione di un desiderio, una correzione della realtà insoddisfacente».

Alla luce delle riflessioni di Freud si potrebbero considerare i social come il luogo per eccellenza in cui è possibile appagare i desideri insoddisfatti, coltivare i più o meno adolescenziali castelli in aria, esprimere e condividere i sogni a occhi aperti, che, frustrati dal quotidiano, non siamo ancora riusciti a esaudire.

Ma i social sono al tempo stesso anche il luogo dei travestimenti consapevoli e inconsci con cui ci presentiamo agli altri/e. Quando calchiamo il palcoscenico social, indossiamo una serie di maschere. La prima è quella deliberata, che scegliamo consapevolmente: il nome dell’account, “animula, vagula, blandula” o “bufalo furente”, l’immagine del profilo, i post, il tutto progettato per veicolare un’immagine specifica, che proiettiamo sia verso gli altri che verso noi stessi,

Su ogni piattaforma social che utilizziamo, mostriamo inoltre frammenti diversi della nostra personalità. Su Facebook potremmo apparire più aperti e socievoli, mentre su Instagram tendiamo a enfatizzare il nostro lato estetico, e su LinkedIn cerchiamo di esprimere la nostra professionalità. Anche questi profili multipli formano pure una sorta di “chimera digitale” che combina però diversi tratti di noi stessi.

Ma dietro a queste si celano altre maschere ancora, quella del nostro quotidiano pubblico, familiare, personale fino alle sfaccettature del nostro inconscio, che possono emergere in momenti inaspettati, quando la maschera che indossiamo non riesce a nascondere più ciò che siamo davvero o veniamo smascherati da altre “maschere” social.

Questa dinamica non è certo una novità: il cuore umano è sempre stato un guazzabuglio, ben prima dell’avvento dei social media. Tuttavia, la facilità con cui possiamo manipolare la nostra immagine online può amplificare questa tendenza, spingendoci a indossare e cambiare maschere in modo quasi compulsivo, nel tentativo «di poter vivere più vite parallele e scisse le une dalle altre dove queste vite ‘digitali’ non abbiano poi implicazioni nella vita reale»,  mentre «la vita che si vive è una e, digitale e analogico sono due parti della stessa cosa, per cui le ripercussioni sono su ambo i fronti» (Cit. Luca Cairoli su Facebook).

Il vero pericolo non è dunque tanto di venire smascherati, quanto quello di perdere noi stessi dietro la maschera che abbiamo creato, al punto da non renderci più conto che la stiamo indossando.

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