Un nuovo pomerio ci attende.
Non sono più soltanto i confini geografici a rappresentare lo spazio di nuove soglie nelle quali accogliere. Questa inattesa, e a tratti sorprendente, ospitalità, riguarda anche le discipline manageriali chiamate ad ibridarsi, ad esercitare l’arte musiva, quella degli artigiani del mosaico in cui le singole tessere si compongono avendo chiara l’immagine complessiva e senza perdere il senso della singolarità. Tra queste ibridazioni una che sta occupando da tempo i miei studi dentro un campo di ricerca-azione è quella tra le humanities e il management, attraverso l’utilizzo dei diversi e multiformi linguaggi culturali ed artistici (dalla letteratura al teatro, dalla musica all’arte visiva) applicati alla formazione e al mentoring manageriale e ai think tank aziendali.
Calvino suggerisce che «ci dovrebbe essere un tempo nella vita adulta dedicato a rivisitare le letture più importanti della gioventù». Nell’accumulazione di saperi specialistici e parcellizzati può annidarsi «la possibilità di nuova ignoranza»1: è l’avvio e l’affermazione di una battaglia, a vincitori spesso alterni, contro gli specialismi. «Di fronte all’emergenza tragica in cui ci troviamo, le stesse discipline chiamate convenzionalmente ‘letteratura’ e ‘filosofia’ si caricano di un valore nuovo. È un valore che esse ovviamente possiedono da sempre, ma che ora si impone di nuovo con forza, spingendole fuori dalle loro sfere separate e specializzate»2. Lo specialismo è un bene se gli specialisti sanno lavorare, agire, pensare anche come squadra e intelligenza collettiva, come pensiero di rete, come società di apprendimento per citare Joseph E. Stigliz e il suo imparare a conoscere. Dei “danni dello specialismo”3 siamo più o meno tutti coscienti e ne abbiamo subìto le conseguenze: dal sistema educativo e della formazione fino a quello della cultura d’impresa, ogni volta e laddove gli specialisti non hanno preso consapevolezza di essere parte di un insieme, di essere una fra le tessere con la propria singularis historia capace di intendere e avere la visione del mosaico che si sta componendo con le altre. È il bricolage, l’arte di comporre e ricomporre, che fa la differenza nella governance e nello sviluppo delle organizzazioni, la capacità di ri-conoscere la dipendenza (sana, generativa, svelatrice) nei confronti degli altri e l’intima interconnessione che caratterizza le persone come manager, imprenditori, professionisti, operatori, inventori, innovatori, imitatori. È la capacità di costruire un sapere a vasi comunicanti di modello archimedeo, fortemente radicato e ispirato dalla storia e dalle storie degli altri. «I principi dello scientific management mostrano tutta la loro vacuità. Lo humanistic management arriva in soccorso. La complessità è un balsamo per la mente. La frase più importante nel lessico del leader, ormai, non può che essere, come afferma Tom Peters, ‘non lo so’»4. È soltanto grazie al consapevole riconoscimento dei propri limiti e della apparentemente irragionevole ammissione di ignoranza – il “So di non sapere” caro a Socrate – che l’essere umano ha progredito nella propria evoluzione, non solo scientifica, come le humanities e i classici ci raccontano.
Parlare di humanities & management significa inoltre portare all’interno della discussione le antinomie, le grandi domande esistenziali, e infine, accettare il paradosso come categoria di pensiero e spazio di negoziazione. Il Cardinale Gianfranco Ravasi in uno dei suoi discorsi del Cortile di Francesco, a proposito della parola “incontro” evidenzia proprio come sia composta da parole autonome e antinomiche: “in” e “contro”: “il dialogo è ‘in’, ma è fondamentale anche il ‘contro’, il riconoscimento delle diversità”. Dove diverso non è soltanto quello che non sta nel nostro recinto, nel cortile dei gentili (per citare un altro ambito di pensiero e di discussione caro a Ravasi) o all’interno di quello che era il pomerio romano5, ma è anche tutto ciò che appartiene a sfere dissimili, come lo sono le humanities e il management oggi, mentre alcuni secoli fa scienze dure e soft skills andavano d’accordo costituendo le arti del trivio-quadrivio. Sempre a proposito di paradossi in ambito manageriale, sono interessanti quelli utilizzati da Walter Ruffinoni in tema di leadership6:
humble hero/traditioned innovator
globally-minded/localist
guidare/essere guidati
affermare/chiedere pareri
rendere spazio/saperlo concedere.
In fondo sono sempre i soggetti, le persone, i veri agenti del cambiamento, i soggetti “driven by purpuse not devoted to object”, qualunque siano i purpose e gli object. Abbiamo da rispolverare la fatidica domanda (troppo spesso negletta in qualche cassetto chiuso della nostra mente): per chi? E non solo: come? Per chi operiamo, gestiamo, organizziamo, viviamo, esistiamo. Abbiamo bisogno di riappropriarci di una forma mentis sistemica, senza creare separazioni e riduzionismi, in una dimensione spazio-temporale che – costitutivamente – nasce per durare, per sopravvivere a chi ne è promotore. In altre parole, questo nuovo corso che ci viene affidato da un trauma, come sovente è accaduto nella storia, è una chiamata a sostenere nuovi percorsi di innovazione ed evoluzione, consapevoli che non può esservi vera, completa, autentica sostenibilità, se non viene investita anche la sfera economica insieme a quella culturale. Questo è un passaggio fondamentale che permette di tornare a domandarci quali siano le finalità, prima ancora di individuare le azioni e i mezzi, e da queste tracciare il percorso, sentendosi parte di qualcosa che non è soltanto un villaggio globale ma una comunità di persone. Una nuova e contemporanea forma di comunità – quella dei culturemaker – i cui riferimenti e le cui radici sono la caverna, la piazza, la fontana, l’albero, la costruzione della cattedrale, di cui siamo figli ed eredi7.
Abbiamo (finalmente) più chiara la differenza tra operare in maniera emergenziale e farlo con un approccio strategico che nutra visioni, non solo la vision manageriale.
Abbiamo cominciato a comprendere il senso profondo di parole in larga parte rimosse o dimenticate, come cura e attenzione, ma anche premura ed empatia.
Secondo Jeremy Rifkin, noi non siamo già più Homo sapiens sapiens ma Homo empathicus. Ne ha fatta di strada Lucy, «la nostra antenata vissuta oltre tre milioni e mezzo di anni fa, alta un metro e cinque centimetri e con il cranio grande quanto una noce di cocco». L’empatia è stata chiamata in causa anche per difendere l’utilità sociale delle humanities contro i tagli dei finanziamenti nell’insegnamento e nella formazione. Cosa infatti può maggiormente educare e sviluppare l’empatia se non le humanities? Alcune teorie enfatizzano proprio il ruolo dei romanzi e di altri generi letterari nel potenziare il sentimento empatico. Secondo la filosofa statunitense Martha Nussbaum, «l’immaginazione narrativa è una ‘immaginazione compassionevole’, componente importante di una posizione etica e ‘altruistica’». Un management adeguato ad un’impresa altruista si può forse confondere (verbo da intendere qui anche in una accezione con sfumature giuridiche, confusione come estinzione e dunque come atto con cui si annullano i confini tra profit e no profit) con la gestione di un’impresa che nega lo scopo primario di produzione di profitto? Sappiamo che non è così: la creazione di valore e lo scopo benefit (insieme al profitto), la consapevolezza di una visione stakeholder driven e non solo shareholder oriented, le nuove legacy di comunità, gli indicatori ESG (enviromental, social, governance), sono solo alcuni dei criteri che stanno ri-significando la missione aziendale e il ruolo dei manager nelle imprese.
Sempre meno manager-manager (parafrasando sapiens sapiens) e sempre più manager-culturemaker.
NOTE
1. Ceruti Mauro, Bellusci Francesco (2023), Umanizzare la modernità. Un modo nuovo di pensare il futuro, Raffaello Cortina Editore, Milano, p. 53
2. Benedetti Carla (2021), La letteratura ci salverà dall’estinzione, Giulio Einaudi Editore, Cles – Trento, p.121
3. Si veda Granata Elena (2021), Placemaker. Gli inventori dei luoghi che abiteremo, Einaudi, Torino
4. Cerni Enrico (2021), Dante per manager, Il Sole24Ore, Milano, p. 191
5. Presso i Romani, spazio di terreno sacro e libero da costruzioni che correva lungo le mura della città all’interno e all’esterno. Lo scopo di questa fascia intorno alle mura doveva essere originariamente militare e religioso, e il p. era considerato il limite degli auspici relativi alla città; per il suo carattere sacrale, era proibito attraversarlo in armi e solo fuori di esso cominciava l’imperium militiae. Con lo sviluppo della città, la relazione originaria fra cinta fortificata e p. andò scomparendo. La tradizione parla di un p. romuleo intorno al Palatino; il p. si allargò poi in rapporto alla cinta serviana, fu ampliato da Silla, Claudio, Vespasiano, Aureliano. Il diritto di allargare il p. era concesso solo a chi avesse esteso con conquiste lo Stato romano. Fonte: Enciclopedia Treccani. Con il passare degli anni il pomerio si è gradualmente allargato fino ad includere quei popoli originariamente non romani, gli Italici, andando a costituire la prima rappresentazione di Italia prima dell’Italia
6. Ruffinoni Walter (2019), Italia 5.0. Un nuovo umanesimo per rilanciare il paese, Mondadori, Milano, pp. 156-158.
7. Si veda Sanesi Irene, “Che cosa significa essere culturemaker”, in Artribune Gestionalia, 22.7.2022. https://www.artribune.com/professioni-e-professionisti/2022/07/culturemaker/.