Declino il concetto di “barbarie” con quello di “atteggiamento barbaro”, ossia che offre una gamma di pratiche e opportunità per facilitare lo smantellamento di alcuni punti di vista. Tra le forme di barbarie del nostro tempo troviamo una generalizzazione che identifica la letteratura come mero passatempo o, viceversa, mero atto intellettuale. Sembra non esserci spazio per una visione della letteratura così come viene intesa da Joseph Carroll: «la letteratura e le altri arti sono strumenti di orientamento, come le bussole, i sestanti e i sonar, e sono vitali per lo sviluppo personale, per l’integrazione delle identità individuali all’interno di un ordine culturale e per l’adattamento immaginativo dell’individuo all’intero mondo più ampio in cui vive» (2019, p. 31).
A questo si aggiunge un rapporto con la pagina scritta, con la tecnologia alfabetica, che si limita alla bontà di funzionamento: le parole, nell’esperienza comune, non rinviano più a mondi possibili e impossibili, ma vengono fruite con un’attenzione insufficiente nello stile di recupero delle informazioni. In questo senso, troppo spesso, anche un racconto letterario diventa un semplice testo.
Riconoscere nella letteratura un contenuto di un oggetto commerciale – il libro – ha contribuito e tuttora contribuisce a trasformare il tipo di relazione che con questo oggetto gli esseri umani possono instaurare. Vista in questi termini, questa relazione, si limita ad essere una serie di operazioni visive per l’accumulo di sapere o, al massimo, come detto in precedenza, per passare il tempo ed evitare la noia. Siamo molto distanti, dunque, dalle rilevazioni di Marcel Jousse, che nel suo L’anthropologie du geste (1974) e ne La manducation de la parole (1975) delineava tra lettore e libro un rapporto costituito da tecniche psicomotorie volte a fissare nella carne una sequenza parlata.
La posizione di Jousse veniva così approfondita da Ivan Illich: «Egli ha dimostrato che, in molti individui, il ricordo equivale all’attivazione di una sequenza precisa di comportamenti muscolari con i quali le espressioni verbali sono collegate. Il bambino cullato dal canto di una ninnananna, i mietitori che si curvano al ritmo di un canto di mietitura, il rabbino che scuote la testa mentre prega o cerca la risposta giusta, oppure il proverbio che viene a mente solo dopo aver picchiettato per un po’ con le dita, secondo Jousse non sono che alcuni esempi di un diffuso collegamento tra la parola e il gesto. Ogni cultura ha conferito la propria forma a questa complementarità disimmetrica bilaterale in virtù della quale certi enunciati sono incisi a destra e a sinistra, davanti e dietro nel tronco e nelle membra, e non soltanto nell’orecchio e nell’occhio» (1994, p. 57).
Vandalizzare la letteratura significa anzitutto incidere sulla percezione che le persone hanno delle opere e dell’oggetto-libro. Per questo, è indispensabile riorientare tale percezione; si può partire dall’identificare la pagina come “zona” (Del Giudice docet) che trattiene in sé un vasto bacino di significati che si incontrano e scontrano con le esperienze psicologiche pregresse del lettore. Proprio a cominciare da questo vissuto (riconoscimento), il lettore può sentire di avere tra le mani un oggetto a diretto contatto con le equilibrazioni psicofisiologiche. Lo stato alfabetico transfuga nell’immaginale (nello spazio mentale), fino all’incorporazione. È di secondaria importanza se i contenuti incorporati coinvolgono i muscoli o i modelli mentali: in questa sede non si operano distinzioni, perché è la persona in tutta la sua biologia ad essere attraversata dal flusso narrativo.
In merito al rapporto con l’oggetto-libro, che non è solo un rapporto tra l’occhio e la tecnologia alfabetica, Umberto Eco afferma: «Sono alcune migliaia di anni che la specie si è adattata alla lettura. L’occhio legge e tutto il corpo entra in azione. Leggere significa anche trovare una posizione giusta, è un atto che interessa il collo, la colonna vertebrale, i glutei. E la forma del libro, studiata per secoli e assestatasi sui formati ergonomicamente più adatti, è la forma che deve avere quest’oggetto per essere afferrato dalla mano e portato alla giusta distanza dall’occhio. Leggere ha a che fare con la nostra fisiologia. […] Il ritmo della lettura segue quello del corpo, il ritmo del corpo segue quello della lettura. Non si legge solo con il cervello, si legge con il nostro corpo tutto intero, e per questo su un libro si piange, si ride, e leggendo un libro del terrore ci si rizzano i capelli sul capo. Perché, anche quando sembra parlare solo di idee, un libro ci parla sempre di altre emozioni, e di esperienze di altri corpi» (2006, pp. 25-26).
Che fare, dunque, di fronte a questa arretratezza, a questo depotenziamento del valore della letteratura, a questa semplificazione descrittiva e percettiva del legame che unisce il nostro corpo (la nostra persona, tutta) all’opera letteraria? Dovremmo, forse, con George Steiner e Ivan Illich, sognare anche noi che, al di fuori del sistema educativo, ormai orientato verso funzioni completamente diverse, ci possa essere una sorta di case della lettura, simili allo shul ebraico, alla medersa islamica o al monastero cristiano, dove i pochi che sentono viva la passione per la lettura possono incontrare l’opportuna guida e una compagnia con cui attraversare la lunga iniziazione ai molteplici stili d’interazione con le storie, con le ambientazioni e gli esseri di fantasia.
Ma non sarà troppo? In questo caso, allora, in famiglia e a scuola, si dovrebbe ripartire dalla radice, ossia dai sensi considerati meno coinvolti durante la lettura. Qui, e non solo per i bambini, potrebbe venirci in soccorso Bruno Munari. Con le parole di una sua allieva, Beba Restelli: «Munari realizza i primi libri plurisensoriali in Italia, si chiamano Prelibri, sono libri-oggetto, senza parole, per bambini che ancora non sanno leggere, ma che sono lì presenti con tutti i sensi, curiosi, con la voglia di scoprire cose nuove e di fare le cose che fanno i grandi […] Sono libri “illeggibili”, ma con stimoli visivi, tattili, sonori, termici e materici, pieni di sorprese. Fatti per aiutarli a immaginare, a fantasticare, a essere creativi. I Prelibri, in particolare quelli tattili, sono dunque frutto delle esperienze culturali e artistiche associate ad un’attenta osservazione e frequentazione dei bambini e a una profonda conoscenza della psicologia infantile. Si tratta di dodici piccoli libri, di carta, di cartoncino, di cartone, di legno, di panno spugna, di friselina, di plastica trasparente, ognuno rilegato in modo diverso».
Per fare fronte all’arretratezza culturale che troppo spesso identifica il libro con gli oggetti stampati che teniamo nei nostri scaffali, pacco di fogli fabbricati a macchina, coperti di segni tipografici e incollati sul dorso, forse, bisogna davvero ripartire dalla risonanza con la materia (dalla cura del libro e dei momenti che ad esso ci uniscono), e solo poi, a tempo debito, coltivare un altro tipo di risonanza, più profonda, con gli esseri di fantasia. Una risonanza che può propagarsi per tutta la durata della vita.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Carroll, J. (2007). The Adaptive Function of Literature. In C. Martindale, P. Locher, e V.M. Petrov (a cura di), Evolutionary and neurocognitive approaches to aesthetics, creativity and the arts, London, Routledge, pp. 31-45.
Eco, U. (2006). La memoria vegetale e altri scritti di bibliofilia. Milano: Bompiani.
Illich, I. (1994). Nella vigna del testo. Per una etologia della lettura. Milano: Raffaello Cortina.
Jousse, M (1974). L’Anthropologie du Geste. Paris: Gallimard (trad. it. L’antropologia del gesto, Edizione Paoline, Roma, 1979).
Jousse, M. (1975). La Manducation de la Parole. Paris: Gallimard (trad. it. La manducazione della parola, Edizione Paoline, Roma, 1980).
RIFERIMENTI SITOGRAFICI
https://www.sed.beniculturali.it/index.php?it/183/bruno-munari-la-polisensorialit-e-i-bambini