Trama di relazioni. Quel che tendiamo a non vedere.

Autore

Carlo Pacher
Carlo Pacher, classe 1995, lavora per la formazione e lo sviluppo delle persone in La Sportiva. Ha conseguito una doppia laurea in Scienze Filosofiche presso gli atenei di Padova e Jena, in Germania, con una tesi dal titolo: "Intersoggettivà, costruzione, limite. Intorno alla riflessione hegeliana sul linguaggio", tema a cui ha lavorato sotto la guida dei Professori Luca Illetterati e Klaus Vieweg. Precedentemente aveva affrontato il tema della conoscenza di sé in Platone per l'elaborato di tesi triennale con il Professor Carlo Scilironi. Nell'estate 2021 ha preso parte al corso executive "Strategie e nuovi modelli di sviluppo sostenibile" presso CUOA Business School. Attivo in più realtà di volontariato sociale a livello locale, musicista per passione.

Di molte cose che vediamo ci sfugge inizialmente l’elemento costitutivo, quello che fa essere tale l’oggetto della nostra vista. Che guardiamo con gli occhi, con il cuore, con l’intelligenza, ci è continuamente richiesto di fermarci a contemplare l’oggetto per comprenderne la possibilità stessa, scrutare quei dettagli di primo acchito invisibili che sono l’anima viva di quel risultato. È così che, mentre guardiamo suonare un pianoforte, non vediamo la vibrazione che sentiamo, ma legno, avorio, dita su una tastiera muoversi; guardando lo schermo del cellulare, non vediamo né la reazione chimica che avviene dentro la batteria che lo alimenta, né la rete elettrica scorrere tra i circuiti interni dell’apparato, né tantomeno i pixel che animano la nostra visione – non guardiamo il processore che muove tutto ciò. Quando vediamo una persona, vediamo carne ed ossa, occhi, denti, labbra, capelli, rughe… ma nessuno dei processi interni che effettivamente li rendono possibili; ed anche, per passare ad un altro piano di lettura, nessuno di noi sarebbe mai disposto a riconoscere in questa sequela ciò che fa di una persona singola quella persona – di Marco, Marco –, quanto piuttosto indicherebbe il cuore, l’animo, il cervello, i sentimenti, il suo mondo interno. Ma solo dopo e non vedendole immediatamente, qualità quasi sfuggenti – che pure sono lì dal primo istante, essenzialmente.

Quel che facciamo davanti a un mosaico, al netto di stravaganze, è che noi lo guardiamo. Ed è così che rimaniamo incantati dall’immagine che rappresenta, dall’accuratezza della trama, dal dettaglio che riesce a rendere pur essendo un’opera musiva; ci sbalordiamo per quanto i colori rimangono vividi nonostante l’età anagrafica dell’opera – spessissimo di epoca romana o bizantina. E poi ci avviciniamo, e lo facciamo perché la nostra meraviglia sia grande davanti alla costatazione di quanto piccole siano quelle tessere posizionate così vicine e posate in un modo che ci appare neanche particolarmente curato per riuscire a rendere un effetto tanto maestoso appena pochi passi indietro. Ci spostiamo allora con la mente, pensandoci riflessi in una possibilità che non abbiamo attivato, ad apprezzare genuinamente l’abilità dell’artista per la concezione, il disegno e la realizzazione di un’opera tanto originale e lontana dal canone della vita quotidiana, artigianalmente elaborata, mirando poi a quanto dev’essere stato complicato con le tecnologie di allora realizzare quello sforzo.

E tuttavia tende a sfuggirci la caratteristica essenziale che fa di un mosaico, un mosaico, e cioè che quando ne guardiamo uno, in realtà, stiamo contemplando un sistema di relazioni.

Una quantità enorme di frammenti di pietra, pasta vitrea e metallo di colori diversi non avrebbero significato, non sarebbero un mosaico, se non in funzione di dove e come sono posizionate le une accanto alle altre, ovvero in funzione della relazione che le tiene insieme e le fa assumere quel significato – l’immagine – che non è se non quella trama di relazioni. È sempre dentro una relazione che una tessera diventa ciò che è, dalla più splendente alla più opaca, anzi: la splendente è tale perché l’opaca giustapposta la rivela. Non di per sé, non l’una senza l’altra.

È la matrioska di relazioni contemporaneamente attive che rende possibile il mosaico: chi pensa alla deposizione delle tessere, ne pensa la relazione e la realizza. L’artista è il maestro d’orchestra del disegno relazionale che le tiene unite e che, nell’impressione finale in cui la singola si disperde, le annulla contemporaneamente conservandole nella meraviglia della rappresentazione finale che, resa possibile solo grazie alla loro totalità di singole poste in relazione, la rendono possibile e la realizzano. Opaco e brillante, nel loro rivelarsi, vengono rilevati insieme nell’impressione che raggiungono quando viste, impressione che le fa svanire in quanto giustapposizione delle caratteristiche contrapposte: “guarda che vivido l’occhio di quella figura!”. Lo stesso avviene nella relazione delle note come vibrazione che diventa musica, nella somma delle voci di un coro in cui vengono annullate come singole nell’accadere di un suono – quello del coro – ontologicamente nuovo che le rileva conservandole.

Metafora della vita, il mosaico ci racconta la relazione che ci precede e ci eccede: proveniamo dalla relazione di due genitori che si sono amati, anche solo per un momento. Da quando ci siamo, siamo dentro un altro essere umano. Da quando usciamo, siamo continuamente in relazione con altri, al punto che anche la sottrazione dalla relazione con altri è forma di relazione. E come nella vita diventiamo nella relazione (cfr. Gallese V., Morelli U., Che cosa significa essere umani?, Raffaello Cortina Editore, 2024) e in essa realizziamo uno scarto qualitativo delle nostre esistenze, il mosaico non è soltanto relazione. È relazione bella che valorizza. Un riferirsi gli uni agli altri – relata sunt – che crea un valore altrimenti impossibile, cioè: impossibile senza quella relazione. Una relazione non gratuita ma faticosa, immaginata, pensata, ponderata, disegnata, provata e riprovata, smontata per essere modificata e, quando finita, manutenuta perché il bello non cessi. Il mosaico ci insegna che la relazione non è data una volta per tutte e che soprattutto non è data di per se stessa ma è una straordinarietà che è propria dell’uomo, che racconta ad una persona ciò di cui può essere capace, artisticamente e nella vita. Una bellezza resa tale dall’esperienza dello stupore, che nella relazione fa sentire un dedicato: quell’opera è lì per te, ti tocca. Relazione che incontra relazione.

Come le idee nell’iperuranio platonico sono soltanto in quanto sono in un sistema di relazioni, con l’idea del bene che fa da collante e permette quel sistema perfetto, così mi piace pensare che sono tutte le nostre vite, o almeno, o meglio: a tutti noi è data, dacché nasciamo già sempre dentro una relazione, la possibilità di realizzare un maestoso mosaico all’interno delle relazioni che incessantemente attraversiamo durante il nostro passaggio terreno. Nessuno escluso. Non si tratta di scegliere se stare nella relazione, ma come e in quali relazioni stare, quali curare. Dentro questo nocciolo, la costruzione di sensi, la corresponsabilità nella correlazione, l’arte di scegliere le relazioni da attivare e quelle da lasciare lungo la strada. Quali relazioni scegliamo di essere, di diventare, di avverare ogni giorno? Quale trama stiamo tracciando, nella costruzione del nostro mosaico assieme agli altri? Quali tessere giochiamo ad essere e come ci posizioniamo rispetto ai tanti altri che coabitano questo attraversamento che è la vita?

Davanti ad un mosaico si può rimanere indifferenti – o anche commuoversi.

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