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Da vicino

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Don Cristiano Bettega
Don Cristiano Bettega è nato il 26.03.1967 a Transacqua, Trento. È stato ordinato prete nel 1998. Ha conseguito un Dottorato in teologia dogmatica a Francoforte sul Meno Hochschule Sankt Georgen nel 2006, con una tesi sull’approccio trinitario nella teologia della storia in Bruno Forte (Theologie der Geschichte. Zum trinitarischen Ansatz der Geschichtstheologie Bruno Fortes). È stato responsabile della pastorale vocazionale per l’arcidiocesi di Trento dal 2007 al 2013, poi docente di dogmatica presso l'ISSR "Romano Guardini" (già Studio Teologico Accademico) di Trento, presso il Corso Superiore di Scienze Religiose della Fondazione Bruno Kessler di Trento (fino al 2015), presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Bolzano (fino al 2020), presso la Scuola di teologia della Missione Cattolica Italiana di Mainz (Germania) negli anni 2012-2015, presso l’Istituto di Studi Ecumenici (ISE) “San Bernardino” di Venezia, presso l’Istituto di Teologia Ecumenica (ITE) “San Nicola” di Bari. Da ottobre 2013 a settembre 2018 Direttore dell’ufficio nazionale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della Conferenza Episcopale Italiana, in seguito delegato vescovile per l’Area Testimonianza e Impegno sociale dell'Arcidiocesi di Trento.

Nella basilica vaticana sono entrato per la prima volta un sacco di tempo fa. Chiaro, ancor prima di varcare la soglia sapevo quale spettacolo si sarebbe presentato ai miei occhi: San Pietro godeva di un’altissima visibilità anche nei decenni scorsi, infatti. Dopo il primo senso di meraviglia, però, sono stato guidato ad entrare poco per volta in alcuni dei molti dettagli della basilica. E ricordo molto bene di essere stato colpito dal fatto che i tanti altari disseminati sotto le volte michelangiolesche non presentano le classiche pale dipinte, così usuali in tantissimi altri edifici sacri coevi, ma dei mosaici. Da lontano non me ne ero accorto, e men che meno dalle immagini che la TV faceva entrare anche a casa mia; è stato necessario trovarmi là, essere in qualche modo avvertito di questo particolare e poterlo vedere da vicino. 

Sciocchezze, potrà pensare qualcuno. Per me non è stato così; al punto tale che ancora oggi, a distanza di anni, questo particolare torna a galla vivacemente nella mia memoria e mi aiuta a capire come la realtà che sta davanti ai nostri occhi abbia sempre bisogno di essere guardata non solo da lontano, magari fugacemente, ma attenda invece di essere indagata, studiata, contemplata quasi: e da vicino. 

Ho l’impressione che qualcosa di analogo stia succedendo anche alla nostra percezione della realtà sociale e antropologica in cui viviamo. Senza pretendere chissà quale competenza in materia, il rischio di limitarsi a guardare il mondo che ci circonda in modo veloce e per forza di cose superficiale, e magari anche con l’arroganza di averlo capito, mi pare molto diffuso. Non solo le nostre città, ma anche le borgate e i paesi di dimensioni più modeste hanno oggigiorno un volto plurale: lingue, culture, abitudini, fedi accostate l’una all’altra. Possiamo far finta di non accorgercene, possiamo anche protestare contro chissà chi o guardare con malcelata nostalgia ad un passato socialmente monocromatico, dove tutti erano uguali e parlavano la stessa lingua e frequentavano la stessa chiesa; ma con quale risultato? A che pro pensare ostinatamente che “una volta sì che si stava meglio ed era tutto più facile!”? Ammesso che lo fosse davvero. Non varrebbe la pena provare a cambiare il nostro sguardo, piuttosto? Partendo dal presupposto che le differenze non sono sinonimo di problematicità ma di arricchimento, di apertura mentale e di allargamento del bagaglio culturale di ciascuna e ciascuno di noi. Da decenni le chiese cristiane hanno fermamente deciso di intraprendere un cammino ecumenico, che le aiuti a vedere le chiese “altre” non come antagoniste o nemiche ma come sorelle, le cui diversità sono complementari le une alle altre; e analogamente le grandi religioni del pianeta da molto tempo hanno deciso di tendersi reciprocamente la mano, di inventare percorsi e progetti comuni, di riconoscere in ciascuna di esse una manifestazione di quell’anelito all’infinito che abita il cuore di ogni donna e di ogni uomo, se pur in modi diversi. Si tratta di riconoscere – per tornare all’immagine dalla quale siamo partiti – che i volti dell’umanità sono tanti e sono diversi ma hanno tutti uguale dignità e uguale ricchezza; come le tessere di un mosaico: tutte a tal punto necessarie, che quando ne manca una se ne accorge chiunque. Accogliere questo dato di fatto, infine, e provare a vederlo come fonte di crescita personale e comunitaria, non farebbe altro che avvicinarci a molti passaggi della Scrittura – mi sia consentito – in cui risulta evidente come la volontà del Dio di Israele, che poi è il Dio di Gesù e lo stesso Dio dell’islam, altro non è se non quella di una comunione sempre più grande tra popoli diversi. Uno fra tutti, lo dice Isaia con un’immagine affascinante: «Alla fine dei giorni il monte del tempio del Signore sarà saldo sulla cima dei monti e s’innalzerà sopra i colli, e ad esso affluiranno tutte le genti. […] Una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra» (Is 2,2-5). Un mosaico di popoli, diversità riconciliate tra loro, colori che si incontrano in armonia. Perché non pensare che sia davvero possibile?

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