Fu per caso che Masada decise di cominciare a scrivere su piccoli foglietti i ricordi che non voleva avere. Era oppresso dalla memoria. Una memoria insopportabile. Si era appeso a quei foglietti come un subacqueo che, avendo una elevata gallegiabilità, si applichi dei pesi per immergersi. La legge di Archimede, valida per i corpi in acqua non aveva funzionato. Si ritrovava con un mosaico di foglietti attaccati ovunque, sulle pareti e sulle porte e persino sugli specchi o alla lampada della scrivania. Quei pezzi di carta di diverso colore, non solo non trattenevano i ricordi, ma glieli restituivano amplificati. Per associazione ne richiamavano altri, attivando a più non posso quella macchina infernale del suo cervello che non era mai stato capace di dimenticare nulla. Era capace di vedere, quasi ad occhio nudo, quello che accadeva. Una catena esplosiva di collegamenti, connessioni, intrecci, da rimanerne imbrigliato, da impigliarsi in un nuovo ricordo ad ogni contatto neurale. Sognava di frapporsi a quei contatti e di bloccarne almeno qualcuno. Si esercitava persino in finzioni. Provava così a far finta di non ricordare la pagina e la riga di un libro, a proposito di una citazione. Ma prima ancora di provarci, eccola lì, la pagina era già apparsa in tutta la sua nitidezza e la frase in questione si mostrava come se fosse in grassetto, pomposa e fiera di essersi imposta contro ogni tentativo in direzione contraria. Camminando per strada, sobbalzava nel sentire l’odore di quel profumo di donna che lo dilaniava per le sofferenze patite in una storia che aveva vissuto, strizzava gli occhi nello sforzo di sostituire quell’aroma con uno dei mille altri che il suo cervello aveva in catalogo, ma no, proprio non ci riusciva. Non serviva cercarne uno affine per distogliere la precisione chirurgica con cui la memoria lo colpiva: la distinzione dell’odore era netta per quanto sottile e precipitava nel rivivere, anzi nel vivere come se fosse la prima volta, la tragedia che aveva sperimentato. Il fatto è che non si trattava della copia dell’evento ricordato, ma di un evento originale, pur suscitato dall’originario. Come tale inquietava e graffiava in modo cumulativo, aggiungendo al consueto l’inedito, e doveva fermarsi e cercare di respirare, con qualche passante che puntualmente gli chiedeva se avesse bisogno di aiuto per respirare. E lui ogni volta rispondeva: no, grazie, per dimenticare. Una delle situazioni più impegnative Masada la viveva quando gli chiedevano cose riguardanti le proprie origini culturali e si ritrovava a sopportare gli elogi per la sua memoria personale associata immancabilmente e stucchevolmente alla memoria millenaria del popolo a cui apparteneva. Eh, voi, con la vostra mania di conservare storia e memoria, poi non potete lamentarvi se fate paura. Avrebbe voluto urlare, in quelle circostanze, ma non tanto contro l’ignoranza razzista di chi aveva di fronte, ma contro quella massa grigia che aveva nella testa, che in quelle circostanze si ingigantiva fino a comprendere i cervelli di tutti gli ebrei vissuti nel tempo. Quella massa agglutinata gli sembrava di ospitarla tutta nel proprio cranio e sognava che esplodesse disperdendosi, finalmente, per non essere più identificabile e perseguitabile. Ma poi, all’improvviso, si pentiva. La dispersione si sa non è una buona cosa per la gente a cui in fondo e con tutti i distinguo sente di appartenere. Gli si presentava così, furtiva prima e invasiva poi, un’associazione con lo sperma. Vietato disperderlo. Una delle prescrizioni più severe della legge. Persino con la masturbazione: ogni volta un’olocausto, diceva con ironia il suo amico Elkhonon. Allora assumeva un atteggiamento di rispetto per la propria memoria, dicendosi quelle cose che sempre gli dicevano: che fortunato sei, per studiare, per curare i tuoi affari, per…per… e giù una lunga lista di vantaggi per uno che non dimentica. Durava poco. Appena il tempo di un respiro. E avvertiva la macchina infernale che aveva nella testa ricominciare ad astrarre e a immaginare. Sì, perché quello che gli altri non vogliono capire, o non possono farlo, è che ricordare per Masada non è recuperare rapidamente copie depositate da qualche parte, ma registrare quello che una incontenibile e inarginabile immaginazione mette in campo, in quel campo sterminato che ha nella testa. Non solo, ma negli occhi, nelle orecchie, in tutti i sensi, nei piedi e nell’intestino. Sì, anche lì, perché è l’intestino che si contorce quando i ricordi battono pesantemente sul presente e Masada sente di vivere ricollocazioni spazio-temporali sconvolgenti, fatte di odori, sensazioni, atmosfere, che non sono “come se”, ma più vere del contesto in cui sta vivendo in quel momento. La domanda che lo inquieta costantemente, infatti, è: ma dove sono e cosa sto vivendo? Oppure, si ritrova a cercare di comprendere le ragioni per cui quell’abito che indossava il suo maestro venticinque anni prima aveva così condizionato lo svolgimento di quel tema, in cui aveva scritto una frase che tuttora non sopportava, ma che si era imposta perché l’aveva sentita dal nonno qualche anno ancora prima. O ancora sentiva di doversi impegnare nei preparativi sempre in atto per evitare che la memoria dell’unica cosa che lo disgustava, il rosmarino e il suo odore, si imponesse al punto da causargli un vomito improvviso. Per quelle vie aveva ripreso e ancora continuava a prendere il ceffone sonoro con fischio all’orecchio che gli aveva affibbiato il professore di matematica per il solo fatto di aver dimostrato un teorema alla lavagna per una via meno breve di cui, secondo il docente, lui era capace. Di Olimpio poi, il suonatore di violino squattrinato ed esuberante, compagno vecchio ma favoloso della sua infanzia, ricordava odore di brillantina, tic di tosse, leggera balbuzie e soprattutto le nenie e gli spartiti. Se le ascoltava, quelle nenie, col suo registratore mentale e le sussurrava commuovendosi, per quell’uomo morto di fame ma vissuto di musica che se ne era andato a morire a Boston, richiamato da un figlio negli ultimi anni della sua vita. Quei foglietti a cui Masada aveva tentato di consegnare la liberazione di una parte almeno dei suoi sempre più invasivi e crescenti ricordi, almeno per cercare di sentirsi più leggero, non certo per fare spazio a tutto quello che leggeva o studiava o viveva poiché l’estensione e la capienza, ormai era chiaro, erano illimitate, quei foglietti erano di diverso colore e rispecchiavano il tentativo di una classificazione. Un mosaico composto secondo un ordine per tipologie di ricordi. Sempre nel tentativo di alleggerirsi. Macché! Non aveva fatto altro che peggiorare le cose. Si ritrovava contro ogni sua volontà a connettere foglietti di colori diversi e ogni connessione moltiplicava la memoria e ne sviluppava esponenzialmente le associazioni. La composizione secondo un ordine, si disse Masada, fornisce solo un’opportunità in più al mio cervello di farmi impazzire di memoria. Fu così che si mise a scomporre quell’ordine per colori e nel farlo aggiungeva foglietti con nuovi ricordi a quella specie di mantello di Arlecchino che diveniva sempre più la sua casa. Fino a quando, avendo esaurito ogni millimetro di superficie, Masada, ormai rassegnato, non ha iniziato a incollare foglietti su altri foglietti, facendo della sua dimora l’equivalente del suo cervello, una macchina per ricordare.