L’omino Glonky

Autore

Fausto
Nato a Trento nel 1998, ha studiato filosofia presso le Università di Trento e Bologna. Da sempre appassionato di letteratura e osservatore del mondo naturale.

Quel pomeriggio iniziai a decidere della mia vita.
Prima di conoscere l’omino Glonky avevo paura di ogni cosa. 
«Anche di una formica che deve ancora nascere», come aveva detto sul regionale una signora dai capelli rossi. Rivedevo la sua chioma nel cupolone di San Luca che dominava i colli ondulati.
La prima volta che provai gli Atlantis ci ero andato coi piedi di piombo. Non volevo prendermi male e creare un brutto precedente. Mi ero tenuto persino sotto i due grammi, che sarebbe la dose standard, consigliata in base al calcolo del mio peso e dello stadio di essiccazione dei funghi. A parte una grande ovatta nelle orecchie e i colori pastellosi, non avevo sentito effetti sconvolgenti. Avevo ascoltato i King Crimson e la consideravo la prima volta, perché mai avevo così tanto apprezzato il mixaggio e la selezione degli effetti sulle chitarre. Leccandomi le labbra ero ridisceso e, dopo una doccia gelata, avevo ordinato una pizza cafona per riprendermi. Affinché il veleno faccia effetto a dovere, occorre restare a digiuno per almeno un paio d’ore. Per non sbagliarmi, io facevo digiuno intermittente e tenevo lo stomaco vuoto in doppia cifra. Infatti quando arrivavo in cima alla collina avevo già gli svarioni e per qualche minuto gli Atlantis non sembravano necessari. 
Questa volta dovevo aver sgravato. Avevo sostanzialmente raddoppiato la quantità precedente, eppure nella prima mezz’ora pensi sempre che non stia salendo nulla. 
Fu la musica elettronica ad avvisarmi dell’invasione. Come partirono gli Empire Of The Sun, mi spuntò un sorrisone languido e tutto il cielo iniziò a respirare, liberato dalle catene in cui lo tratteniamo. La terra era rimasta bagnata, la sentivo penetrare il telo induista su cui stavo sdraiato. Un attimo dopo il tratto di grigio era sereno. Il vento accelerava le visioni in maniera vertiginosa, ogni singolo istante durava meno del previsto. 
Cercavo di abituarmi alla nuova velocità del pensiero, che non mi dava tregua, quando sentii rintoccare una campana e iniziai a non starci dentro. Considerando che era il primo rintocco in tutto il pomeriggio, quella campana non doveva esistere e doveva essere il grido della mia coscienza che si rintanava al sicuro. Oppure andava a nascondersi dietro le nubi, lasciandomi indifeso davanti a loro che adesso buttavano fuori enormi orecchie da coniglio e mi squadravano con dei sorrisi cattivi, affilati.  Da lì in poi tutto iniziò un moto inarrestabile. Un centrifugare di colori saturati e suoni che salivano dalle buche nel terreno. Soprattutto cori e urla improvvise, fossero le cornacchie o le sirene di terra. Il maltempo galoppava alle mie spalle e lanciava sfumature violacee dappertutto, riflettendo i pruni piegati. 
Soltanto il me stesso della collina sul piccolo altipiano che guardava dall’alto la città, i filari tutti intorno e le villette di campagna con piscina. Completa solitudine abbandonata. Non riuscivo nemmeno a mettermi seduto per riavermi, pareva di guardarmi il corpo svuotato, a petto nudo. Il ventre che andava su e giù, gonfiato dal battito accelerato. 
Dovetti strisciare verso un cartoncino di succo ACE, sperando di trovarci gli zuccheri necessari per combattere. I sorsetti svuota-polmoni ebbero l’unico effetto di stancarmi ulteriormente e di nausearmi per l’acidità del succo. Avevo sbagliato gusto, come pensavo appena uscito dal market.
Iniziavo a temere che sarei rimasto scemo a vita, guardando il mondo come Van Gogh ma senza poterlo disegnare. Anzi ne ero decisamente convinto, quando vidi la bionda sbuffare sulla salita a gradoni. Mi ricordava un’amica, la sua esatta sosia in versione grassottella austriaca. Non la sentii parlare in tedesco, ma posso assicurare che venisse da oltre il Brennero per come guardava fuori. Tirò dritto verso di me senza nemmeno riprendere fiato, nonostante l’andatura appesantita e asimmetrica. Quel «Ciao!» penso di averglielo urlato in faccia, da come è scappata senza neanche fare una foto al punto panoramico. Però ne avevo bisogno, servì a riscattarmi dal torpore, a ritrovare la dimensione della vita attiva. Da quel momento non vidi più i mostri nelle nuvole e mi compiacevo della mia stupidità, consapevole che sarebbe fuggita come l’eco nelle vallate. Vorrei incontrarla nuovamente, stavolta sotto la collina, per ringraziarla come si deve. 
Riuscii ad alzarmi e a raccattare tutte le mie cose, compresi gli involucri di plastica che avvolgevano i succhini e i wafer alla nocciola. Li avevo scartati senza mangiarne neanche uno. Magicamente, la collina riprese a popolarsi di umani che facevano pascolare i cani casalinghi. Mi salutavano tutti senza giudicarmi, sinceramente ingenui oppure lieti di vedermi tornato in mezzo all’umanità. Costeggiai qualche alberello, bloccandomi di tanto in tanto sotto le sue fronde, il cervello buggato. Non so quantificare per quanto mi tenni il pisello in mano, posso solo dire che non ne uscì nulla e me lo rificcai nei pantaloni. Arrivai alle panchine in legno e tornai a riposarmi, ché le gambe avevano un’autonomia ridotta. In lontananza, i boschetti tremavano dal freddo e si mescolavano fra loro, presi in una ressa da metropolitana. 
Dovevo essere al picco degli effetti quando apparve l’omino Glonky. 
Era sbucato fuori dalle nuvole, continuamente spostate e diramate in trame caleidoscopiche. Vedevo distintamente un uomo col cilindro, tipo il simbolo del marchio di whisky, passeggiare su di un monociclo. Con sé trascinava nel cielo le scie chimiche degli aerei, che vedevo continuare ad alternarsi fra decolli e atterraggi. Ricordava il dio Elios che trasporta il sole sopra il mondo greco. 
«Ciao, TT». Me lo disse con la mia voce, che una misteriosa intelligenza artificiale aveva reso in stile fantasy. Agitava anche la mano, allora io agitavo la testa e mi dicevo: «Stai fuor di gabana, riprenditi». 
Bastava chiudere gli occhi e per un attimo la vista si stabilizzava, le nuvole tornavano nuvole e gli alberi non divaricavano le gambe. Io continuavo a chiuderli per le vertigini.
Mi sembrava di poter volare via da un momento all’altro, esposto al vento ridacchiante. Mi sembrava che fossi leggero. Ogni volta che li riaprivo l’omino Glonky era lì a guardarmi e a chiamarmi per nome, sorridente e con gli occhi da folletto. Continuava a chiedermi aggiornamenti: cosa vedessi, come le vedessi e come mi facesse sentire.  Io nuotavo nella bambagia, attutito dalla morbidezza nelle orecchie e al tempo stesso ricettivo come un monaco Shaolin. Stavo sulla panchina ancorato fisso come le parole che non potevo neanche decidere. Mi si deformavano in testa e mi facevano ridere perché non esistevano. Immerso da un’infinità di stimoli, senza riuscire a descriverli. «Mi rendo conto che tutto è molto poco poetico», dicevo all’omino, ormai rassegnatomi della sua esistenza. Qualsiasi cosa gli dicessi, quello prima rideva come un gobelino, poi rispondeva a modo suo. «Però è un po’ il punto dell’esperienza, TT. Capire che il linguaggio non esprime». Da come ragionava, sembrava avere i miei stessi pensieri, però dotati di maggiore chiarezza e svuotati da ogni paura. 
Pensai che fosse la personificazione del me stesso sulla collina, che diventavo quando mi mangiavo gli Atlantis sul prato bruciato dall’estate.
Se mi avessero visto dal camminamento, mi avrebbero sicuramente considerato pazzo, visto che parlavo al panorama. «Natura sei ufficialmente risvegliata dopo la pioggia che hai fatto prima». Adesso i piccoli colli bolognesi erano stabili, il santuario meno rosso del solito. Mi asciugavo al sole e giravo sigarette a nastro. «È l’unico modo che ho di esistere, a questo punto». Altra ilarità acuta. Mi guardava fra le dita togliendosi il cilindro. «Quanta difficoltà, TT». 
Mentre si divertiva, il cielo intesseva un mosaico tutto suo: pixel ma definiti al massimo, tasselli di blu e azzurro a qualsiasi grado. L’omino Glonky si stagliava sui tasselli e ogni tanto li sostituiva. Pensavo si arredasse il bagno di piastrelle. Gettato il filtro ingiallito- nella fumata era emersa la texture delle mie mani, piene di screpolature minuscole e macchioline ovunque- iniziai a riconoscermi nei tasselli.
L’omino me ne indicava uno per volta, pari a un agente del FBI che analizza le fotografie intercettate. 
In uno vedevo Marta, che non mi scriveva da tre giorni e non dava segno di pensarmi da ancor prima. Io mi ero imposto di non elemosinare attenzioni, l’omino Glonky annuiva con la bocca a bacino e sembrava d’accordo. Quando discesi dalla collina le riportai la maglia che mi aveva abbandonato, la salutai col sorriso e non le dissi che non l’avrei più cercata. 
In un altro c’ero io al lavoro. Allungato verso i piani superiori degli scaffali, piegato al monitor per cercare manuali sperduti o robaccia da finti intenditori, in spalla gli scatoloni dei restock. Il lunedì successivo il responsabile del punto vendita mi guardava fuori dalle orbite. «Sei ufficialmente impazzito.», e intanto mimava a una collega di spulciare altri curricula per rimpiazzarmi, «dopo tutto quello che ho fatto per te». «Direi che è reciproco», gli risposi freddo, «tu mi hai dato un lavoro e io ti ho dato un lavoratore». Lo lasciai dietro al bancone, con il mio tesserino che ancora gli volava contro di taglio. Non avrei più venduto un singolo libro che non fosse scritto da me. Qui l’omino mi indicava dopo un grande assist. Una tripla contestata.  Continuò a svelare scene per non so quanto tempo dilatato. 
Mia madre ritta sulla porta, due dita a tamburellarsi il polso e io barcollante a togliermi le scarpe. La signora rossa che tossicheggiava sul regionale, la sua formica che doveva ancora nascere. Ginocchia sbucciate; verdure mediterranee ripiene di macinato e schiaffate a sudare nel forno; l’odore della vernice che si applica sul legno quando è esposto alle piogge. Ci correvo scalzo e infantile, in lacrime perché le vespe si nascondono nell’erba e aspettano soltanto le tue suole. Strofinaci dell’aglio crudo e vedi che ti passa. Il professore che mi guardava male e mi chiedeva di tornare a trovarlo. I nonni che chiedevano di non tornare più, per guardarli in quello stato. 
Tutti i grandi ricordi e alcuni possibili futuri. Forse erano contraffazioni, non conoscevo alcuni volti che l’omino Glonky cacciava dal paesaggio. Giocava un memory curativo. 
Mi vedevo da fuori e capivo di sbagliare tantissime cose. Riuscivo a dirmi meglio cosa mi stava bene e cosa non era in palette. Tutte cose che già sapevo, apparivano come pesi insopportabili ora che avevo le tempie massaggiate. Figuravo bene ciò che avrei fatto. Avrei dovuto chiedere scusa a un’infinità di gente e non me ne vergognavo, mentre li guardavo sopra la città rossa.
L’ultimo pixel che estrasse ritraeva il me stesso della collina avvelenato, che faticavo grondante sulla scalinata in legno profumato e poi mi dimenavo sul prato umido, preso dalle convulsioni. Senza zuccheri e salvato dalla bionda austriaca.
Lì seppi che l’omino Glonky aveva concluso la partita. Infatti mi planò affianco a guardare l’opera. Il vento non aveva mai rallentato, talvolta mi succedeva di sorridere o di farmi prendere dalla corrente e arrivavano degli spasmi cerebrali. L’impressione era di una scossa elettrica rapidissima, un cortocircuito di un input troppo forte. Non era per nulla dolorosa ma mi chiedevo che cosa fosse. «Se ce l’avessi sempre, follia». 
Sentii la mano dell’omino posarsi sulla spalla, allora lo guardai e capii che stavo lentamente tornando in me. Coerentemente, la sua risata scemava piano piano. Rimaneva un’impressione in fondo al timpano e mi venivano i dubbi di cosa avessi ascoltato. Riuscì a rispondermi prima di tornare nelle nuvole. «Tu sai benissimo cosa hai avuto e cos’hai ora. Forse bisogna aspettare il momento giusto, come prima».  Mi alzai dalla panchina, le gambe erano di nuovo sveglie e volevo esplorare le colline per perdermi nei colori pastello. «Datti tempo, funziona sempre». 
L’omino Glonky non aveva bisogno di sentirsi dare ragione. Il suo gioco era terminato e doveva rincasare. Avrei voluto dire grazie anche a lui. Lo farò la prossima volta. Lanciò il cilindro giù dal crinale. Questo scomparve tra gli arbusti rinsecchiti, da cui vennero sputati fuori milioni di piccoli corvi agitati. 
Con un cenno mi salutò, con il suo linguaggio non poteva esprimermi più nulla. Eppure sapevo che mi avrebbe aspettato lì, dove la paura va a nascondersi nel caleidoscopio, solo quando sarei stato di nuovo pronto. Adesso serviva una pizza cafona per riprendersi. 

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