Guerre, omicidi, femminicidi, infanticidi, violenze. Sono certamente queste alcune delle barbarie – tema a cui viene dedicato l’agosto di Passione e Linguaggi – più eclatanti che segnano il nostro tempo. Ma è proprio nelle pieghe del nostro vivere che, invece, si nascondono quelle barbarie che, pur essendo forse meno evidenti, sono più striscianti e più capaci di condizionare il nostro modo di stare insieme e il nostro futuro. Sono proprio queste barbarie che troverete indagate in questo numero della nostra rivista.
Dietro ogni “ultimo” della nostra società si nasconde sempre un’ingiustizia – e una barbarie – che attende di essere risolta. Se non per convinzione, almeno per convenienza. Angelo Righetti, psichiatra basagliano, protagonista della gloriosa stagione in cui il nostro Paese seppe chiudere i manicomi immaginando una cura diversa fondata sulla persona, ci spiega spesso come partire dagli ultimi sia un valore civico ma anche economico: investire sugli ultimi genera benessere collettivo. E quindi l’ultimo – leggasi povero, fragile, malato – deve diventare protagonista di un investimento collettivo perché «senza dare valore a ciò che scartiamo non esiste valore per il resto. Il nostro valore è quindi dentro lo scarto, dentro le fragilità. La nostra bellezza è lì dentro ed è lì che va sviluppata».
Abbiamo, davanti a noi, numerosi esempi, forse troppo poco conosciuti, che hanno saputo trasformare quel tipo di barbarie nel propulsore per lottare contro le cause che le generano promuovendo giustizia e solidarietà.
«In un’epoca priva di parole forti, quelle di don Virginio Colmegna colpiscono, tagliano, affettano, indignano, amplificano le voci silenziate dei poveri, autorizzano a pensare che cosa sarebbe Milano senza quel battaglione della carità che negli anni ha scavato una trincea contro gli egoismi e gli opportunismi, senza quei profetici visionari con il vizio di andare controcorrente per far fare un passo avanti a chi è rimasto indietro». Inizia così la prefazione dell’editorialista del Corriere Giangiacomo Schiavi al libro “Don Colmegna: al centro dei margini” che ho avuto la fortuna e l’onore di pubblicare proprio un anno fa.
Quella che pone Schiavi è una domanda fondamentale che vale per Milano quanto per ogni angolo del mondo a partire dalle grandi città che, sempre più, stanno diventando luoghi in cui nascono complessità e si consumano vite e contraddizioni.
Don Colmegna, che ha compiuto 79 anni proprio mentre scrivo questo editoriale, è uno di quelli che ha saputo camminare accanto ai tanti “abitanti dei sotterranei della storia” come li definiva Frei Betto. Gli esclusi dai servizi, dalle possibilità, dalle opportunità, dal futuro. Persone schiacciate in un eterno presente, incapace di immaginare il domani sotto il peso, troppo forte, del dover sopravvivere. Quelli che oggi, in modo errato e vergognoso, chiamiamo invisibili pur sapendo, invece, che sono persone che vediamo benissimo ma che preferiamo nascondere dietro quell’aggettivo per giustificare il nostro immobilismo, la nostra cecità sociale e la nostra indifferenza.
Don Virginio ha scelto infatti di collocare il suo punto di osservazione nei “margini”, dove meglio si avvertono i cambiamenti, per interrogare la società e le sue contraddizioni. Dall’incontro con le persone, e da una straordinaria capacità di lettura dei bisogni, ha saputo immaginare risposte innovative promuovendo attività sociali che, in molti casi, hanno anticipato i tempi. Il senso di tutto ciò si può riassumere in una straordinaria cultura del dono che trasforma l’impegno in aiuto concreto vissuto in un contesto di amicizia e spirito di comunità, convinto che nessuno si salvi da solo. Un lungo cammino a fianco degli esclusi: giovani senza scuola, operai da istruire sui diritti, immigrati del Sud in cerca di lavoro nel Nord industriale, migranti alla ricerca di una vita dignitosa, famiglie sfrattate e rom sgomberati, disabili e fragili, disoccupati. Insomma, tutte persone da rendere consapevoli della propria condizione per poi essere accompagnate verso il riscatto, contro la logica vuota e perbenista dell’assistenzialismo che lava la coscienza ma non risolve le cause.
La ricetta, per alleviare solitudini e sofferenze, è stata sempre la stessa: quel “farsi prossimo” fatto di condivisione nella «convinzione che bisognasse parlare solo di ciò che si conosce e si vive; non si potevano spendere parole vuote sulla condizione delle persone senza condividere con loro la stessa sorte e la stessa vita. Bisognava insomma provarlo sulla propria pelle. Questa comunanza e comunione lasciava degli interrogativi» come ricorda don Colmegna. Interrogativi che portano a quell’inquietudine che spinge a organizzare speranza e a scatenare positività.
Ugo Morelli e Vittorio Gallese (Cosa significa essere umani? Raffaello Cortina Editore, 2024) scrivono, infatti, che «la più diretta forma di esperienza dell’altro è quella che ci fornisce l’empatia, cioè la capacità di sentire con l’altro. Proprio quel sentire dice che c’è qualcuno che sente con l’altro e quel qualcuno è ognuno di noi». Per poi aggiungere: «Si ribalta completamente la prospettiva secondo cui il riconoscimento permette la condivisione: in una relazione empatica accade esattamente l’opposto. È solo grazie alla condivisione che è possibile il riconoscimento dell’altro come nostro simile e, quindi, otteniamo un’evidenza del mondo interpersonale che per noi è naturale proprio perché con quella evidenza noi risuoniamo, non ci aliena e non è un problema da risolvere. L’altro non è un enigma da decifrare con l’ausilio di una teoria; non c’è un golfo epistemico da colmare come invece accadrebbe come conseguenza necessaria muovendo da un’idea della relazione interpersonale centrata esclusivamente sulla relazione tra due cogito. Nella misura in cui il cogito non ci è immediatamente accessibile noi avremmo un problema da risolvere e (…) tale problema lo si può risolvere solo ricorrendo a una teoria dell’altro cogito, cioè dell’altro io, dell’altro soggetto. Vediamo, quindi, come l’empatia sia un fenomeno, una modalità di relazione che non può esistere a prescindere della relazione. Mentre un rapporto interindividuale che fosse fondato sul cogito, quindi sull’apparato esclusivamente cognitivo che mette tra parentesi il corpo, porterebbe a una conoscenza tra due solipsismi».
Anche il Personalismo Comunitario di Emmanuel Mounier indica nella relazione con l’altro la strada che ci costituisce persone e genera la comunità, un pensiero capace di dare luogo a una fraternità vera e non ideologica, invitando ad aprirsi all’incontro. Ecco, sono queste le direttrici sulle quali don Colmegna ha trovato la forza per contrastare l’indifferenza e l’individualismo, prendendo a cuore i poveri e prendendosi cura della loro condizione. Sempre convinto che l’incontro e la conoscenza dell’altro sono in grado di sciogliere ogni forma di pregiudizi e paure, aprendo davvero all’incontro.
Ecco, questa è la dimostrazione che si può fare. Che si parli di guerre, violenze, lavoro nero, caporalato, povertà, mobbing, crisi climatica, migrazioni. Mettendo al centro le relazioni e aprendosi all’altro potremo tornare a scoprire la bellezza dell’utopia degli ultimi, del “sortirne insieme”, dello starnutire impegno civico dopo aver respirato la polvere dell’ingiustizia.