«Debolezze.
Tu non ne avevi.
Io ne avevo una:
amavo».
Bertolt Brecht
«Siamo fatti della materia
di cui son fatti i sogni;
e nello spazio e nel tempo d’un sogno
è racchiusa la nostra breve vita».
William Shakespeare
«Se non mi amate lasciatemi,
se non sapete amare, imparate».
Carlo Goldoni
«Arlecchino è una veste di luce,
di pezze sgargianti
che sbattono sugli occhi
dello spettatore.
La luce arlecchinesca
è una continua provocazione».
Ferruccio Soleri
«I fantasmi non esistono.
I fantasmi siamo noi,
ridotti così dalla società
che ci vuole ambigui,
ci vuole lacerati,
insieme bugiardi e sinceri,
generosi e vili».
Eduardo De Filippo
«È falsa la legge che
spinge al sacrificio».
Arthur Miller
Opporsi alla barbarie, nelle sue diverse espressioni – guerra, ignoranza, violenza, indifferenza, cinismo, corruzione ecc., è stata quasi un’ossessione per Giorgio Strehler, che ha dedicato la sua vita di uomo di teatro e di intellettuale, anche con una breve esperienza politica, alla cura dello spirito civico e democratico della vita comune per l’emancipazione degli esseri umani e delle relazioni sociali.
Lo ha fatto in maniera poetica, drammaturgica, prima fondando teatri quali Il Piccolo di Milano, nel 1947, con Paolo Grassi, e Nina Vinchi, e il Theatre de l’Europe a Parigi che dette vita all’Unione dei Teatri d’Europa, quindi portando in scena, con regie apprezzate in tutto il mondo, i capolavori di autori classici e contemporanei quali Cechov, Brecht, Shakespeare, Camus, Ibsen, Goldoni, Pirandello, De Filippo, Beckett e molti altri.
Il suo pensiero è rimasto tuttavia impresso anche in una significativa rassegna di articoli e saggi, che, colmi di passione civile, partendo dalle finalità sociali e civili del teatro, si sono occupati del destino e della qualità della democrazia, con un’attenzione particolare alla costruzione dell’Europa. Un impegno peraltro tradotto direttamente da Strehler in politica, negli anni ’80, prima come deputato al Parlamento europeo, poi come senatore al Parlamento italiano.
Nel 2017, a venti anni dalla sua morte, avvenuta il 25 dicembre del 1997, il quotidiano La Stampa di Torino pubblicò uno scritto inedito di Strehler, dal titolo apparentemente stravagante: “Ecco perché è essenziale oggi parlare d’alberi”. In quel testo il Maestro si chiedeva se fosse utile e giusto preoccuparsi del Teatro in un momento, allora, che presentava gravi emergenze sociali. Strehler in proposito si appigliava a Brecht: «Viviamo in tempi oscuri in cui parlare d’alberi pare quasi un delitto!». Ma, senza alcun indugio, argomentava così il suo pensiero: “E noi parliamo d’alberi. Noi parliamo di Cultura. Perché siamo convinti che proprio oggi uno degli unici modi per opporsi alla barbarie che è tra noi consiste nel considerare la Cultura come elemento concreto, costante e non superfluo della vita, la forza attiva e folgorante dell’essere e dell’agire, la Cultura, come premessa della nostra civiltà e che il Teatro, fragile invenzione che a ogni istante si disperde come l’alba discioglie i fantasmi della notte di Amleto, è gloria dell’Uomo, è espressione del suo stesso esistere. Sì, io credo che si debba parlare degli alberi e lottare per essi, se occorre. E che sia necessario avere una luce che ci guidi in tanto oscuro contemporaneo, affermando la necessità dell’Arte nella vita dell’Uomo per la sua stessa sopravvivenza».
“La barbarie è fra noi e il Maestro ce lo ha ricordato fino all’ultimo”, rimarca Stella Casiraghi, curatrice di una delle raccolte più significative degli scritti di Giorgio Strehler, evocando anche le parole terapeutiche del regista triestino: «è proprio nelle zone dove avvengono i terremoti, che bisogna tentare di costruire solide case e poi ricostruirle se crollano e tenacemente affermare la vita e la storia contro il buio, il vuoto e l’annientamento».[G. Strehler, Nessuno è incolpevole. Scritti politici e civili, a cura di Stella Casiraghi, Melampo, 2007],
Dal teatro, oltre il teatro. Con grande tenacia e lucidità politica Giorgio Strehler portava avanti, insieme al suo Teatro, anche un forte impegno civico, sottolineando, contro ogni prospettiva piccolo borghese, che sia necessario “lottare perché in una società disumanizzata e disumanizzante come la nostra, qualsiasi discorso di questo tipo rischia di essere preso per un giochetto, appunto da intellettuale. E invece io credo che bisogna dire alla politica che pensare alla felicità dell’uomo è un gesto politico fondamentale, che inventare luoghi e modi per far stare insieme la gente perché si conosca e capisca è un gesto politico fondamentale».
Dal testo curato da Stella Casiraghi abbiamo tratto, liberamente e con l’attenzione a dare conto e valore del suo pensiero, un piccolo breviario laico di Giorgio Strehler, perché rimanga accesa la luce su chi ha voluto narrare la vita, le sue contraddizioni e le sue possibilità, soprattutto attraverso il rinnovamento del teatro.
GIORGIO STREHLER: PICCOLO BREVIARIO LAICO
LA MISSIONE DEL TEATRO NELLA STORIA, 1996
Domani chiuderanno altri luoghi di lavoro teatrale. Domani toglieranno altri spazi alla parola e alla poesia. Domani avviliranno altri creatori, anche più giovani, appena essi chiederanno indipendenza e sostegno.
É la catena impietosa che stringe sempre di più “lo specchio del tempo”, il Teatro, che solo esistendo denuncia il tempo ed i suoi protagonisti, nella politica quasi sempre mediocri e indifferenti. (…) Il nostro problema è che vogliamo che il nostro “mestiere teatrale” abbia un senso, una qualità umana, poetica, storica. Vogliamo che “serva a qualcosa di grande e di alto”. Vogliamo significare qualcosa, non fare bene la nostra professione. Non ci basta più. Ho detto per tutti quello che tutti pensiamo o dovremmo sempre pensare per essere servitori del Teatro. Il mio tentativo di rompere in questi ultimi mesi gli schemi dell’abitudine anche degna, di fronte al Potere, è fallito!
IL TEATRO NELLA PROSPETTIVA DI UN’EUROPA UNITA, 1993
Compito del teatro e dei suoi servi, degni o indegni, sarà sempre quello di affermare l’impegno delle risorse interiori coscienti ed incoscienti dell’essere umano. Probabilmente il vero senso di ciò che io cerco di compiere con il teatro, e che faccio ed ho fatto da tanti anni a questa parte, è proprio questa negoziazione con l’imprevisto e nello stesso tempo con il riferimento ad una storia, ad una esperienza che sta dietro, ad un riferimento alle altre arti (poesia, musica, danza, cinema etc.), per ricostruire una ideale unità nel pubblico attraverso successivi momenti dialettici e per mostrare la comprensibilità emozionale della vita ma anche per far risuonare tale incomprensibilità, nel far presentire il mistero del non rappresentabile, di quello che sta dietro e più alto di ogni opera d’arte compiuta.
L’ITALIA DOVREBBE ESPORTARE CULTURA E BELLEZZA, 1993
Dovremmo esportare cultura e bellezza, prodotti che non conoscono crisi di mercato e non temono le oscillazioni dei cambi. Ma in Italia la cultura è una parente povera. Adesso piangono Fellini quelli che negli ultimi sei anni gli hanno negato la possibilità di fare un film. Tutto quello che di terribile è avvenuto in Italia in questi ultimi decenni, le stragi, i tentativi di golpe, la corruzione eretta a sistema non può essere imputato solo alla classe politica che ha gestito il potere. C’è stata la complicità di altre forze dello Stato e anche della maggioranza degli italiani che con il loro voto hanno sostenuto quel tipo di sistema.
QUALE ITALIA E QUALE EUROPA IN UN’EPOCA DOMINATA DALLO SMARRIMENTO?, 1992
Mi domando: si può chiamare veramente democratico un Paese come il nostro che ha milioni e milioni di disoccupati, mentre altre “democrazie” europee intorno, sono soddisfatte per averne soltanto un poco di meno? Ecco il primo versante, in povere parole, dell’essere di destra o di sinistra: la preoccupazione concreta, vissuta ed agita quotidianamente per il “terzo debole”, come dice Bobbio con una definizione, in fondo, piuttosto letteraria. Perché questo “terzo debole” è composto di donne e uomini veri, poveri, sostanzialmente indifesi, è popolo escluso dal benessere diffuso che la “Società del portafoglio” come la definisce Darendhorf, ha allargato a molti, scavando però un solco terribilmente profondo tra chi ha e chi non ha, ma pur spera di riuscire ad avere di più la settimana prossima.
PER LA PACE NON POSSIAMO ESSERE SEMPLICI OGGETTI, 1982
Un altro appello per la pace, un altro appello contro la guerra atomica: viene da sorridere, quasi. Ma c’è qualcosa di terrificante in questo sorridere, nell’essere scettico. Forse succede perché ne avrò firmati sessanta, settanta di manifesti per la pace, di cui almeno una ventina per il disarmo atomico, e siamo ancora qui, anzi va sempre peggio.
DIFENDO LA NOSTRA COSTITUZIONE, 1991
Si parla tanto di Costituzione solo per riformarla o distruggerla. Non si parla mai per cercare di realizzarla e difenderla. La Costituzione invece, nei suoi punti più alti, con la sua carica democraticamente rivoluzionaria, potrebbe essere la Dichiarazione dei Diritti dei Cittadini di una Nuova Repubblica, del tutto delineata con estrema chiarezza ma, colpevolmente, fino ad oggi, in troppe delle sue parti, denegata. E perché non anche il lume, attorno al quale si raccolga una “piccola umana schiera”, quella di cui Goethe ci parla e forse, in questo caso non tanto piccola – definita da persone umanamente ricche, coerenti ed intellettualmente vivide, disposte ad agire solo per il Bene Pubblico ed a proporsi almeno come un punto di riferimento per l’intero sistema istituzionale alla deriva?
CONSIDERAZIONI PER UN NUOVO UMANESIMO EUROPEO, 1990
Altri mattoni, di altri muri di altre Berlino dovranno essere strappati da altri uomini che non vogliono più accettare la dominazione di un Potere dogmatico ma nemmeno lo sfacelo di ogni rapporto umano, l’abisso aperto tra i Cittadini ed i Governi che dovrebbero rappresentarli, perché non c’è limite oramai tra bisogni veri e bisogni imposti, e la gente è infelice, non crede più in niente, perché le è stato insegnato come filosofia dell’esistenza che in niente si deve credere, in nulla sperare, solo vivere nella Solitudine dell’Avere, dell’Apparire, del Non Pensare, sepolta ogni emozione nel deserto del proprio cuore.
RECITARE PER LA GRANDE PATRIA, 1988
Ai tanti che in questi anni mi hanno chiesto – per lo più con scetticismo – se era possibile definire una “identità europea”, ho sempre risposto che l’idea e la realtà dell’Europa esiste, al di fuori della Politica e dell’Economia, già da secoli. Essa è qualcosa che è fitta nel fondo della nostra cultura, nel fondo della nostra arte, e lega, con un filo indissolubile di temi e di modi, i Paesi della nuova grande Patria che ci sta davanti. Il dialogo artistico, il valore della creatività, quel tanto di essenziale, in ogni cultura di ogni Paese d’Europa, quello cioè di cui nessuno di noi può fare a meno – possiamo fare a meno dei nostri Dante, Leonardo, Shakespeare, Cervantes, Mozart, Goethe, Beethoven, Verdi, Kafka, Dostoevskij e via via in un elenco che ci parla solo con altissime voci? – definiscono il profilo meravigliosamente complesso dell’uomo europeo.
CI SIAMO SCAMBIATI OMICIDI MA ANCHE MOLTA CULTURA, 1979
Ciò che univa, ciò che unirà veramente l’Europa, sarà innanzitutto proprio l’amore, la comprensione, la capacità non già di riannodare la cultura esplosa in frammenti ma di far riaffiorare più chiaramente e più coraggiosamente una cultura che nonostante tutto è riuscita a non esplodere in brandelli e a determinare il carattere distintivo del nostro continente diviso: quello della creatività. Una creatività, questa sì esplosiva, questa sì il primo segno straordinariamente unitario dell’intelligenza europea.
Ciò che ci unirà è anche la capacità – questa molto difficile da conquistare, giorno per giorno – dell’accettarsi così come siamo, diversi come lo sono gli uomini, nazioni, gruppi etnici, linguaggi. Detto questo voglio dire che se penso ad una cultura europea di fondo, quotidiana, reale, talvolta segreta, talvolta palese, penso che ci sia una cultura europea da tutti sognata (da tutti gli intellettuali, da tutti i lavoratori e da tutti gli uomini di buona volontà), ma nello stesso tempo quasi negata e a volte furiosamente proibita dalle istituzioni. Nei casi migliori, ignorata.
PARLARE DEL MONDO, 1969
Di questi tre Maestri ognuno mi ha insegnato teoricamente qualche cosa. Copeau la moralità del teatro, il rispetto quasi frenetico del testo, l’indagine filologica e nello stesso tempo la teatralità, un certo tipo di ritualità, di convenzionalità teatrale, di fondo. Mai dimenticata. Jouvet mi ha insegnato la pratica del teatro, l’amore del mestiere per il mestiere, l’abbandono al mestiere, quasi la dannazione del mestiere e nello stesso tempo (essendo anch’egli direttamente allievo di Copeau) la riaffermazione, con altri accenti, in un altro tempo storico, delle stesse affermazioni teorico-pratiche di Copeau: rigore, rispetto testuale, amore per la parola-spettacolo, ma in più ritualità, mistero del teatro, amore tenace pour les planches. Da qui, quasi una sorta di ebrietà a lasciarsi fare dal teatro, lasciarsi fare dai testi, diventare, noi stessi, testo, volta per volta. Brecht, per ultimo, mi ha dato la coscienza del mestiere di teatro. Il suo senso di lavoro umano, della sua possibilità di agire nel mondo, per trasformarlo (quel poco o tanto che il teatro può fare), il senso del valore del gesto sociale, che non esclude gli altri gesti.
COMBATTERE IL FASCISMO OCCULTO CHE E’ DENTRO DI NOI, 1975
Nel nostro Paese il fascismo ha due volti: l’uno palese, violento, cruento: è il più emotivamente identificabile, quello che spinge alla ribellione più dura. Ma non è sempre il peggiore. Non è il più difficile da eliminare: l’altro occulto, continuo che sta in ogni angolo della nostra vita civile dall’alto al basso, che sta nell’autoritarismo di ciascuno di noi, nella piccola ingiustizia quotidiana che facciamo, nell’omissione, nel disinteresse, nel gioco politico che gioca con gli uomini come con le cose, che considera il potere solo come un mezzo per essere potenti, che permette, che concede, che corrompe, che ipnotizza, che gioca su quel tanto di vile e accomodante che c’è in noi. Questo fascismo che è intollerante nel suo viso di tolleranza, autoritario e non democratico, nella sua apparente democrazia formale, questo è il fascismo che la nostra Resistenza quotidiana deve combattere.
POESIA PER RICOMINCIARE, 1992
C’è bisogno di qualcuno che non si fermi alle apparenze, che ricordi al pubblico che il mondo non si ferma all’audience, alle veline, ai tram che non funzionano… E noi che cosa ci stiamo a fare qui? Vogliamo continuare a prenderci in giro, a fare i vecchietti che si lamentano perché questo mondo non è quello che avevamo sognato, oppure vogliamo rimetterci ancora in discussione, riprovare a mettere in moto qualcosa di positivo? Il mondo è cambiato, lo so, ma penso ancora a quello che diceva Brecht: «Il mondo è cambiato? Va bene: cambiamo il mondo cambiato». Se smettessimo di sfidare noi stessi smetteremmo di essere vivi, smetteremmo di credere nel ruolo della poesia: ci metteremmo a lucidare i reperti del museo delle disillusioni. Le disillusioni ci sono, è vero, e sono tante: ma bisogna saperle mettere da parte, qualche volta, e ricominciare da capo come se niente fosse, come se le speranze fossero ancora lì, tutte davanti agli occhi, immutate: le stesse di dieci, venti, quaranta anni fa (…).
TEATRO E AZIONE, 1968
Sembra un gioco della storia, ma ritorna con una validità (forse) insospettata quella poesia, oggi famosa, di Montale che iniziava: «Non chiederci la parola che squadri da ogni lato / L’animo nostro informe. / Si qualche storta sillaba e secca come un ramo» e finiva: «Codesto solo oggi sappiamo dirti ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». Fu il manifesto, quasi, d’una poesia che oggi ci appare di rivolta, non solo contro il fascismo ufficiale d’allora, ma contro quel fascismo non ufficiale che è un po’ un modo d’essere. Oggi, lo rileggiamo di nuovo, quel manifesto, e si comprende meglio come la poesia aveva toccato il cuore di un problema, non contingente, ma eterno. Ed ecco che anche noi, uomini di teatro, da sempre messi ai bordi della cultura ufficiale e d’avanguardia (cultura che tante cose sa, meno la più importante, appunto: di non essere “sicura e di se stessa amica”), ci mettiamo a parlare di cultura cerchiamo di fare cultura, proprio partendo quasi dalle catacombe della cultura, dalle catacombe dell’ignoranza: del
“non sapere”, insomma.
NON DIMENTICARE. DISCORSO SULLA RESISTENZA, 1996
La vita si difende ad ogni ora, la resistenza all’ignobile, al falso, al basso, quindi alla corruzione, alla politica intesa solo come strumento di piccolo o grande potere e niente altro, è qualcosa di quotidiano, è qualcosa che continua, è qualcosa che deve essere combattuta nella vita di ogni giorno da ciascuno di noi che voglia con diritto chiamarsi “cittadino”. Essere cittadino, non un’entità solamente fisica, è un titolo d’onore che si conquista con le opere.
COME DIRIGO, 1955
Non crediate al cinismo della meccanicizzazione, nel teatro.
Il teatro proprio perché teatro, anche mentre si sta preparando, è sempre e soltanto un profondo atto d’amore, un atto completamente “umano”. Richiede sempre, una illimitata sottomissione ai battiti del proprio cuore. È un esercizio spirituale e físico al tempo stesso, nel senso più completo della parola. Un esercizio pericoloso e difficile, che può essere svolto solo a costo di un totale, assoluto abbandono di sé.
UN TEATRO NUOVO PER RIAFFERMARE LA VITA, 1978
In un momento di crisi nazionale così profonda, uno dei mezzi per lottare contro il dissolvimento in atto non è praticare una retorica rivoluzionaria a paro-le, ma praticare più onestà, più giustizia nella vita civile di ogni giorno e costruire leggi, organismi, sistemi diversi, migliori di quelli esistenti. È proprio nelle zone dove avvengono i terremoti, che bisogna tentare di costruire solide case e poi ricostruirle se crollano e tenacemente affermare la vita e la storia contro il buio, il vuoto e l’annientamento. In questo contesto anche l’apparente assurdo di “costruire una nuova ipotesi di teatro” è un gesto rivoluzionario, un gesto attivo, una sfida alla dissoluzione.