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Il pezzo disperso

Autore

Adriana Giovannini Lavoretti
Adriana Giovannini Lavoretti nasce a Roma il 1 marzo 1995. Si laurea al DASS (Arte e Scienze dello Spettacolo) all'Università degli Studi di Roma La Sapienza e lavora come Assistente Regia per cinque anni nel cinema dedicandosi parallelamente alla scrittura. Nel 2022 pubblica la sua prima raccolta di Poesie Genti, poesie d'amore solitudine e rabbia edita da Eretica Edizioni.

Tutto. Non far mancare nulla, non lasciare spazio, riempire. Un riempimento inconscio automatizzato. Forme, modelli, parole, colori. Suoni incessanti, rumori di sottofondo, piaceri consumati, infinite possibilità, concessioni, prove su prove. Eppure, non appagati ‘del tutto’, si sente che qualcosa ancora manca e si continua ad avanzare nel mondo alla ricerca del pezzo disperso della figura: la nostra. Una rappresentazione che rimanda perfettamente all’idea di un’esistenza frammentata è quella che crea Alighiero Boetti, nel 1988 con la sua serie Arazzi, di cui il suo Tutto è una delle opere maggiori. Una tela riempita di colori, forme infrante, oggetti, corpi, geometrie confuse accatastate tra loro come pezzi di scarto. Il pittore decide volutamente di non scegliere. L’artista si affida al caos. Vuole, sente un necessario bisogno di ricoprire il bianco con particelle causali come rappresentazione dell’esistenza contemporanea. Se ci si sofferma ad osservare il suo Tutto, il nostro Tutto, la terra in cui viviamo, ogni brandello di figura appare sempre castrata nella sua stessa fine. Un immenso ammasso di solitudini, dalle quali si generano altre solitudini, altri non sense creativi. Si vorrebbe scoprire di più di quel briciolo di espressione nella forma, proseguirla in ogni sua possibilità e non vederla così limitata, così spezzata, così finita in sé stessa dentro il mondo, così sola. Ecco che, mentre l’occhio entra in una figura, mentre esplora il suo colore, la sua linea, arriva quasi subito al termine della sagoma e deve irrimediabilmente uscirne fuori. Continui coiti interrotti. L’espressione diviene subito altro fuori da sé. Ci confonde, ci spiazza, ci taglia. Il contorno si interrompe casualmente generando ‘altro’. Altre scene, altri movimenti, altre vite. Distinte. Diverse. Ripetute. Il mondo come ritratto di un ordine accidentale, un postumo big bang della creazione, un’esplosione che vive satura di frantumi nello spezzettamento di sé. Qualcosa continua a mancare, un vuoto incolmabile, una necessità.  A cosa si sta rinunciando? A cosa si sta scegliendo di abdicare nell’accumulo dissennato?  Manca la continuità, il collante. Esseri finiti, pieni di contorni, di limiti, come valicare quell’impossibilità di desiderare altre rappresentazioni senza morire nelle stesse?

Quale è la nostra ricerca all’interno del Tutto? Noi stessi. Viviamo nell’angoscia eterna di non riuscire a creare un intreccio che ci dia l’idea di interezza, che dia un futuro alla nostra fine, alla nostra riduzione.  “La riduzione più ampia è quella che si esercita sulla pura causalità” scriveva Heidegger in risposta a Junger nello scambio pubblicato da Adelphi col titolo Oltre la linea

È questo il momento in cui ci viene d’aiuto il nostro passato, le origini, l’impalpabile memoria. “Se c’è una cosa che può sostituire l’amore, questa è la memoria” scriveva Brodskij. 

È possibile ripartire e anzi urge rientrare nel Tutto con un altro sguardo, continuare a far pulsare dello stesso sangue la figura, dare vita partendo dalla morte. Il mondo frammentato non più come diminuzione delle parti ma come ricordo delle piccole, infinite, millesime sezioni di noi: muse generatrici e non più boia da ghigliottina. 

Lasciamoci andare al desiderio di continuità, ricostruiamo. Rientriamo nel Tutto, immergiamoci stavolta cambiando paradigma, modificando sguardo, visione.

Il nostro occhio vivo si tuffa nuovamente nella tela e tra tutti i frammenti di esistenze oppresse nei loro limiti, si concentra su un singolo brandello e continua in esso. Un elefante senza coda? Una brocca? Una bocca? Un ombrello privo d’asta? Un busto di donna spezzato? Immergere sé stessi e scegliere, proseguire. 

Il torso di donna è delineato dalla forma netta di quello che sembra un costume estivo color bordeaux. Non ha né braccia né gambe, solo il busto è disegnato ed il petto tinteggiato di un verde scuro pallido. La sua bellezza è disunita nella rappresentazione dell’artista, appare sola, accanto ad una forma che non la rende viva, non le dà interezza. Si desidera continuare in lei, ci si affida all’immaginazione nella sua rievocazione utilizzando la nostra esperienza nel mondo. È possibile forgiare allora una gamba da quella linea adiacente all’inguine. La coscia prosegue fino al polpaccio, alla caviglia e poi in un piede con due dita visibili e le altre no.
Ah eccole, son vive anche loro, sono immerse nell’oro della sabbia. Disegnare, immaginare, plasmare anche l’altra gamba partendo dal suo contorno, l’inizio del ginocchio. L’arto si estende leggermente flesso e traccia, nel vuoto che si crea con l’altra gamba, un triangolo dagli angoli smussi. Il torso ora è ben saldo a terra ma rimane ancora mozzato. Non è possibile fermarsi, occorre continuare la figura, c’è bisogno di insieme. Quella donna è un incanto, il suo corpo anela alla vita. Dalle spalline del costume si sviluppano due braccia, sono intrecciate in loro stesse, conserte ma morbide e leggiadre. Non vi è rigidità. Le mani dalle lunghe dita sostano sotto i seni, son poggiate sugli avambracci, questi le accolgono come il tempo che passa. I pollici accarezzano l’estremità bassa del decolleté, le spalle tirate indietro ne risaltano la grazia. Forse quella donna attende qualcosa? Ancora non si sa dove mira il suo sguardo, non esiste ancora. Si crea il collo, nasce la mandibola, il mento, le labbra, il contorno della bocca che continua nella pelle del suo viso. Di lato i suoi zigomi e poi i suoi occhi, la fronte ed un’onda sontuosa nera lungo le spalle: i suoi capelli. Ora è intera, ora la si può riconoscere. È unita.
È viva nel mondo.  

I pezzi dispersi son stati ricongiunti dalla memoria. È gioia, non più solitudine nel Tutto.
Dove vive il suo corpo? Cosa sta guardando? Cosa c’è dietro la sua schiena?
Si potrebbe continuare all’infinito.  Vivere per sempre in lei, in noi. 

La Musa, il pezzo disperso, ha generato una nuova forma continuando nella sua propria natura in una visione più ampia, estesa. Appartiene al Tutto senza sentirsi estraneo ad esso. È fastidioso tutto ciò che cancella fugacemente la relazione duale, tutto ciò che altera la complicità e allenta il legame di appartenenza: “Tu appartieni anche a me”, dice il mondo” (Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso)

E dal ricordo, dal bisogno di appartenenza, cresce in noi il desiderio di continuità.
Anche il Tutto di Boetti può divenire, infine, un piccolo frammento nel mosaico del mondo.
Le stesse frammentazioni all’interno dell’opera portano a desiderarne di altre; il limite della cornice del quadro induce a voler riempire ancora di Tutto il contorno, lo spazio fisico o virtuale da cui lo osserviamo, da cui ci osserviamo.

Fuori il confine noto del rettangolo dipinto, del globo, al di là delle forme, al di là dei nostri corpi, delle nostre emozioni e dei nostri sentimenti, nasce in noi in un doloroso distacco, un embrione primigenio di bisogno di futuro: la volontà di continuare anche in quella frammentazione. Nel desiderio, nell’urgenza di non porre fine alla castrazione della forma, germoglia in noi l’idea di insieme, l’Uno, il coesistere. Generare partendo da dentro, nel ricordo di sé stessi, una continuazione nell’oltre noi, non più ‘altro’ da noi.

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