Chiunque abbia visto uno scimpanzé allargare gli arti e rizzare il pelo per difendere la propria famiglia, così da aumentare il proprio volume e quindi sembrare più forte ai nemici, si renderà conto che questo brivido sacro è il rizzarsi della rudimentale pelliccia che noi umani non abbiamo più. «Si tratta di una reazione dell’ipotalamo, cioè istintiva. Quando l’ipotalamo ruggisce, la corteccia tace, come per qualunque istinto», ha sostenuto Konrad Lorenz. L’avvento del linguaggio verbale articolato si è inserito, nel caso di homo sapiens, tra le peculiari distinzioni corporee e le manifestazioni dell’aggressività difensiva o offensiva.
L’entusiasmo che suscita il canto di un inno nazionale, o la minaccia di una mamma che urla al proprio bambino: «se lo fai ancora ti ammazzo», sono un mix di antecedenti evolutivi e di linguaggio, propri della scimmia che si parla, quale noi umani siamo. Anche all’inno nazionale, soprattutto i maschi, irrigidiscono involontariamente la postura e spingono il mento in avanti. Così come la mamma aggrotta le sopracciglia e si protende col corpo e in gesti minacciosi verso il bambino. Sia l’inno che la minaccia sono, auspicabilmente, nella quasi totalità dei casi, una sublimazione della forza fisica, una finzione della finzione.
Una domanda che sembra necessario porre è: in tutte queste circostanze a che gioco stiamo giocando? Probabilmente siamo impegnati, come sempre e continuamente accade, a preservare le meravigliose mancanze di senso alla cui compensazione tendiamo e senza le quali la nostra esistenza sarebbe, appunto, insensata. Meno male che la mancanza di senso esiste. Ma quanto ci costa cercare continuamente di elaborarla!
Il corpo, che non è mai fuori dal gioco, che anzi del gioco è il protagonista e l’arena, si fa largo nel dramma della finzione, come non manca di segnalarci Roland Barthes: «Più gli uomini sono stati liberi (con la bocca), più hanno parlato e baciato; e logicamente, quando attraverso il progresso gli uomini si saranno liberati di ogni compito manuale, non faranno altro che discorrere e baciarsi! Immaginiamo che a questa doppia funzione, localizzata in un luogo unico, corrisponda un’unica trasgressione, che nascerebbe da un uso simultaneo della parola e del bacio: parlare baciandosi, baciare parlando. Bisogna credere che questa voluttà esista, poiché gli amanti non smettono di “bere parole sulle labbra amate”. Ciò che gustano allora è, nella lotta amorosa, il gioco del senso che si chiude e s’interrompe: la funzione che si offusca: in una parola: il corpo farfugliato» [Barthes di Roland Barthes (1975), Einaudi, Torino 1980; p. 160].
Viene da domandarsi, parafrasando Barthes, se è “la funzione che si offusca” o se non sia la finzione ad offuscarsi. Se per caso così fosse avremmo finalmente capito perché un volto inaudito delle relazioni, e di quelle amorose in particolare, si rivela mostrando quello che la relazione era, nel momento in cui si dissolve.
Potremo, a quel punto, sempre provare a fare il tentativo “di fingere di fingere di fingere”, ma avvertiamo subito che il limite è la nostra mente. Fino a lì non ce la fa. Anche se siamo capaci di azioni che a quel terzo livello corrispondono. Sappiamo dire a una persona che non amiamo più: (1) “non ti amo più”; (2) “ma dai, stavo solo fingendo”; (3) “lo sai che ti amo!”.