Le culture sono un insieme di pezze

Autore

Marco Aime
E’ uno dei più grandi antropologi contemporanei. Si occupa di studi sulle società attuali e in particolare di intercultura, razzismo e pluralismo culturale. Insegna Antropologia Culturale all’Università degli Studi di Genova e è autore di numerosi saggi e studi sulle società africane e sulla complessità culturale delle società occidentali.

«Le culture sono un insieme di pezze, cocci e stracci». Così il celebre antropologo statunitense Clyde Klukhohn scriveva nel suo bellissimo Mirror for Man1, creando non pochi malumori nel mondo accademico. Infatti, l’immagine della “purezza” culturale affascina da sempre molti studiosi e soprattutto molti politici, che la vorrebbero usare come arma per sancire differenze e demonizzare l’altro. La realtà storica ci dice però che le nostre esistenze sono intrise di ibridazioni e di meticciati biologici e culturali. Nonostante ciò molte delle retoriche politiche e mediatiche contemporanee evocano sempre più spesso l’immagine delle “radici”. Gli uomini, però, possiedono piedi e non radici e come afferma il grande paleontologo André Leroi-Gourhan, la storia dell’umanità inizia con i piedi. Gran parte del nostro essere umani dipende dalla posizione eretta, per conquistare la quale i piedi sono fondamentali. «Eravamo disposti ad ammettere qualsiasi cosa, ma non di essere cominciati dai piedi»2, scrive Leroi-Gourhan.

Eppure, la metafora delle radici sembra sconfiggere la realtà e lo fa grazie al fatto che, come sostiene Maurizio Bettini, nessuno ha mai visto la propria tradizione, né la propria identità o la propria cultura, ma tutti abbiamo visto delle radici. A tale proposito Bettini cita Cicerone, il quale sosteneva che ogni metafora «agisce direttamente sui sensi e soprattutto su quello della vista, che è il più acuto (…) le metafore che si riferiscono alla vista sono molto più efficaci perché pongono al cospetto dell’animo ciò che non potremmo né distinguere né vedere». La metafora, se particolarmente forte, finisce per trasformarsi in un dispositivo di autorità e diventare una sorta di dogma a cui tutti fanno fede.

In particolare, la metafora delle radici evoca una serie di elementi, che finiscono per costituire la base di ideologie esclusiviste. Primo perché, se presa letteralmente ci dice che noi non potremmo essere altrimenti da ciò che siamo, che la nostra cultura e la nostra identità sono segnate fin dalla nascita. Dalle radici di una quercia non può che nascere una quercia, non verrà mai fuori un castagno o un pioppo. La nostra identità verrebbe quindi, tramite le radici, dalla terra, quella terra: di qui il tragico binomio Blut und Bloden (terra e sangue) su cui si è fondata l’ideologia nazista. Inoltre, paragonata alla radice, qualsiasi tradizione diventa fondamentale, anche dal punto di vista biologico, rispetto agli individui, non se ne può fare a meno, pena la morte.

La metafora delle radici rimanda a origini, pure e incontaminate, che attribuiscono ogni espressione culturale di una società a quella stessa società, escludendo ogni influenza o contaminazione esterna. È quanto affermavano gli estensori del Manifesto della razza, redatto il 15 luglio 1938, triste preambolo alle leggi razziali che sarebbero seguite di lì a due mesi: «È una leggenda l’apporto di masse ingenti di uomini in tempi storici».  Anche qui l’intento degli autori era di “sfrondare” eventuali elementi contaminanti, per dare vita alla rappresentazione di un popolo “puro”, alieno a ogni elemento che non fosse autoctono.

Sono state e sono molte le società umane che tendono a raccontarsi come autoctone e immuni da apporti esterni. Si tratta però di narrazioni, per non dire di finzioni, di ricostruzioni del passato basate sulla selezione di elementi che tornano comodi o utili al presente a cui talvolta si aggiungono altri elementi più o meno inventati o manipolati, come ci hanno brillantemente dimostrato Eric J. Hobsbawm e Terence Ranger nel loro L’invenzione della tradizione3. Narrazioni che si rivolgono soprattutto alla vera o presunta memoria di un gruppo, la storia, però, racconta cose diverse.

Forse aveva ragione Pascal a dire che gran parte dei problemi dell’uomo nascono dal fatto che non è capace a stare chiuso nella sua stanza, sta di fatto che la storia dell’umanità è fatta di movimenti, di incontri (e di scontri) e di scambi. Tutta colpa dei piedi, che non ci immobilizzano a terra come le tanto evocate radici, ma ci consentono di spostarci e ci spingono a farlo, per necessità o per curiosità. Se ciascuno fosse rimasto a casa sua, oggi potremmo forse parlare di razze umane. È vero che se ne parla comunque e in tragica abbondanza, ma la scienza e in particolare la genetica hanno ormai decostruito totalmente il concetto di razza, proprio a causa dei numerosissimi spostamenti dei gruppi umani nel corso di tutta la loro esistenza4. Incontrandosi e scontrandosi i nostri antenati si sono scambiati geni in quantità tali da trasformarci in individui talmente meticciati da non rendere più possibile una classificazione di carattere razziale, cioè fondata su basi biologiche. Allo stesso modo e forse con ancora maggiore facilità, si sono scambiati idee, concetti, invenzioni, termini linguistici da fare sì che ogni cultura sia di per sé ormai multiculturale, in quanto nata dal prodotto di questa lunga e ininterrotta catena di scambi, che qualcuno vuole e può leggere in chiave positiva mentre altri la interpretano in chiave negativa, definendo il prodotto di quelle interazioni come “contaminazioni”.

Vale allora la pena di ricordare alcuni passaggi di un celebre saggio dell’antropologo Ralph Linton, che scriveva:

«Il cittadino americano medio si sveglia in un letto costruito secondo un modello che ebbe origine nel vicino Oriente. Egli scosta le lenzuola e le coperte che possono essere di cotone, pianta originaria dell’India; o di lino, pianta originaria del vicino Oriente. Si infila i mocassini inventati dagli indiani delle contrade boscose dell’Est, e va nel bagno, i cui accessori sono un misto di invenzioni europee e americane, entrambe di data recente. Si leva il pigiama, indumento inventato in India, e si lava con il sapone, inventato dalle antiche popolazioni galliche. Poi si fa la barba, rito masochistico che sembra sia derivato dai sumeri o dagli antichi egiziani.

Andando a fare colazione si ferma a comprare un giornale, pagando con delle monete che sono un’antica invenzione della Lidia, la sua tazza è fatta di un tipo di terraglia inventato in Cina; il suo coltello è di acciaio, lega fatta per la prima volta nell’India del Sud, la forchetta ha origini medievali italiane, il cucchiaio è un derivato dell’originale romano. Prende il caffè, pianta abissina in cui mette lo zucchero, estratto in India per la prima volta. Mentre legge sul giornale i resoconti dei problemi che si agitano all’estero, se è un buon cittadino conservatore, con un linguaggio indo-europeo, ringrazierà una divinità ebraica di averlo fatto al cento per cento americano»5.

NOTE

  1. C. Klukhohn, Lo specchio dell’uomo, Garzanti, Milano, 1979, p. 12
  2. A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, Einaudi, Torino, 1964
  3. E. J. Hobsbawm, T. Ranger (a cura di), L’invenzione della tradizione, Einaudi, Torino, 1987
  4. Cfr. L. L. Cavalli-Sforza, Geni, popoli, lingue, Adelphi, Milano, 1996, G. Barbujani, L’invenzione delle razze, Bompiani, Milano, 2006
  5. R. Linton, Lo studio dell’uomo, il Mulino, Bologna 1973, pp. 359-60
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