Quando, adolescente, sono entrato per la prima volta nella Basilica di Aquileia, non esistevano ancora né il turismo di massa, né il puntiglio con il quale, poi, ci si è decisi a conservare alcune vestigia del passato per essere sicuri di poter trasmettere questi tesori anche a coloro che ci seguiranno. Quindi sono entrato nell’ala sud del tempio, quella principale, camminando tranquillamente, come tutti, sopra quel pavimento che accoglie il ciclo musivo paleocristiano più esteso del mondo occidentale, realizzato con tessere policrome, bianche e nere,. C’erano – sì – alcune passatoie che invitavano implicitamente a seguire determinati tracciati, ma sembrava del tutto naturale allontanarsi a piacimento per andare a vedere da vicino certi particolari che sembravano più interessanti, o appariscenti.
Per capirci meglio, questi mosaici ricoprono una superficie di circa 760 metri quadrati e sono stati realizzati agli inizi del IV secolo per volere del vescovo Teodoro, con un chiaro intento didattico rivolto ai catecumeni che seguivano soprattutto gli episodi della storia biblica di Giona usata come allegoria della resurrezione di Cristo, e più in generale, del destino ultraterreno che attende coloro che sono battezzati. Il tutto è ambientato in un suggestivo contesto marino, popolato da polpi, seppie, delfini, anatre, ravvivato da scene di pesca e contrappuntato da quei nodi di Salomone che, come cita anche Dante nelle “Rime”, indica un groviglio inestricabile e, quindi, un problema senza via d’uscita, come spesso capita nella vita e nella fede.
Il mosaico si è salvato nei secoli sotto una coltre di macerie depositatesi in seguito alla distruzione dell’edificio originale provocata nel 452 dagli Unni di Attila. I primi scavi archeologici di Aquileia risalgono al 1893 e furono eseguiti da alcuni studiosi austriaci. Poi la coscienza della preziosità del mosaico e la necessità di preservarlo dall’invadenza turistica hanno preso il sopravvento e oggi le tessere non sono più toccabili visto che si cammina su delle passerelle trasparenti e sopraelevate rispetto al pavimento.
Probabilmente, anche se ormai sono pochi quelli che si interessano ancora di Giona e delle allegorie celesti collegate alla sua vicenda, è curioso constatare che la narrazione musiva avrebbe quasi sicuramente più capacità di farsi comprendere oggi di quella volta, come, del resto, io stesso oggi posso capire meglio di quand’ero ragazzo la complessità del racconto per immagini costruito per coloro che stavano entrando nella cristianità. E non soltanto perché un bel po’ di anni in più hanno arricchito il mio bagaglio culturale, ma soprattutto in quanto le nuove disposizioni di visita mi hanno obbligato a guardare il tutto da meno vicino.
Di solito, quando si parla di mosaico, il pensiero corre subito al messaggio allegorico che più comunemente a esso viene associato: il fatto che tante cose diverse, se accostate seguendo un disegno e un obiettivo comune, possono diventare un tutt’unico il cui valore supera infinitamente la sommatoria delle qualità delle singole parti.
Questo è sicuramente vero, ma le nuove regole delle visite al mosaico di Aquileia hanno reso evidente anche un’altra caratteristica dei mosaici che metaforicamente può essere benissimo applicata alle vicende umane: il fatto che, se si guardano le cose un po’ più da lontano, forse si perdono alcuni dettagli focalizzati proprio sulle singole tessere e sul loro accostamento fisico, ma si guadagna moltissimo nella visione d’insieme, nella comprensione della complessità di quello che l’autore del mosaico ha voluto trasmetterci.
Conferma di evidenza palmare in questo senso sono i mosaici bizantini di Ravenna, a San Vitale e a Sant’Apollinare Nuovo, ma anche nel Battistero Neoniano, nel Mausoleo di Galla Placidia e in quello di Teodorico, luoghi nei quali le composizioni musive sono collocate nelle absidi, sulle pareti, o sui soffitti e, quindi, già in partenza lontani dagli occhi dell’osservatore che, così, riesce ad abbracciare in un solo colpo d’occhio la complessità dell’intera narrazione.
È un implicito messaggio che non dovrebbe lasciare indifferenti in un periodo storico nel quale il motore principale della nostra società sembra essere diventata quella parcellizzazione che porta alla resurrezione delle politiche identitarie a livello locale, regionale, nazionale, etnico e religioso che sono l’inevitabile conseguenza di un individualismo che non riesce a concepire il fatto che un’unica tessera non possa in alcun modo diventare un intero mosaico con la sua ricchezza espressiva.
La metafora che l’unione tra tessere, e quindi entità differenti che soltanto assieme riescono a creare qualcosa di importante e di nuovo è straordinariamente simile a quella che da sempre è conosciuta a Trieste, città che non è soltanto di confine, ma è confine essa stessa e che ha sempre avuto a che fare con le ataviche inimicizie tra ceppi etnici e linguistici diversi. Ebbene, da sempre queste comunità sono descritte come una trama e un ordito che, separati, sono nulla e non riescono a interagire tra loro, ma che, quando si intrecciano tra loro, im una pur non facile opera di telaio, danno vita a stoffe resistenti e di pregio e a colori e disegni nuovi che altrimenti mai sarebbero esistiti.
E anche in questo caso la visione d’insieme è più importante dell’analisi del singolo elemento.