SULLA DIALETTICA COME VISIONE SPIRITUALE DI ATTRAVERSAMENTO
Sembra che oggi l’uomo si trovi esistenzialmente di fronte ad un bivio ineludibile: le strade che gli si parano innanzi sono molto diverse; cionondimeno egli è nella condizione di dover imboccare una delle due vie escludendo totalmente l’altra. La prima di queste strade – un cammino in discesa, apparentemente agevole – è quella che lo porta a credere di vivere in una realtà senza senso; la seconda – in salita e certamente più tortuosa e impegnativa della precedente – è quella che gli impone lo sforzo di pensare e che, spronando il suo intelletto a misurarsi con la molteplicità degli enti, lo conduce ad intendere la trama logica che sostiene e collega tutto ciò che esiste.
Purtroppo, pare che, nel contesto in cui viviamo, il primo cammino sia molto più battuto del secondo: se tale tendenza è avvertita nel profondo di tanti cuori come una dolorosa incapacità ad unificare la comprensione dei fenomeni quanto al loro Senso1, socialmente parlando essa si manifesta come una scelta sostanzialmente obbligata, perché inscindibilmente connessa alla convinzione sempre più radicata che un Senso ultimo del tutto non si dia e che la realtà sia un’accozzaglia di frammenti senza costrutto.
La ricognizione di qualche luogo di vita quotidiana lo testimonia vigorosamente: si guardi, ad esempio, all’ambito del sapere. Esso è diventato iperspecialistico, parcellare e nessuno risulta più in grado di dominare la propria disciplina dal momento che gli sguardi d’insieme sono quasi sempre di settore e di tipo genealogico2. Si pensi poi all’assetto morale dell’uomo contemporaneo e alle strategie più diffuse di progettualità politica, non più capaci di indicare direzioni lungimiranti per il presente e il futuro; o, di nuovo, ai media e alle mode, che decretano il trionfo universale dell’esteriorità e della manipolabilità dell’umano; o, ancora, agli orizzonti della scienza e della tecnica: se la prima ha, da tempo, ratificato uno statuto cognitivo di tipo ipotetico/fallibilistico, l’altra ritiene di doversi impegnare in direzioni esclusivamente operative, non intendendo fuoriuscire dai parametri dell’efficacia e del mero risultato.
«La rinuncia ad unificare – nota Carmelo Vigna – può trovare un’ulteriore metafora di grande significato simbolico nel regno del virtuale, gigantesca protesi delle strutture dell’intelligenza e della comunicazione. Tutti sono affascinati dal fatto che Internet sia senza confini, non certo nel senso che è infinito, ma nel senso che è sterminato (appunto, senza termini o confini), perché sempre implementabile. E come unificare ciò che è sterminato? Complici i tentativi più recenti (ChatGPT), l’accrescimento in senso orizzontale sembra proprio il luogo originario della sensazione della plausibilità di una finitudine senza fine, quindi della finitudine come essenza o struttura inoltrepassabile della nostra umana esperienza. Finitudine senza fine come cifra assoluta. (…) Quest’incapacità (-impossibilità) di unificare i fenomeni suscita in molti, un certo grado di disagio. La coscienza è, infatti, di suo e inevitabilmente, impulso unificatore. (…) Questa mia recensione, inevitabilmente amara, del nostro mondo sofisticato non deve farci dimenticare che in esso è all’opera (silenziosamente) anche il bene. Da sempre e per sempre. Nel suo grembo stanno le forme migliori delle istanze di vita degli uomini. Bisognerebbe ricostruire il loro naturale rapporto con la verità. E nel nostro caso questa ricostruzione dovrebbe passare per la valorizzazione non solo della ricettività della coscienza, ovviamente, ma anche [del suo leggersi] come relazione a qualcosa, consapevole che senza quel qualcosa essa non potrebbe vivere perché diverrebbe relazione a nulla, quindi nulla di relazione»3.
Tali parole hanno senz’altro la forza di mettere in discussione il dogma su cui si regge la Weltanschauung frammentata e frammentaria di tanti nostri contemporanei e di mostrare come, innanzi al bivio a cui ci siamo riferiti in apertura, l’unica strada che l’uomo è vocato a percorrere sia quella dell’esercizio dell’intelligenza e del confronto con la realtà quale mosaico unitario in cui ciascun pezzo assume il suo vero significato nella relazione con gli altri e con il Disegno di cui fa parte. Ora, ci si può chiedere in cosa consista l’essenza di tale esercizio: la sua cifra più intima va indubbiamente individuata nella dialettica, intesa quale visione spirituale di attraversamento.
Sia che si esprima come intuizione intellettuale, che come metafora, che come ragionamento rigoroso, che in maniera ancora diversa, tale forma di perspicuità trans-fisica risulta potentissima per il nucleo ontologico e, insieme, speculativo su cui si fonda, ovvero per la matrice della non contraddizione (secondo cui ogni ente è se stesso e non altro da ciò che è e per la quale è impossibile si dia identità tra essere e non essere, tanto assolutamente quanto relativamente4). Una matrice importantissima, mediante cui – se ci si pensa – si può sia negare affermando (dicendo A non è non A) che affermare negando (sostenendo che A è non non-A)5. Dire che A non è non A significa certamente affermare che A è non-non A: ciò è, tuttavia, un passare dalla forma dell’esclusione a quella dell’inclusione, quella – meglio – dell’inclusione della stessa esclusione, una forma conoscitiva eminentemente solida perché capace di svelare nel minimo (e nel frammento) il massimo e il segreto dell’Intero.
«Nella forma affermativa – osserva Giuseppe Barzaghi nelle sue Lezioni di dialettica, votate a sviscerare la natura di quest’ultima – abbiamo l’inclusione dell’esclusione. Il che vuol dire che ogni volta che determino, escludo (onmis determinatio est negatio); ma se io vado nella profondità di questa determinazione, io sto includendo l’esclusione. Se dico che è necessario escludere per avere l’intelligenza di una determinazione, appartiene all’intelligenza di quella determinazione anche l’intelligenza dell’esclusione. Io includo l’esclusione. Quindi la legge della dialettica è l’inclusione dell’esclusione. Se, nella forma negativa, viene escluso l’universo diverso, cioè tutto ciò che ha una convergenza divergente da A, nell’inclusione dell’esclusione io ho il fatto per il quale l’universo diverso da A è converso in A. (…) Che cos’è il cavallo? Il cavallo è il non non cavallo. E quindi dentro il non-cavallo c’è anche A. E quindi per qualsiasi determinazione questo gioco si riprende. Meraviglioso! Il meraviglioso è legato a questa legge. Io prendo una determinazione. Questa determinazione, per essere se stessa, deve includere anche ciò che deve escludere per essere se stessa. Quindi deve includere in modo mediato tutte le altre determinazioni che la escludono e che a sua volta essa esclude. Perciò, qualsiasi determinazione io prenda nell’universo, sarà sempre sottoposta a questa legge. Capisci che tutto è in un rispecchiamento? Un riflesso continuo»6.
Insomma, dire dialettica è dire insieme esclusione ed inclusione, anzi è dire l’esclusione dell’inclusione tramite l’inclusione dell’esclusione e viceversa: per affermare l’identità di A, infatti, devo escludere che esso sia non A e, al tempo stesso, devo includere tale esclusione giacché A è non non A. Tale ambivalenza è chiaramente visibile nei modi in cui la dialettica si esprime, quello duro (o difensivo, come piace dire a me) e quello morbido (o ostensivo). Da un lato, c’è il versante rigido (che dice A non è non A), capace – come ci insegna un geniale acrostico di Barzaghi – di Demolire In Agone Logico Enunciati Teoreticamente Temerari Insinuando Certezze Assolute. Dall’altro lato c’è il versante morbido della dialettica (che dice A è non non-A), in grado di Descrivere Incontrovertibilmente Attraverso Logiche Enunciazioni Teoremi Totalizzanti In Contesto Anagogico ovvero di manifestare la convergenza delle cose che, pur presentandosi sulla scena del reale come equivoche, sono tra loro intimamente legate e inscindibilmente connesse7. È tramite la considerazione della complementarietà, anzi, di più, della circolarità ermeneutica sussistente tra dialettica rigida e dialettica morbida, che possiamo apprezzare la compenetrazione tra la dimensione rigorosa della tendenza all’incontrovertibilità argomentativa a cui, come uomini, siamo chiamati a corrispondere e la dinamica temptativa focalizzata sui contenuti che oltrepassano per sè la nostra piena capacità di lettura, non avendo noi la possibilità di cogliere espressamente, ma solo d’intendere, tutti i legami sussistenti tra gli enti. Questo – pur rappresentando un limite – non impedisce all’uomo di interfacciare il Fondamento (o il Senso ultimo, come si diceva prima) che traluce da tali contenuti: esso, in un certo qual modo, si offre sempre insieme a ciò che è fondato in altro appunto come Sostegno infondato di ciò che non può auto-sostenersi, un Sostegno infondato non in senso aleatorio naturalmente, quanto in quello della leggerezza e della sinteticità assoluta di ciò che non teme confronto perché non affronta sfrontatamente alcunché ponendosi come il Tutto in tutti8.
NOTE
- Cfr. C. Vigna, Il nostro tempo e la nostra speranza, in Vedute. Al seguito di Sofia, Orthotes, Napoli 2024, p. 55
- Ibi, p. 56
- Ibi, p. 60
- Cfr. P. Fedrigotti, La nottola e il sole, Armando, Roma 2019, p. 52
- G. Barzaghi, Lezioni di dialettica e l’esame di coscienza, Esd, Bologna 2019, p. 59
- Ibi, pp. 70-72
- Cfr. Idem, La maestria contagiosa. Il segreto di Tommaso d’Aquino, Esd, Bologna 2017, pp. 198-199
- Ibi, p. 154
Testo rigoroso e complesso. Per metafisici… incalliti!
Ma testo pieno di verità fondamentali.
Condivido, naturalmente. E ringrazio per la condivisione generosa di alcune mie righe.